di Giovanna Salvadori –
L’Africa ha occhi grandi, innocenti, disperati, rassegnati, ridenti, ha occhi che chiedono, ha occhi che ringraziano:l’Africa ha mani che si tendono, che salutano, che si stringono, l’Africa ha tutti i mali del mondo, le migrazioni e le carestie, le piogge e la siccità, tutto viene dal cielo, tutto viene perchè un essere invisibile lo vuole, tutto viene accettato quasi con indifferenza o rassegnazione.
Le jacarande sono fiorite sull’altipiano, fioriscono fra le capanne di fango, fra i campi brulli che aspettano la pioggia, fra i resti degli orrori della guerra, fra i relitti dei camion e dei carri armati incendiati che ancora fiancheggiano minacciosi il bordo della strada che va dal l’Asmara al Lago Tana. Qui i fragori della guerra hanno echeggiato a lungo, hanno mietuto vittime con la falce della morte e i bambini che non sanno si arrampicano sulle torrette per giocare a un gioco antico come il mondo.
Non mi riesce vedere questi piccoli esseri color della terra con distacco, non mi riesce accettare passivamente che un ragazzo si inchini e faccia il gesto di baciarmi i piedi per una penna biro, non mi riesce non piangere quando un bambino di tre o quattro anni solo a badare alle capre mi prenda la mano e la stringa forte, sorridendo, per una caramella, non mi riesce pensare al ragazzo con il mal di denti a cui ho dato un cachet e che mi dice che mi ricorderà per sempre, non mi riesce non vedere gli stracci, le piaghe, le anomalie, le disgrazie e vorrei avere tanto da dare per non dovere mai dire di no, per non dovere più dire finito, per non dover deludere chi è arrivato più tardi.
Sull’altipiano a 3500 m. il paesaggio è brullo, i banchi delle nuvole corrono veloci sospinte da un vento che non trova ostacoli, eppure anche quì i contadini arano confidando nelle prossime piogge. Rettangoli verdi di pascolo si incuneano fra i sassi ele pietraie, piccoli cuscini di erba con i fiorellini viola come i ciclamini ammorbidiscono la durezza del paesaggio. La vastità dell’orizzonte non ha limiti, c’è sempre qualcosa al di là di quello che l’occhio può vedere, si scende un pò e ritornano gli eucalipti e le euforbie, poi ancora più giù i cactus dai fiori rossi le siepi di cardo fiorite con i fiori che sembrano batuffoli di cotone e i fichi d’India gialli come il sole.
Ma l’altipiano ha anche il colore del fango, marroni sono le capanne di sterco e di paglia, marroni i tetti spioventi, marroni gli uomini, le donne e i bambini che vivono una vita primordiale quando un pò più in là si va sulla luna.Gli occhi dei bambini sono la cosa più viva, si affacciano su un mondo che è così da secoli e che non credo che possa cambiare così come non possono cambiare i mali atavici che affliggono questa gente che molte volte possiede solo uno straccio come vestito e a volte è fatto solo di rammendi e l’avere un sacco per ripararsi è privilegio di pochi.
La ragazza incontrata per la strada è bellissima, molto giovane, porta sulle spalle un fagottino con un bambino piccolissimo che si sporge dal telo con gli occhi sgranati, la ragazza ci fa segno se le diamo qualcosa da mangiare, alla vista del pane alza le mani al cielo come per una benedizione, poi tende le mani con religione, prende le mie mani, le bacia e poi fa il gesto di inginocchiarsi per baciarmi i piedi, si rimette in cammino, si volta e ci benedice ancora.
La pioggia che ha lavato l’altopiano si è allontanata, larghi sprazzi di azzurro illuminano le montagne che si estendono a perdita d’occhio, carovane di asini carichi seguiti da uomini e donne fiancheggiano la strada con i branchi delle capre e le mandrie di buoi e di vacche dalle lunghe corna ricurve come una falce di luna, ed è come se fosse un esodo o una migrazione senza fine.
Fumo che Tuona così si chiama il Nilo quando scende con fragore nella cascata di Tissisat poco dopo la sua sorgente. Il vento porta gli spruzzi dell’acqua tutt’intorno e l’arcobaleno nasce dalla spuma per fermarsi fra il verde degli alberi e l’azzurro del cielo. Forse è per questo azzurro, per questi orizzonti infiniti, per le piccole gazzelle che fuggono nelle savane, per le carovane lente dei dromedari, per i silenzi e il “NULLA” dei deserti che io ritorno qui.
Forse il cavallo sentiva la primavera o forse aveva voglia di giocare, non so, so che all’improvviso si mosse, ci guardò e cominciò a trottare nel mezzo della strada davanti a noi, scartando abilmente quando tentavamo di superarlo. Non era un bel cavallo, era sgraziato di vari coloro, con la coda spelacchiata e il muso grigio come la cenere, come se avesse avuto una maschera. Qualche volta andava al galoppo poi si fermava bruscamente con la testa piegata di lato, ci guardava forse sfidandoci in una corsa e riprendeva a galoppare evitando tutti quelli che lo volevano riprendere. Delle volte lo perdevamo di vista perché lui prendeva delle scorciatoie attraverso i campi ma poi lo ritrovavamo ironico e beffardo davanti a noi. Quando a una curva della strada non lo ho visto più mi è dispiaciuto, chissà dove sarebbe voluto andare con quel muso grigio e quell’andatura sgraziata….
La frontiera fra Etiopia e Eritrea è uno spago messo fra due pali di legno in mezzo alla strada. E’ tardi, la frontiera chiude alle sei quando fa buio, così dopo varie consultazioni si è obbligati a rimanere quì per mangiare e dormire in questo paese che si snoda lungo la strada, dove non c’è nè acqua nè luce. Il cielo è nero, solo a tratti le nuvole si aprono per far intravedere le stelle e la luna che forse è già al primo quarto.
Il posto dove si mangia è chiassoso, c’è un gran via vai e una radio va a tutto volume. Le pareti sono dipinte di verde e il soffitto è decorato da festoni natalizi, la cena è ottima, basta non guardare, si mangia con le mani e si beve birra fra gli sguardi stranamente sfuggenti e interessati. L’albergo ha un bar con due tavolini e qualche sedia illuminati da una lampada a cherosene, sugli scaffali solo bottiglie vuote.
Alle camere si accede attraverso una stanza buia e un piccolo cortile sterrato, la mia camera è la n° 6, una cella di due metri per due, una branda e una sedia, senza luce nè finestra, solo un buco in alto che comunica con le altre camere e una porta di ferro. Mi congratulo con le vaccinazioni che ho fatto, ma non c’è vaccinazione contro la paura, così mi infilo nel sacco a pelo e spengo la pila per non vedere.
La strada per Massawa è un cimitero senza croci, è un cimitero fatto di case distrutte, di mezzi incendiati e di macerie dove ancora aleggia l’eco degli spari e l’odore acre che segue sempre ogni guerra, Il cielo è grigio, quasi plumbeo ma il sole non avrebbe certo rallegrato questi orizzonti di morte, più avanti le baracche di lamiera sono ancora più disperate delle case distrutte, qui esuli e rifugiati aspettano un futuro con ben poca speranza. Fra i boschi di acacie ci sono invece i cimiteri veri, cimiteri fatti di pietra e di lattine vuote dove forse riposano i militari e i guerriglieri finalmente in pace.
Massaia è una città morta dove la gente vive, lavora, va dal barbiere e si siede al caffè. Mostra le sue ferite davanti al mare, la guerra qui è stata lunga e feroce, era da tanto tempo che non vedevo macerie, case distrutte che mostrano quasi oscenamente i resti di quello che contenevano, un frigorifero, reti arrugginite, materassi sventrati, ventilatori a pale dove ora ci stanno appollaiati i piccioni, stazioni ferroviarie che non esistono più con rotaie divelte e lunghe file di vagoni fantasma. La gente vive fra le rovine delle case forse timorosa di perdere anche quel poco rimasto o nelle baracche di lamiera tirate su in fretta ai margini della città. Sul lungomare le case colorate con i portici in stile arabo cercano di vivere ancora, qualche bottega è riaperta, qualche bar ha rimesso fuori i tavolini ma il tetto non c’è più.
All’Asmara si parla ancora italiano, si va al Cinema Impero, al Bar Follia dove si gioca a bigliardo e al Ristorante Roma che promette lasagne e maccheroni, molte insegne di negozi hanno ancora i nomi italiani di chi è venuti qui a cercare fortuna. Quando sentono parlare italiano molti vecchi alzano la mano in un saluto che qui non c’è più e raccontano la guerra che hanno vissuto tanti anni fa. Nella campagna intorno all’Asmara restano i ruderi delle ville dei gerarchi con i lunghi viali che arrivano dalla strada e i porticati deserti delle fabbriche, i cotonifici, le terme, tutti i fantasmi diroccati di un’epoca non poi troppo lontana. Le strade e i ponti sono ancora quelli costruiti dagli Italiani e la sola guida che c’è è quella dell’Africa Orientale edita dalla Consociazione Turistica Italiana prima della guerra.
I colori della Dancalia sono il bianco accecante delle saline; il giallo dei cespugli e il nero della lava e dell’ossidiana. Ancora oggi i blocchi di sale vengono caricati sugli asini e sui dromedari e portati lentamente sulle strade carovaniere fino ai mercati. Ogni tanto si intravede il mare, un mare calmo e celeste come una laguna. Dal mare e dal cielo fino a poco tempo fa arrivavano morte e distruzione, speriamo che i piccoli esseri color del fango e con gli occhi ridenti possano guardare al mare e al cielo senza paura e abbiano qualcosa con cui giocare che non sia un vecchio carro armato arrugginito o incendiato. Il tempo qui è lento, è il tempo reale fatto di stagioni, di ore, di minuti, di attimi; per noi, abituati ad un mondo che brucia le ore e i minuti e che non possiede più attimi, questo modo di vivere ci appare misterioso perché è sconosciuto. Si semina guardando alla luna e al cielo per vedere se le nuvole porteranno le piogge, si affonda nella terra con i piedi e con l’aratro, si rispetta tutto quello che è intorno perché da tutto quello che è intorno, è la sopravvivenza.
L’Africa ti avviluppa con i suoi mille tentacoli, ti coinvolge con i suoi mille problemi, penetra nel tuo cuore con il calore dei deserti, con il bianco delle nuvole, con gli occhi dei suoi figli, con i suoi orizzonti fatti di tramonti rossi che incendiano le acacie, con lo scorrere pigro dei suoi grandi fiumi, con i misteri che ancora si celano dentro la sua terra dove forse tutti noi affondiamo le radici della nostra storia.