di Enzo Nicolodi –
Ci siamo.
Raddrizzo lo schienale della poltrona mentre un improvviso cambiamento del rumore di fondo mi distoglie dalle fantasticherie di questo mio primo viaggio.
L’aereo inizia a vibrare, i motori a ruggire, l’altoparlante a gracchiare. E’ dal decollo che attendo con eccitazione questo momento; ora e’ sopraggiunto.
Un vuoto d’aria energicamente mi anticipa l’ebbrezza dell’atterraggio a Port o Prince, dal finestrino le nuvole da candido tappeto divengono un imbronciato cielo.
Ma come e’ che decisi di venire in questa sperduta isola dei Caraibi?
Fu proprio un caso…
“Ci sono voli per il Nicaragua?”. “Tutto esaurito”. Aveva risposto la biondina dell` agenzia
“E voli per Cuba?” “Mi dispiace anche per l’Avana nulla da fare”. “Senti allora dammi uno scalo che sulla carta geografica si trovi vicino al Centro America e poi da lì in qualche modo arriverò a Managua”.
Il Nicaragua: la rivoluzione Sandinista, Daniel Ortega, l’ impegno di migliaia di volontari. Che stimolo eccezionale per viaggiare, per vivere da vicino l` entusiasmo per la fine della dittatura di Somoza ed il tentativo di costruire una soluzione originale ai tragici problemi del Centro America.
Avevo già vissuto i giorni della pacifica rivoluzione dei garofani nel Portogallo del 1974 dopo la morte del dittatore Salazar, con le giornate trascorse in Piazza del Rossio a Lisbona, tra i carri armati del colonnello Carvalho coperti dai fiori della pace in compagnia di migliaia di giovani accorsi a festeggiare il ritorno in Europa di quel giovane paese.
Ed ora volevo andare in Nicaragua, ma il destino, come avrei poco dopo saputo, mi avrebbe portato ad Haitì.
Infatti.”Ecco ho un volo Air France per Haitì, ti va?” disse sorridendo la biondina.
Guardai distrattamente il globo stirato sotto il ripiano di vetro del bancone dell` agenzia, pensai un attimo alle poche miglia di mare tra l` isola ed il continente centroamericano, dissi di si con un rapido cenno del capo e mi accomiatai facendo il classico occhiolino alla biondina. Mi ritrovai in strada con il biglietto in tasca ed il cervello in subbuglio.
Bastò; poco. Qualche telefonata per annunciare la partenza, quattro cose buttate nello zaino, l` ultima raccolta di Corto Maltese sotto il braccio in onore di Hugo Pratt e via verso i mari del sud.
Così eccomi qua in cielo sopra Port au Prince.
Il Boejng 747 della Air France mi porta diritto verso l’isola del Voodo. Immagino le sue enormi ruote uscire come artigli pronti a ghermire la pista di atterraggio che in lontananza vedo vibrare.
Sotto il Mar dei Caraibi, chiazzato dai variopinti banchi di corallo, ondeggia, ubriaco di luce.
Chiudo gli occhi.
Mi lascio trasportare dal rollio e dalla perdita di quota. Mi preparo al delicato tocco di questo bestione di acciaio sull` asfalto della pista. Il buio mi aiuta a cogliere la straordinarietà di questo momento. La pacha mama, la madre terra degli indios, un po’ madre ed un po’ matrigna e’ ogni volta una scoperta entusiasmante.
Rimango con gli occhi chiusi ancora un po` dopo che il jumbo si e’ fermato. La sensazione e’ piacevole. L` applauso liberatorio che scarica la tensione del volo. Il brusio dei passeggeri che si ammassa verso il portellone d` uscita. Il denso soffio di aria condizionata sul viso.
Una lama di sole penetra dalla bocca della carlinga ed illumina le prime file dei sedili della businnes class. Mi apre gli occhi sulla nuova realtà ma una volta all `aperto la forte luce del giorno mi acceca.
Un centinaio di metri mi separano dall’ entrata del basso aeroporto. Cento faticosissimi metri su larghe piastre di cemento che, sotto i piedi, tremano per il calore. Li faccio al ritmo di una bizzarra musichetta vagamente caraibica. Vomitata di fretta nell` aria da una band appesantita dagli anni e dal pessimo ruhm dell ` isola.
E’ il benvenuto ufficiale agli stranieri prima che si trascinino sudati verso gli uffici doganali di Port o Prince,la capitale dell’isola Hispaniola.
Il nome moderno e’ Haitì. L` isola del presidente Duvallier, Papa Doc il dittatore. Le sorti del paese più povero del mondo sono da alcuni anni rette dal figlio Baby Doc, e dai suoi ferocissimi pretoriani e famigerati killer, Ton Ton Macote. Un candido palazzo bianco e’ la sua dimora. Un prato all’inglese, perennemente annaffiato, lo tiene lontano dai suoi sudditi che di tanto in tanto sbirciano attraverso le nere inferiate dei cancelli, per rubare qualche attimo di vita regale. Con la sue Cadillac sfreccia, scortato, per le strette ed affollate vie di Port o Prince. Tra ali di baracche di cartone, vola verso i campi da golf nella zona dei grandi alberghi e delle lunghe spiagge bianche.
Penso a Graham Greene. Ambientò; in questa isola, vicina alla Giamaica ed a Cuba, uno dei suoi romanzi più riusciti. Un atto di accusa contro le barbarie della dinastia Duvallier. Fece conoscere il triste destino di milioni di haitiani,di quelli rimasti in patria costretti a vivere nel terrore. Degli altri, rifugiati nei ghetti nord americani o sugli atolli vicini ne parla la cronaca dei giorni nostri.
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“Italianos, italianos, mala gente”.
E’ fatta, pensai, questa mi tiene quì tutto il giorno, ne ha tutta l ‘ aria. Grassa, sudatissima, porta la divisa da poliziotta ma mi osserva come un gangster della Chicago anni 3O.
Eppure mentre soppesa il passaporto come fosse un etto di prosciutto cotto, penso che non mi e’ antipatica. Mostra i denti ma i suoi occhi enormi e brillanti incorniciati da un faccione nerissimo, affascinano. C’e’ Haiti, dentro quello sguardo ostile. Ostile nei miei confronti come nei confronti di tutti i bianchi che qui atterrano, e dopo essere stati prelevati dai bus navetta dei super Hotel, planano pesantemente nelle loro stanze super accessoriate con le finestre bloccate se no l’ aria fresca scappa fuori a refrigerare la povera gente.
La capisco. Ma ciò; non basta per addolcire il suo atteggiamento che ancora più severo diviene quando alla vista di decine di persone che innalzano dei cartelli con sopra scritti dei nomi, incautamente esclamo “Desaparecidos”. Niente di tutto ciò;, ma per lei poliziotta del regime di Duvalier, probabilmente corrotta e certamente complice, questo deve essere bastato per confermarle ancora di più quanto pericoloso potessi essere.
Il suo sguardo mi segue. Esco da questo sgangherato aeroporto e vengo preso in consegna da altri sguardi che mi accompagneranno durante tutto il periodo di permanenza nell ‘ isola.
Stringo in mano l’indirizzo di un hotel dove mi hanno obbligato a prenotare.
La lista degli Hotel ne contemplava decine dai 7O dollari in su, la mia scelta e’ caduta naturalmente sull ‘ Hotel Holliday, in Avenue Dessalines, pieno centro di Port o Prince. 15 Dollari per una camera con doccia e condizionatore, una vera occasione.
Assorto nei miei pensieri mi accorgo troppo tardi che un gruppo di agitati autisti mi stanno spingendo dentro un vecchio taxi giallo.
Una robusta corda tiene il portellone della Ford anni 30 attaccato alla carrozzeria. Il volume della radio e’ altissimo, sul cruscotto sono malamente incollate santini ed immagini sacre e dai sedili spuntano minacciose le molle arrugginite..
Non so come e’ accaduto ma mi trovo, zaino, anima e corpo su questo mezzo a quattro ruote, scortato da due lucidissimi haitiani che parlano solo francese ed in mezzo a folate di polvere che si infiltrano tra le enormi fessure della carrozzeria
La vecchia Ford sbuffa mentre percorre il viale che conduce al centro città. Ansima come un vecchio, mentre la strada si restringe ed ai lati aumenta la folla.
Occhi ed ancora occhi, dappertutto. A migliaia a centinaia di migliaia, volti neri, nerissimi, sciamano ai margini del viale.
Io guardo oltre i vetri lerci della Ford, loro guardano attraverso il cristallo azzurrato della portiera. Colori vivacissimi, forti tinte. Un patchwork in perenne movimento, steso sulla miseria.
La folla… Non sta un attimo ferma, e’ in continua agitazione, La lotta per la sopravvivenza la anima, come si anima un formicaio quando sente incombente la minaccia della pioggia. Ad occhi estranei pare un vagare quasi senza senso, senza un fine preciso. Tutti vanno da qualche parte con qualche cosa.
Interrompo le mie riflessioni quando il mezzo accosta ad un lato della centralissima Avenue Dessalines, pullulante di variegata umanità. Salutato dai clacson assordanti di decine di variopinti camioncini con cassonetto in legno adibiti al trasporto pubblico, i Tap Tap, scarico il mio zaino. Affrescati con madonne cattoliche e idoli pagani e stracarichi di bianchissimi occhi, che scrutano fuori tra grandi mani nere, aggrappate alle assi come in un carro bestiame i Tap Tap si affiancano, frenano, ripartono con fragore, lasciando dietro di se lunghe scie di fumo.
Afa e umidità alle stelle. Il caldo opprimente costringe alla lentezza soprattutto i pochi bianchi che fin qui giungono.
L ‘ ingresso dell ‘ Hotel non e’ ben visibile, alcuni ragazzi mi conducono lungo uno stretto passaggio che dal portico affacciato sul viale, secondo un consueto stile coloniale, si addentra fra gli edifici della città vecchia dove si apre la reception dell` Hotel Holiday, quello da 15 dollari al giorno.
La stanza non e’ male. Guardo il soffitto scrostato. Poi vedo il condizionatore arrugginito e penso che nonostante il rumore assordante un po’ di fresco lo alita.
Il locale e’ piccolissimo, mi adatto su un materasso misura francese. Un balconcino da pericolosamente sulle scale di accesso alle stanze ed anche sul lungo corridoio che tra due pareti alte giunge fino al portico e quindi alla strada. Un punto di osservazione prezioso ed intrigante.
File lunghissime di formiche, indaffaratissime con i resti di una cucaracha spiaccicata sul pavimento del bagno, disegnano un percorso che esce dalla finestrucola posta in alto sopra il letto. In pochi minuti della cucaracha non rimane che l’involucro rinsecchito.
Sorrido all` idea che se dormo troppo a lungo….
Il condizionatore con il suo ripetuto e noioso affanno lotta contro il caldo sempre più invadente, aiutato da un ventilatore ai piedi del letto che gira avanti ed indietro a 180° e mi garantisce l’ aria e la salvezza dalle zanzare sempre più aggressive.
Il campanile di qualche chiesa cattolica dei paraggi batte le otto, sono troppo eccitato da questo luogo che mi impaurisce e nello stesso tempo mi attira. Scendo al bar a bere una cola.
Butto giù l’ultimo sorso e ne ordino subito un altra.
Dalla mia postazione, seduto al banco, su un alto sgabello, vedo oltre il corridoio la frenesia della vita che coglie chi passa il giorno in attesa della complicità della notte.
Con calma un ventilatore appeso al soffitto muove le sue pale di legno scuro. Ad ogni passaggio un alito di vento si infrange inutilmente sul mio collo sudato.
Un topo grigio sfreccia attraverso la sala da pranzo del bar e si infila in uno dei fori nel muro tra due nere scarpette verniciate di fresco che non danno cenno di vita.
Un orlo di pizzo cade mollemente da una gonna invasa da fiori tropicali e adagiata su due gambe appaiate, gemelle.
Lo sguardo che interrompe la mia riflessione e’ provocante, quel tanto che basta per non lasciare dubbi sulla sua intenzione.
Con le dita cerco il ghiaccio della coca, ma anche questo oramai si e’ dissolto di fronte al torrido approccio della bella mulatta che sta seduta qualche tentazione più in la.
Intanto arriva Ernesto, 19 anni, nero come il petrolio: ” Italiano Ah.” E via… con spaghetti, Sofia Loren, un po’ di mafia e qualche cenno all´ onore calcistico.
“Come te la passi? “gli chiedo “Vado con i turisti”. Mi risponde
” Li accompagni a visitare la città?”
” No, no mi prostituisco, sono omosessuale, mi pagano bene. Andiamo a mangiare, qualche volta saliamo fin sulla collina ed andiamo in discoteca, guarda questa cartolina viene da Milano, me l’ha mandata un amico che e’ stato qui l’ anno scorso.”
Basta coca, prendo una birra locale stavolta. Ogni sperduto posto dei Caraibi o delle americhe brinda con la propria birra. Me la allunga Manuel, barista, uomo delle pulizie, cameriere nonché proprietario dell’ Holliday, mi fa l´occhiolino e con un cenno del capo mi anticipa il ticchettio inconfondibile di passi femminili. Le scarpette di vernice nera lanciano il loro canto ammaliatore.
Tic, tac, tic, tac…
Sempre più vicine, mi passano accanto strusciando il merletto di una vaporosa gonna sui miei pantaloni di grezza tela.
Si siede sullo sgabello dinanzi a me, lo sguardo diritto verso la vita.
La vita della strada: gente che parla tratta commercia, aspetta il nulla.
Vende, frutti, merce, droga, uomini, donne, bambini. Il mercato della notte che prende lentamente lo spazio a quello del giorno.
E lei e’ Mercedes, 28 anni della repubblica Dominicana, la parte Sud di questa isola bifronte.
Corpo da modella, occhi pungenti, pupille lucenti come perle nere che si perdono in bianchissime conchiglie di madreperla.
Le mani, dalle dita affusolate, sfiorano la cornetta del telefono anni 50. Le unghie dipinte di fuoco tintinnano sulla plastica nera e i numeri scorrono in una danza infernale. Il suono che dalla cornetta proviene non lascia dubbi: occupato.
” Occupato ” mi dice ed aggiunge “Italiano?” – “Dominicana?” ribatto annuendo e mi esce una voce da Hamphry Bogart in Casablanca.
Con slancio incrocia le gambe sopra lo sgabello. I fiori sulla gonna sbocciano tutti insieme all’ improvviso e si adagiano poco sopra le ginocchia. Le calze di nylon, sfiorandosi, gemono.
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Sono molto stanco. Ore ed ore di volo, il fuso orario, il clima inusuale appesantiscono le mie palpebre ; ma e’ la sua vicinanza che paralizza la mia lingua.
Passano due ore così, con gli sguardi che si attraversano in cerca di un punto dove fermarsi.
Faccio il duro. Ho visto centinaia di volte la stessa scena al cinema.
“Sono tutte belle come te le donne a Santo Domingo?” le dico e nel contempo mi sento precipitare nel vuoto per la banalità che mi e’ uscita.
Lei, non risponde. Sorride compiaciuta e con un altro giro di danza cambia posizione ai fiori della sua gonna.
Il bar chiude, la notte e’ matura. Lentamente come ci siamo parlati e scrutati, saliamo le scale che portano alle stanze.
I condizionatori a pieno ritmo lasciano cadere rivoli d’acqua sul selciato. Pare pioggia rinfrescante, basta solo lo scroscio per innescare una illusione refrigerante.
Mercedes mi precede, scalino dopo scalino, interpreto i suoi passi, mi distraggo con le sue gambe, penso a ciò; che può; accadere ora. Che faccio?
Lei mi fa un cenno quando passiamo davanti alla mia camera.
Proseguo, entro con lei nella sua stanza. Si sdraia sul letto ed mi guarda, ed io fermo sulla soglia la ammiro.
I fiori della sua gonna ora giacciono distesi come in un ‘ aiuola rischiarata dalla debole luce di una abajour.
Una lunga fila di boccette colorate occupano il davanzale della finestrella che guarda su un giardino interno.
Sembrano tanti soldatini di un esercito arcobaleno dedito più all´ amore che non alla guerra.
Vista la situazione sono le armi del suo mestiere.
Le sta usando tutte. Continua, accattivante, a guardarmi.
Non ce la faccio, non mi va di pagare l ‘ amore. Mi appoggio contro lo stipite della porta semichiusa, prendo fiato e sparo:
” Mi dispiace Mercedes, tu mi piaci molto ma non sono abituato a situazioni del genere.
Se mi fermassi qui più tempo, ecco forse… ma così non me la sento proprio”
Siete tutti così voi italiani, parlate troppo e poi…non volete mai pagare l ‘ amore.”
Sarà anche così, ma il fatto che mi abbia preso a simbolo di una nazione mi fa veramente incazzare”
“O. k., ! o. k.!” lascio in sospeso nell` aria pesante della notte tropicale e abbandono il campo. Imbocco il lungo e spoglio corridoio che mi riporta a letto
“Esperame, Enzo, vamos a ver la noche ” mi rincorre, si aggrappa con famigliarità alla mia mano e per un cunicolo mi conduce sulla terrazza dell ‘ Hotel.
Il cielo pare abitato da mille pianeti illuminati, tanto splendenti sono le stelle. La notte cupa e buia stringe verso l ‘ interno dell ‘ isola. Sopra gli edifici del centro brillano le luci della collina dove i ricchi hanno le ville e le discoteche e dove anche l ‘ aria pare giungere direttamente dai verdi parchi del Nord America. Sotto di noi si stende la città, a tutte le ore infuocata, fin dentro l ‘ alba. Mentre sciami di Tap Tap rischiarano le sue vie poco illuminate, i canti tribali portati dal vento di mare le dedicano una disperata sinfonia.
Le parlo cerco di spiegarle da occidentale e da bianco garantito che non e’ lei che rifiuto, anzi che lei mi piace molto ma che non mi va il mercanteggiare l’amore.
“Non fai mai compromessi con i tuoi principi?”
Mi rifila con dolcezza ed io incasso come fosse una coltellata.
“Perchè fai questa vita?” Ed e’ una pugnalata che stavolta affondo io in lei. Una domanda ignobile fatta qui ad Haitì, avere la pretesa di leggere storie e vite come fossimo seduti alla Forst di Merano tra un piatto di wurstel e crauti ed una birra gelata. E poi tornarsene a casa propria accendere la TV e addormentarsi tranquilli che l’ indomani la vita ci garantirà ancora un periodo relativamente roseo.
La luna le illumina il viso e imbrillantisce i suoi riccioli neri.
” Vado avanti ed indietro dalla repubblica Dominicana, ogni quindici giorni prendo l’ autobus che sale fino in mezzo all’ isola e poi scendo all’ Holliday di Port o Prince. “
“Cerco di racimolare un po’ di soldi, qui posso prostituirmi bene e guadagnare poi compro una partita di scarpe da un commerciante di origine italiana. Li hai visti quei bazar di scarpe italiane qui sotto? Ecco faccio una valigia di scarpe e le rivendo a Santo Domingo.” Una breve pausa e poi…
“Tutta qui la mia brillante vita, non ti pare?”
Taccio.
“Ho un padre che possiede qualche campo di tabacco e cotone ma con lui pochi rapporti. Mi sono sposata a diciasette anni ho due figli che stanno con il padre. Qui mi piace, qualche volta un turista,… non sono tutti come te’, sai ?
Taccio.
“Se riesco a salire sul colle la settimana e’ assicurata, ho alcuni buoni amici che mi garantiscono qualche festa particolare, si beve, si mangia, si balla nelle discoteche sotto gli alberi, al fresco.
“Vedi, stanotte mi e’ andata male, ma non e’ sempre così e poi posso ancora recuperare qualche possibilità. MI farò; portare in qualche discoteca più abbordabile qui nei dintorni dove i funzionari ministeriali impazzano ed i militari si divertono. Querido Enzo non todo es perdido.”
“Claro?”
Taccio.
Continuo a tacere anche quando il buio della strada inghiotte l’immagine di Mercedes che con un ennesimo giro di danza vola sui sedili posteriori di una Buick azzurra.
Taccio, e nel silenzio parlano i tamburi forsennati del vudù e i fuochi tremuli del rito.
E’ luna nuova domani, ideale per il taglio del legno per fabbricare nuovi tamburi.
Passa la notte…
Passa la notte. Torrida ed umida. Solo verso le 5 del mattino l’aria rinfresca. Durerà poco la sensazione piacevole, il tempo che il sole salga all’orizzonte e svanirà la fragranza della brezza mattutina.
Alle 8 già tutto e’ coperto da un velo umido e bollente che rallenta i passi ed i pensieri.
Incolla i capelli alla fronte e ammorbidisce gli sguardi. Le pitture naif, ammassate a decine una sopra l’ altra in buie e polverose botteghe d’arte, paiono non risentire della temperatura. Schegge di luce che dalle fessure delle pareti filtrano all’interno ne vivacizzano le tinte.
Rosso fuoco, verde marcio, blu riccio di mare, giallo ocra passano da un tela all ‘ altra con rapidità. tracciano il percorso centennale di questa pittura.. Lo stile naif haitiano e’ inconfondibile, scene agresti, riti misteriosi, folle stilizzate e tanta foresta dei tropici, macchie frondose e campi brulli. Trasudano la magia dell’arte povera le cornici raffazzonate, le tele grezze e rappezzate, le scritte antiche ed illeggibili.
Ernesto mi guida attraverso i mille percorsi umani della capitale. Le strade intitolate a famosi personaggi dagli altisonanti cognomi francesi; Blvd J.J. Dessalines, Rue Oswald Durand, Rue St. Honore’, Rue Dr. Aubry ecc., si incrociano più volte, con strette viuzze senza gloria e senza nome. Anonime vie che affettano il centro cittadino lo ingarbugliano in decine di ingressi, anfratti ombrosi, bancarelle profumate di spezie, scoli di orinatoi pubblici maleodoranti, venditori di frutti tropicali, mucchi di immondizie: tutto in malsana promiscuità.
Al mercato coperto, il buio dell’interno per un attimo mi toglie la vista.
Un ragazzino mi prende per il braccio, mi offre una bambina, insiste, e’ sua sorella, forse spera per lei un futuro più certo.
Gli sguardi addosso qui dentro bruciano più del sole fuori sulla strada. Nella penombra le pupille brillano di bianco come madreperla levigata al sole dei Caraibi e mi seguono in ogni anfratto, mi scrutano. In silenzio mi interrogano.
Usciamo alla luce accecante del mezzogiorno, ci mescoliamo alla folla che sciama in ogni dove, l’Holliday Hotel non dista molto e Mercedes e’ lì ad aspettarci. Nessun accenno alla notte precedente. Come non ci fossimo mai parlati o come se ci fossimo già detti tutto in merito.
Non e’ sola.
“Ti presento le mie amiche vuoi?”
” Lavorano qui anche loro, se non ci fossero loro mi sentirei davvero sola.”
Allungo una mano sudatissima ed incasso un dolcissimo “Enchante'” da una ragazza di colore, vestita di pizzi vari, con una capigliatura bionda artificiale ed un sorriso professionale.
L’amica, più terrestre, seni e sedere raccolti in un corto abitino di raso, fa un cenno col capo e sorride.
Ritardo la siesta per l ‘ ennesima birra gelata in compagnia, mi accordo con Ernesto per la notte seguente, prima di raggiungere il mio covo.
Ernesto, sempre lui, pare mi abbia adottato. In effetti non ho incontrato altri turisti in città,
e lui si trova un po’ a spasso. Accetto mi farà da guida.
“Un rito vudù? Mi informo presso un mio amico che suona i tamburi durante i balli vudù e poi ti avviso. Non tutte le notti e’ possibile vederne uno. Bisogna pagare se si e’ stranieri.”
Ci eravamo lasciati più o meno così verso mezzogiorno.
Girato l’ angolo, Ernesto era sparito in un passaggio tra due edifici semi diroccati; ed ora sono su questo Tap Tap con lui che per rassicurarmi mi sorride continuamente e nella notte la sua bianca dentatura e’ un segnale luminoso che mi tranquillizza.
Non siamo soli. Attraverso le braccia dei compagni di viaggio vedo sfrecciare le insegne dei bazar del centro. Poi le luci si diradano, iniziano le bidonville. Migliaia di catapecchie, migliaia di uomini, donne bambini. La notte e’ illuminata ora dai deboli fuochi che riscaldano la cena al lato della strada.
Il TapTap, affonda nelle fogne a cielo aperto, risale, schiva chi dorme in strada, raccoglie per qualche metro ombre indistinguibili e lentamente raggiunge la periferia.
Man mano che le luci svaniscono, il mezzo si svuota, rimaniamo solo noi.
L’aria della notte ci asciuga il sudore sulla pelle. Il cicaleccio notturno e’ un buon presagio. La vita non sprofonda nel nero delle tenebre ed in lontananza un fuoco sul margine della strada indica la nostra ultima fermata.
Restiamo soli, illuminati dal fascio di luce ondeggiante di una torcia. Percorriamo, in silenzio, uno stretto sentiero, delimitato dal fuoco di altre basse torce.
Un penetrante odore di ruhm vaporizzato ci accoglie quando giungiamo al luogo prescelto per il rito. Mezzanotte oramai e’ passata da un po’. Il fuoco attizzato sotto l’albero prescelto dall `Houngan e dalla “Mambo”, arrossa i volti dei presenti. Un folto gruppo di haitiani e’ in attesa, tra loro qualche bianco giunto fin lì accompagnato da persone fidate.
I tamburi iniziano a far sentire la loro voce al cospetto della notte. Bussano alla porta del mondo degli spiriti, i Loa.
La vecchia quercia di cui sono fatti, tagliata in una notte di luna pura, vibra alle percosse dei battitori.
I loa non protestano. Ogni tamburo e’ a loro dedicato secondo il colore cui e’ consacrato.
Canti e lamenti di origine cattolica si fondono con la ritualità pagana. Il vudù, portato dagli schiavi, durante la tratta dal Dahomey e dai paesi del Golfo di Guinea, si e’ diffuso con nomi diversi in molti paesi dal Salvador al Brasile, ma questo di Haiti e’ il più vicino al rito africano originale.
Ad Haiti e’ la gente povera della periferia e quella dei villaggi che pratica con convinzione il Vudù, che ne ricerca la magia e il mistero, che ne pratica la danza ed il culto.
Cinque donne, vestite di bianco, iniziano la danza sferzate dai tamburi percossi con estrema violenza. Ingurgitano sorsi di ruhm e lo spruzzano sul fuoco. L’aria si impregna di alcol aromatizzato.
Sale il ritmo e le donne ancora più violentemente si dimenano. Scuotono il capo come fosse un fascio di spighe sbattuto per toglierne il grano.
I corpi assumono posizioni oscene, mimano l`atto sessuale. La danza apre il ventre alla madre terra e lo spirito al mondo dei Loa. Calamità e disgrazie, povertà e malattie vengono così esorcizzate con l’aiuto del rito magico ed arcaico.
Calici di cristallo vengono frantumati e masticati, colombe bianchissime sono decapitate a morsi e poi lanciate. Le donne in trance circondano l ‘ Houngan, muovono il corpo alla seduzione ed infine dopo un crescendo di suoni, gesti, mosse e lamenti, tutto tace.
Un’ ora e’ passata.
La tensione si allenta, mentre in silenzio il popolo della notte ritorna nelle tenebre.
Il fuoco brucia opaco. L’ultimo ciocco si consuma, quando noi, quasi all ‘ alba, siamo sul lato della strada in attesa di un mezzo che ci riporti a Port o Prince.
Le torce fredde e nere puntano il cielo chiaro dell` orizzonte.
Per incanto appare un Tap Tap e come in un sogno a ritroso in poco tempo sono nella mia stanza.
Il ronzio del ventilatore si fa sempre più tenue, il volto di Mercedes si sovrappone alle danze indiavolate delle sacerdotesse Vodù.
E’ a lei che penso.
Domani, Mercedes… domani…e l` alba mi sorprende nell` attimo in cui affondo in un sonno agitato e poco ristoratore.
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