Diario di Cuba

di Antonio Mauro –
Alle 7 meno un quarto siamo sotto la casa di Angela e Antonio. E’ ancora buio e, ovviamente, fa freddo. Domenica: l’autostrada è abbastanza libera e in 3 quarti d’ora siamo alla Malpensa. Troviamo subito il parcheggio indicato da Luca, dove lasceremo la macchina per tutto il tempo della vacanza. Mentre Edoardo e Antonio sbrigano la pratica nell’ ufficio, io e Angela stiamo fuori con i bagagli. Intorno a noi una distesa di macchine ricoperte da un sottile strato di brina gelata. Io batto i denti e penso al contenuto della mia valigia: costume da bagno, calzoncini, magliette. Mah.. La navetta ci porta alle partenze. L’ aereo decolla con lieve ritardo. Si balla un po’ in prossimità delle Alpi, poi tutto fila via liscio. All’ altezza delle coste di Normandia usciamo sull’Atlantico e puntiamo al Canada. Poi l’aereo vira a Sud, verso la Florida. Il cielo sereno ci permette di seguire la rotta. Man mano che ci avviciniamo a Cuba, però, le nuvole aumentano. Atterriamo all’Avana sotto un cielo plumbeo. Però fa caldo.

Il taxi ci porta alla prima “casa special” che ci ospiterà. E’ stata trovata all’ultimo, in sostituzione di un’altra colpita da un lutto improvviso e recente. L’ arrendador si chiama Alfredo ed è medico, vive con la madre e la giovane compagna..
Veniamo accolti calorosamente dall’ anziana, vivace signora che, per questa sera, ha già in programma un menu a base di pesce: aragosta, camaron e pescado. L’ ingresso-salotto è come da manuale: un ritratto del Che, ninnoli di poco conto sparsi ovunque, composizioni di fiori finti di ogni forma, colore, dimensione. E l’ immancabile balança. Dondolarsi sulla balança è, per ogni Cubano, il miglior modo per rilassarsi e passare il tempo.

Gli arrendador mettono a disposizione dei turisti camere con bagno e, all’ occasione, cucinano. Devono avere una licenza statale e allo stato è destinata una larga fetta dei loro introiti.

In genere questa non è l’ unica fonte di sostentamento delle famiglie: c’è la pensione, se sono anziani, oppure lo stipendio di uno dei coniugi, che svolge altro lavoro. Gli arrendador hanno, nel complesso, un buon tenore di vita. Le loro case sono contrassegnate, all’ esterno, da un marchio: azzurro per chi ospita turisti, arancio per i locali. Come si arriva, bisogna presentare passaporto e visto, si viene quindi registrati su un apposito albo che va controfirmato.

Usciamo per un primo giro. C’è abbastanza movimento, ma il traffico automobilistico non è certo quello delle grandi città, cui siamo abituati. Numerosi i veicoli trainati da cavalli. E un’ umanità delle più varie: bianchi, neri, creoli, mulatti, alti, bassi, grassi, magri. Ma tutti vestiti allo stesso modo: pantaloni, molto spesso corti, e maglietta. Le gambe quasi sempre scoperte, fino a mezza coscia, e non importa se sei grassa. Da noi una cicciona in minigonna farebbe voltare e sghignazzare i perbenisti, i cultori del look e della moda; ma qui è diverso: qui fa caldo, quindi no problema… Le persone cui ci rivolgiamo per informazioni sono molto disponibili, ma anche riservate: rispondono educatamente e via, non fanno domande, non cercano di “attaccare bottone”. In una grande “Coppelia” ci sono appesi, incorniciati, due scritti che iniziano con “Segnor Bush” E’ tutto in spagnolo, ovviamente, ma il senso del testo è facilmente intuibile. Ho lasciato a casa la macchina fotografica. Antonio l’ ha, ma non osa. Ci saranno tantissime altre occasioni …
Dopo cena viene a trovarci Francesco, il ragazzo italiano che vive all’Havana ed insieme ad Antonio, tramite Internet, ha prenotato le “case particular”.
Ci parla un po’ della sua vita, della sua decisione di vivere qui. Decisione sofferta, di cui dà varie motivazioni piuttosto fumose: la più chiara è l’ insofferenza a recarsi al lavoro con la cravatta ( ? ).
– Hai una casa, una famiglia, un lavoro, cosa fai lì ? – si lamenta la madre
– Cosa fate lì voi, piuttosto! – Ribatte lui, che ha seguito le ultime, squallide vicende della politica italiana e, come la maggior parte dei suoi connazionali, si è profondamente vergognato.
Francesco ci mette in guardia su due cose in particolare: l’ acqua (non usarla mai, neppure per lavarci denti) e i Cubani: cercano sempre di imbrogliarti. In modo simpatico, magari, e gentile, ma ci provano sempre.
Ci aggiorna anche sui trasporti: meglio lasciar perdere il treno, sono ottime, invece, le linee dei pullman e i taxisti. Ma statali, si raccomanda, non privati. E sconsiglia di noleggiare automobili: è costoso e si possono avere delle grane. Qui non scherzano: al minimo sgarro, ti ritirano il passaporto e ti bloccano il rientro in patria.
– Questo sarebbe il meno dei mali ! – mi vien da dire, pensando all’ attuale situazione italiana. Ma evito la battuta, troppo facile e scontata. Un amico italiano, venuto tempo fa a trovarlo, prosegue Francesco, mentre era alla guida dell’ auto, per una banale distrazione ha investito un motorino e ucciso uno dei due occupanti. Si è fatto tre anni di carcere. E’ uscito prima del tempo ed ha potuto rimpatriare grazie all’ intervento del Nunzio Apostolico all’ Havana, amico di Francesco.
Tu quoque, Fidel…
E ci ricorda di confermare sempre, il giorno prima, il nostro arrivo nelle case dei vari particular.
Ci augura la buona notte e se ne va con la Nutella che, dietro sua richiesta, gli abbiamo portato: è la cosa che più rimpiange dell’ Italia.

28 gennaio – lunedì
Usciamo di buon mattino per raggiungere il terminal della Viazul: dobbiamo interessarci per lo spostamento a S.ta Clara, in programma per mercoledì. Uno spazzino sta pulendo il marciapiede e le piccole aiuole intorno agli alberi. Ha un vecchio carretto e usa attrezzi piuttosto rudimentali, ma il risultato è ottimo. Ne troveremo molti di spazzini, in tutte le città: sembrano fatti con lo stampino. Percorriamo ampi viali alberati e puliti. Ovunque grandi manifesti propagandistici che inneggiano alla “revolucion” , al socialismo, alla libertà. Fotografarli tutti è impossibile: ne troveremo in abbondanza per tutta l’ isola.
Non è facile trovare la stazione della Viazul , come non è facile vedere i pullman. Se ne vedono molti, invece, della “Astro”. Capiremo più avanti il perché: come in tanti altri servizi, c’è distinzione tra turisti e gente del posto: l’ Astro è riservata ai cubani, la Viazul ai turisti. Riusciamo, comunque, a fare prenotazioni e biglietti.
Ci incamminiamo verso il centro, fino al Plaza de la Catedral, ingombra delle allegre bancarelle degli artigiani.
“La musica trasformata in pietra” così Alejo Carpentier ha definito, a ragione, la cattedrale, simbolo della città.
Effettivamente le pareti, le colonne, le cornici, conferiscono alla facciata il movimento sinuoso e l’ eleganza di una ballerina che danza al ritmo della trova. Attraverso vie fiancheggiate da palazzi coloniali arriviamo a Plaza de Armas.
Davanti alla facoltà di lingue straniere c’è via-vai di studenti. Antonio interpella due ragazzi per chiedere informazioni. Se vogliamo, ci accompagneranno loro all’ Havana veia, dobbiamo solo aspettare che finiscano gli appunti. Anzi no, li finiranno domani: chiudono i quaderni e vengono con noi.
Sono entrambi sotto i trent’anni. Ariel, riservato e tranquillo, parla un Italiano abbastanza scorrevole, vive con la madre e la nonna. Arturo, magro, occhi e capelli molto scuri, è più disinvolto e ciarliero, ma il suo Italiano non è così sicuro. Da un anno vive con Gisele, rimasta sola con due bambine, dopo che il marito se n’è andato. La incontriamo più avanti.
– Lei è Gisele – Arturo ce la presenta, orgoglioso, mentre le cinge le spalle. E’ piccola, lunghi capelli castano-rossicci raccolti, pantaloncini corti e aderenti.
Proseguiamo, i due ragazzi tenendosi costantemente per mano. Attraverso quartieri fatiscenti e affollati arriviamo al centro, P.za del Capitolio. Aiuole ben tenute, palazzi eleganti, larghi viali verdi e puliti. Verso mezzogiorno siamo all’albergo di Hemminguay. Per salire all’appartamento dello scrittore e al terrazzo ristorante percorriamo i cinque piani a piedi, vista la lunga attesa agli ascensori. Su quel terrazzo con vista sul porto, mentre consumiamo un piacevole pranzo a base di bruschette e una lieve brezza spira dal mare, avverrà l’incontro tra Angela e il moihito.
E sarà amore a prima vista….
Gisele si è fatta più disinvolta. Ci mostra le foto delle sue bambine, ci parla del suo lavoro: è archeologa sottomarina.
– Bueno – commenta, riferendosi al suo stipendio.
E parla di Arturo, che la ama, ma soprattutto ama le sue bambine, come se fosse il vero padre: cosa si può desiderare di più ?
Arturo guarda al domani con maggior preoccupazione: vorrebbe fare la guida turistica, ma prima bisogna terminare gli studi, intanto cerca un lavoretto per contribuire anche lui alla sua nuova famiglia, perché è dura, i soldi non bastano mai.
Per il momento, la cosa più bella e più sicura è la sua Gisele, e tanto basta.
Ariel assiste a tutta questa felicità da cui si sente escluso. Vorrebbe anche lui una ragazza, per farsi una famiglia: ne aveva una, ma si sono appena lasciati. Oppure andare in Italia: come si fa ad imparare bene la lingua rimanendo qui ? Ma non è facile ottenere il permesso all’ espatrio e comunque il viaggio costa molto: dove li va a prendere tutti quei soldi ?
Parla lentamente, Ariel, e solo se interrogato, senò se ne sta assorto, come sopra pensiero.
I ragazzi ci vogliono a casa loro, domani. Arturo e Gisele vivono a Guanabo: passeremo la giornata insieme.
Nel pomeriggio li lasciamo alla fermata dell’ autobus. Noi percorriamo tutto il Malécon, giocando come bambini ad evitare gli spruzzi delle onde che, in alcuni punti, superano il parapetto e s’ infrangono sul marciapiede. Edoardo si prende una bella doccia da capo a piedi. No problema: in fondo era quello che voleva..

29 gennaio – martedì
Come d’accordo, alla 9 ci troviamo con Ariel e insieme andiamo a Guanabo. E’ un piccolo centro di abitazioni basse, un po’ malmesse. La casa di Gisele è a pochi passi dal mare: basta attraversare una strada sterrata che le piogge recenti o il mare stesso hanno ricoperto d’acqua. Hanno messo qualche passerella in legno. L’ appartamento di Gisele è al primo piano, sopra quello degli zii, si sale attraverso una ripida scaletta. L’ ingresso-salotto è semplice ma accogliente e pulito: un tavolo rotondo, televisore con stereo e lettore CD, un divano e, ovviamente, due balançe. La cucina e il bagno sono piuttosto squallidi.
Ci accolgono con entusiasmo, insieme ai due cagnolini: una bastardina non più giovane, molto affettuosa, e un pechinese vivace e sventato. Approfittando del cancello aperto i due cani escono. Il pechinese non si troverà più. Per almeno un’ora percorriamo la spiaggia in lungo e in largo. Dicono che hanno visto un ragazzo che lo prendeva, anzi no: l’ ha preso una coppia che passeggiava sulla spiaggia, anzi no: l’ ha preso il ragazzo e l’ ha consegnato alla coppia.
Giselle è disperata: chiama, corre, piange, ma è tutto inutile. Poi s’ accorge che anche noi siamo mortificati, Angela, addirittura, ha le lacrime agli occhi. Allora, all’improvviso, cambia atteggiamento: questa deve essere una giornata come tutte le altre, anzi più bella, perché siamo insieme, in fondo son cose che succedono. Sorride, Giselle: adesso e lei che consola Angela. E per il resto della giornata del cane non parlerà più.
Torniamo in spiaggia, ormai è mezzogiorno passato. Viene Arturo a chiamarci.
-Sarà pronto il pranzo – penso
Invece ci comunica che lui e Giselle andranno un attimo al Policlinico del posto per gli ultimi accordi riguardanti un intervento ambulatoriale cui domani dovrà sottoporsi la ragazza. Sono incuriosita: chissà cosa mangeremo, e quando. Tornano dopo un’ ora buona. Alle due del pomeriggio la tavola è imbandita con cura, e vi è ogni ben-di-dio: oltre al solito riso con i fagioli neri, frutta, verdura, un ottimo piatto di carne in umido. Ancora non ho capito da dove è saltata fuori tutta quella roba e per opera di chi. Ci accomodiamo sulle uniche quattro sedie intorno al tavolo, i ragazzi più indietro, nelle poltrone, con i piatti in grembo.
– Ma è vero – chiede Gisele – che in Italia non si mette tutto il pranzo in tavola, ma solo una parte, poi si tolgono i piatti e si mette l’ altra ? –
Confermiamo: si serve il primo, poi il secondo con la verdura, la frutta..
Sorride incredula e scuote la testa. Angela chiede un tovagliolo di carta. No problema: Arturo scatta dalla sua poltrona, e torna dal bagno con un rotolo di carta igienica, da cui stacca dei pezzi che distribuisce con estrema naturalezza.
Verso le 4, mentre, comodamente seduti su divano e balançe, facciamo la siesta chiacchierando, irrompe in casa Nanette, nove anni, appena uscita da scuola. Nanette è la figlia maggiore di Gisele: capelli scuri raccolti in una lunga coda, occhi neri e ridenti, un sorriso accattivante. Non mostra alcuna meraviglia per la nostra presenza e ci saluta con un bacio, come se ci conoscesse da sempre. Poi si cambia e da sfogo alla sua vivacità: corre per la casa saltellando, accenna a qualche passo di danza, canta sottovoce, si accoccola ogni tanto in braccio alla mamma. Le chiedo di farmi vedere i quaderni: li tiene a scuola, qui ne ha solo uno di scarsa importanza. E’ piccolo e un po’ sgualcito, ma la scrittura è regolare e ordinata.
“El nostro apostolo Josè Martì ” titola uno degli ultimi lavori.
E la piccola? E’ dalla balia, in questi giorni l’ asilo è chiuso per ristrutturazione. La balia è un donnone di colore, dall’aria dolce e materna. Ninette sta dormendo in una piccola brandina a x, di quelle che un tempo si usavano anche da noi. Ci accostiamo in silenzio. La bambina avverte la nostra presenza e si sveglia. Seduta sulla brandina, tende la mano verso la mamma che la prende in braccio.
Poco dopo siamo fuori.
Taciturna e ancora insonnolita, Ninette ci dà la mano e cammina docilmente al nostro fianco. E’ chiara di pelle, i capelli biondo-castani, ondulati, incorniciano il viso.
Arrivati sulla spiaggia si china e slaccia le stringhe. Arturo capisce al volo e la libera di scarpe e di calze. Ed ha inizio il gioco meraviglioso di Ninette con il mare. La bambina corre sul bagnasciuga avanti e indietro, segue l’ onda che si ritrae, indietreggia quando l’ onda avanza, a volte cade, si rialza ridendo. Vi sono delle buche che il mare ha riempito. Ninette salta dentro a piè pari, schizzandosi le gambe fin sopra le ginocchia. Dopo un po’ i calzoncini sono fradici. Giselle la guarda e sorride: no problema, poi, a casa, ci cambieremo. O forse non ce ne sarà bisogno: penserà il sole ad asciugarli…
La spiaggia non è sporca, ma ci sono disseminate molte bottigliette di plastica azzurrognola. Arturo ne indica una : – Io preferirei incontrare uno squalo, piuttosto che quella ! – Perché quelle bottigliette sono, in realtà, terribili meduse, dotate di un veleno letale. Ninette si avvicina, vorrebbe toccarne una. – No, vieni – dice tranquillamente Gisele e la scosta. La sorella preferisce stare con la madre: la prende sottobraccio, le parla, le fa molte domande. Sembra avere un aspetto protettivo nei suoi confronti.
Abbiamo deciso di lasciare una somma di denaro alla famiglia di Giselle, ma non sappiamo come fare per non urtarla. Io e Antonio siamo sul balcone di casa, in disparte dagli altri, e la chiamiamo. Gisele non vuole: scuote energicamente la testa, è imbarazzata, vorrebbe piangere. La convinciamo, spiegandole che è un regalo per le bambine: noi non abbiamo il tempo né la possibilità di andare per negozi. Allora Gisele accetta e, visibilmente soddisfatta, corre a mettere i soldi nella stanza da letto.
Alle cinque Ariel torna all’ Havana con il pullman. Noi poco dopo, in taxi. E salutiamo quella famiglia stranamente felice con un padre-non padre ancora studente, una madre poco più che ragazzina, che già progetta di sopraelevare la casa per la sua Nanette, quando sarà grande. Ma ci vogliono tanti soldi, troppi: gli stessi che, da noi, occorrono per comprare una camicetta al mercato.
Salutiamo le bambine, che ora stanno giocando con alcune amichette, e per tutto il pomeriggio non sono mai state invadenti o appiccicose, non hanno fatto un capriccio, una richiesta, non si sono nemmeno accorte della scomparsa del pechinese. Ci scambiamo abbracci e saluti con la promessa di scriverci, di telefonarci. E poi, chi lo sa, potrebbe capitare che torniamo a Cuba..
Ma io sono certa che non li vedremo più.

30 gennaio – mercoledì
Il viaggio a Santa Clara dura quattro ore. Si esce dall’Havana attraverso ampi viali circondati dal verde, molto curati: ai lati e nell’ aiuola spartitraffico siepi e cespugli di ibisco in fiore. L’ interno dell’isola è rigoglioso: pascoli con cavalli e bovini, palmeti, canna da zucchero. Incrociamo poche macchine e camion, ma numerosi carretti tirati da cavalli o da buoi.
Alle 12,30 siamo davanti alla casa di Olga, l’ arrendador. C’è un inconveniente: la sua precedente ospite è stata male e ha dovuto rimandare la partenza quindi la stanza è ancora occupa. Ma no problema: siamo tutti da Alina, che sta sul lato opposto della piccola piazza.
Alina ci accoglie con un sorriso timido e cordiale.
– Siete Italiani ? Mia suocera abita a Bologna – E’ la frase più lunga che dirà durante tutta la breve permanenza da lei. Alina è svelta e precisa. Tiene con molta cura la sua casa, moderna e ordinata e ci prepara una veloce merenda.
Il pomeriggio ci rechiamo al treno blindato, da lì andremo al mausoleo di Che Guevara. Sotto il sole che si sta facendo sempre più ardente e, dopo varie richieste di informazione ai passanti, arriviamo, finalmente. Nella piazzetta ci sono i quattro vagoni appartenenti al convoglio che trasportava le truppe di Batista e venne attaccato dal Che e dai suoi guerriglieri, scesi dalla Sierra Maestra per dare l’ apporto decisivo ala rivoluzione. Due di essi sono trasformati in museo, con foto, armi documenti.
Il mausoleo è piuttosto distante, ma cosa sono, in fondo, 5 o 6 chilometri? Facciamo sosta in una piazzetta, dove una scolaresca sta provando un saggio di ginnastica con sottofondo musicale. Lo stereo è nella casa di fronte. E proseguiamo.
– Il mausoleo del Che, por favor ?-
-Adelante, sempre dritto – Ed è un via-vai incessante di mezzi pubblici a cavallo.
Antonio osserva i nostri visi accaldati: -Al ritorno prendiamo il cavallo anche noi- dice mosso a compassione. Il mausoleo del Che occupa uno spiazzo enorme sulla cima di un modesto rilievo. Grandi aiuole verdi, tenute costantemente pulite dagli onnipresenti spazzini, e alberi che non bastano a mitigare la vampa del sole pomeridiano. Il monumento è enorme e imponente, nella sua linearità. Sul grande basamento rettangolare, nel cui interno c’è il museo, s’ erge la statua bronzea del Che, che, col braccio al collo, così com’ era quando arrivò dalla Sierra maestra, marcia eretto e spedito con lo sguardo puntato a sud, verso l’ America Latina.
Nel piccolo, affollato museo fotografie, documenti, armi, oggetti personali. E molto silenzio. Di fronte il sepolcro. Veniamo introdotte da due ragazze in divisa, che ci chiedono la nazionalità. Si può entrare pochi alla volta. L’ ambiente è piccolo e appena illuminato, ma non tetro; il soffitto a volta lo fa sembrare una grotta. Nel fondo è stata ricostruita fedelmente la vegetazione della foresta tropicale, teatro delle imprese e della vita del Che. Davanti arde una fiamma perenne, voluta da Fidel Castro quando la salma venne traslata. Nelle pareti, ricoperte di pietra chiara, le tombe dei guerriglieri uccisi in battaglia e quella del Capitano, non dissimile dalle altre. Il tutto è molto semplice e sobrio, ma l’atmosfera è unica.
– E’ veramente bello, complimenti. –
-Gaçias – Le ragazze in divisa sono visibilmente compiaciute.
Antonio mantiene fede alla sua promessa. Il taxi a cavallo ci riporta in centro: una breve passeggiala nel buolevard, riservato ai soli pedoni, e la ricerca di un taxi che domani ci porterà a Trinidad. Il prezzo è conveniente. La cena serale di Alina inizia con una deliziosa crema vegetale che non mangeremo più.

31 gennaio – giovedì
8 del mattino. La piazza antistante la casa si sta affollando di studenti, tutti con la divisa nazionale, secondo il grado della scuola: gonnellina o pantaloncini bordeaux per i più piccoli e, via via, color senape e tabacco. Le camicie rigorosamente bianche, le gonne rigorosamente corte. Il tutto è elegante e piacevole a vedersi. Non si sentono schiamazzi, ma soltanto un diffuso brusio.
Sull’ altro lato della piazza un gruppo di anziani fa ginnastica dolce con un istruttore, come attrezzi bottiglie di plastica piene d’ acqua. Ci avviciniamo ad un gruppo di bambini. Chi vuol fare la fotografia ? Alcuni accettano ridendo, altri si allontanano intimiditi.
– Chi è il primo della classe ? – fa Antonio col suo personale idioma italo-spagnoleggiante.
– Lei – qualcuno indica una ragazzina che si schermisce.
– E l’ ultimo ?-
– Lui, e lui ! – questa volta la risposta è unanime e sicura.
– Sì ! – e il diretto interessato alza la mano, orgoglioso del suo primato.
Un gruppetto, vicino a un’ aiuola, è impegnato in una prova teatrale. Una ragazzina sui 14 anni, in abito di scena, sta provando un monologo. Non capiamo nulla del testo, ma seguiamo fino alla fine, affascinati dalle movenze, dalla gestualità, dalle inflessioni della voce. Ho portato dall’ Italia parecchie penne biro, sembra che qui siano molto richieste. E’ inutile che continui a portarmele dietro: le regalerò a questa scuola dal nome così pittoresco “El Vaquerito”. Mi avvicino a una signora che mi è stata indicata come insegnante, o forse dirigente, e gliele porgo. Mi aspetto un’ accoglienza entusiasta e calorosa, e già sono pronta ad iniziare una breve conversazione: ho insegnato anch’ io, per parecchi anni, e ne so qualcosa di bambini; questi sono veramente educati e carini: complimenti. Ma la donna accoglie l’ omaggio con un sorriso di circostanza, bisbiglia un “gracias” a mezza voce, quindi si allontana con la scolaresca. Fine dei ringraziamenti e della conversazione.
Sarà sempre così: ogni regalo, anche se richiesto, non viene accolto con manifestazioni plateali, ma con un pudore quasi imbarazzato.
Alle 9, puntuale, arriva il taxi: stipiamo le valige nel baule e ci allontaniamo, mentre Alina, dalla porta di casa, ci saluta con timidi cenni della mano. La strada che porta a Trinidad attraversa la sierra verde e ombrosa. Una breve sosta per fotografare, dall’ alto, il lago e una cucciolata di maialini di latte che, alla nostra vista, si allontanano grufolando. Ed eccoci a Trinidad, davanti alla nuova casa che ci ospiterà fino a sabato.
La famiglia di Alfredo ci accoglie sulla soglia e ci aiuta a scaricare i bagagli. Alfredo è un distinto signore di mezza età. Per lui quello dell’ arrendador non è un mestiere: è una vocazione. Si adopera con sollecitudine e discrezione perché i suoi ospiti siano soddisfatti in tutte le loro esigenze, è orgoglioso della sua casa, della cucina ottima e varia. Margarita, la moglie, è una cuoca eccellente: ogni pranzo terminerà con un dolce al caramello appositamente preparato. Sono aiutati da Paolo, il genero, un ragazzone aspirante avvocato che ha seguito un corso di cucina per dare una mano in famiglia. Durante le cene la famiglia di Alfredo è sempre presente, ma senza alcuna invadenza.
Trinidad è un gioiellino coloniale. Le case hanno lunghe porte finestre, protette da inferriate bianche, che si uniscono sopra a formare un pennacchio a volute. Anche il piccolo atrio coperto, sul davanti, è protetto da cancellate bianche, ricamate e leggere come trine. Dalla strada si intravedono grandi, austeri saloni elegantemente arredati, con i pavimenti tirati a lucido, e, là, in fondo, il patio ombroso, con piante grasse, palme, cespugli fioriti. All’ interno della casa, invece, abbondano mazzi di fiori finti variamente colorati..
Ma vi sono anche quartieri modesti, con strade sterrate costellate di pozzanghere melmose: mentre chiacchieriamo con le donne sedute sulle soglie intravediamo locali bassi e tetri, con pareti scrostate, pavimenti mal messi e balançe zoppicanti. Altre vie, invece, hanno l’ acciottolato costituito dai sassi che i galeoni spagnoli usavano come zavorra. Sembrano i nostri bei cortili di un tempo, con le sedie sulla porta, la gente che parla da una casa all’ altra, i bambini che giocano all’ aperto senza problemi. Nel mercatino si vendono manufatti, opera delle donne del posto: tovaglie ricamate, golf, vestitini per bambini. Scelgo un golf per Federica.
– E ‘ magra – spiego alla simpatica, prosperosa ragazza che mi sta servendo – ma non piatta, ha abbastanza seno, ma non troppo – e la guardo.
– Capito – dice la ragazzona, che, effettivamente, ha compreso al volo – non “tetona como mi …”
Domani andremo al mare, finalmente. Le spiagge di Trinidad sono due: la Boca a Ancom. Decidiamo per quest’ ultima.



1 febbraio – venerdì
Ed ecco il taxi bianco che ci porterà ad Ancom. Lo guida Mercedes, una della pochissima taxiste di Cuba. Mercedes non è più tanto giovane. I lunghi capelli biondo-platino sono raccolti in una elaborata acconciatura, è truccata, i jeans aderenti mettono in risalto il fisico ancora giovanile. E’, in poche parole, una donna vistosa: da noi , almeno, attirerebbe parecchi sguardi. Eppure è timida e riservata, parla poco, ha movenze eleganti e gentili. Ci lasciamo con l’ accordo che torni a prenderci di pomeriggio.
– Va bene, no problema –
La spiaggia è da cartolina: sabbia chiara, palme e mangrovie che sostituiscono egregiamente gli ombrelloni. C’è anche un piccolo bar ristorante e strane sedie-sdraio di plastica senza gambe, che poggiano direttamente sulla sabbia. Ci si può servire a piacimento. Passeggiamo a lungo sul bagnasciuga, raccogliendo sassi bianchi mai visti prima d’ ora, che l’ incessante lavoro del mare ha lavorato formando incredibili ricami. Ne ho portato a casa qualcuno: stanno bene, sul tavolino, sembrano oggetti di gran pregio e bellezza. Li aveva già notati al mercatino, ma non come merce esposta: le donne ne usavano in abbondanza per fissare i teli delle bancarelle, che senò il vento scompigliava.
Facciamo il bagno a turno, per poter controllare i nostri effetti. E’ una precauzione solo nostra: la spiaggia é disseminata di borse lasciate incustodite . Ma non si sa mai … Margarita ci ha preparato dei panini, che sono stati regolarmente dimenticati a casa. No problema: le abbondanti colazioni del mattino ci saziano a sufficienza. Nel piccolo bar ordiniamo da bere. Angela centellina piacevolmente il solito moihito, ma sarà il sole, sarà che non è proprio il solito, fatto sta che per un po’ temiamo seriamente per la stabilità dei suoi freni inibitori.
Nel pomeriggio il cielo si copre: decidiamo di visitare l’altra spiaggia, la Boca. Ci andiamo con il taxi più improbabile che abbia visto in vita mia. O, per lo meno, quello che è rimasto del taxi. Lo guida un donnone taciturno, che ci apre le portiere: solo lei sa farlo senza che le resti qualche pezzo in mano.
La Boca è uno strano rione: a casette linde e ben tenute, con giardini ricchi e curati, si alternano catapecchie malinconiche e cadenti e abitazioni che vengono aperte solo d’ estate. Vi è un certo senso d’ abbandono. Probabilmente in alta stagione è tutta un’ altra cosa. Mercedes è lì, pronta, prima dell’ orario stabilito, per riportarci a casa. La sera Margarita prepara una minestra di pasta, con verdure particolari, che ci entusiasma: complimenti, Margarita, è una squisitezza, non ne avevamo mangiate mai di così buone ! Silenziosamente, Alfredo fa la spola tra la cucina e il salotto, e sorride sotto i baffi, compiaciuto.

2 febbraio – sabato
Il museo Brunet era un tempo l’ abitazione dell’ omonimo Conte, governatore catalano di Trinidad in epoca coloniale. Lo visitiamo con la guida, una dolce, garbata signora sulla cinquantina, che ci mostra il tutto con orgoglio, come se fosse casa sua. I mobili e le supellettili sono di un’ eleganza e di un pregio come mai ci saremmo aspettati: le ceramiche di Capodimonte, i cristalli di Baviera, i marmi di Carrara, testimoniano uno stile di vita raffinato e lussuoso.
Intanto, nelle coltivazioni di canna da zucchero gli schiavi importati dall’ Africa e da Haiti morivano di fatica e di stenti. Domani partiamo per Camaguey: dobbiamo confermare il nostro arrivo, come suggerito da Francesco. Può Alfredo fare la telefonata? Ma certo, no problema. Le telefonate di Alfredo passeranno alla storia.
– Devi dire che domani a mezzogiorno siamo lì, come d’ accordo – raccomanda Antonio.
Ma Alfredo se le cose le fa, le fa bene. Con aria seria e compunta solleva il ricevitore, poi compone il numero con calma ed attenzione, stando ben attento a non sbagliare. Declina le sue generalità: “Arrendador de Trinidad” con tutto quello che segue, poi ci presenta nei particolari: “Antonio e la sua esposa, Edoardo e la sua esposa” confermando che siamo italiani
– Non importa, di’ semplicemente che arriviamo domani !- Con un cenno della mano, Alfredo gli dice di non distrarlo, por favor, e prosegue imperterrito: al momento siamo suoi ospiti, spiega da quale ciudad arriviamo, da quanto siamo a casa sua, conferma infine il nostro arrivo per l’ indomani, precisando quanto tempo ci tratteremo.
Antonio scalpita. .. e sarà possibile riconoscerci attraverso un cartello con scritto. e legge il cartello compitando parola per parola, lettera per lettera. A posto? Bien, buena tarda.
Riaggancia. Poi rivolto alla piccola assemblea seduta a tavola, proclama con aria visibilmente soddisfatta:
– Todo a posto, no problema – . Missione compiuta.

3 febbraio – domenica
Prima delle otto Mercedes è davanti a casa per portarci alla stazione della Viazul. Salutiamo quella che per tre giorni è stata la nostra famiglia: sono tutti sulla porta di casa a vederci partire. Il pullman è pronto nel piazzale. C’è un capannello di autisti intorno a un uomo sdraiato sotto: è un meccanico e sta sostituendo una gomma. Antonio comincia a dare segni di insofferenza:
– Cominciamo bene !- e passeggia su e giù, irrequieto.
– E poi guarda, cose da pazzi: uno che lavora e cinque che guardano. Chissà quando si parte !-
Invece non va poi così male: riusciamo a partire in anticipo sul ritardo previsto. Il solito paesaggio di campagna, interrotto raramente da piccoli agglomerati di case contadine coperte di foglie di palma intrecciate, animali che pascolano, carri trainati da lenti, poderosi buoi. E, ovunque, cartelli di propaganda: sembrano le pagine di un grande libro disseminate per tutta l’ isola. Riportano frasi di Josè Martì, l’ eroe nazionale cubano: poeta, critico letterario, giornalista, diplomatico, nacque all’ Havana, e fondò il Partito Rivoluzionario. Morì nella guerra d’ Indipendenza contro la Spagna.. Moltissime le dediche al “capitano fanciullo”.
Su Fidel Castro i pareri sono discordi, ma il Che non si tocca: il Che è il simbolo della purezza, dell’ eroismo, della dedizione incondizionata al pueblo e alla nazione. A metà strada facciamo sosta. Il luogo è veramente piacevole: altissime palme, tra cui razzolano alcune chiocce con relativa nidiata, toilettes pulite, un ristorante con tavoli all’ aperto e tovaglie quadrettate. Nello spiazzo antistante una piccola aiuola fiorita con, nel mezzo, un cavallo rampante. Seduti su un tronco abbattuto mangiamo i panini di Margarita. Più in là, sotto una palma, sta seduta una ragazza, da sola.
– E’ triste, deve avere qualche problema – decide Antonio.
E attacca bottone: è più forte di lui. La ragazza si schermisce, non vuole accettare il frutto che Antonio le offre, poi si convince e si avvicina. E’ una “profesora” di ballo, formatasi alla scuola di danza di Camaguay: la più prestigiosa dell’ isola. La sera, per arrotondare, balla in locale famoso. Tiene un pelouche sotto il braccio. Per il figlio, per un nipotino ? No, è per lei: lo metterà nella sua camera:
– Me gustano mucho i pelouches ! Ha un viso minuto e grandi occhi verdi. Possiamo fotografarla ? Sorride timidamente e accetta un po’ ritrosa. Un passo di danza, per favore. Questa volta non c’ è bisogno di pregarla: posa a terra il pelouche e in pochi secondi eccola con una gamba ritta, perfettamente verticale sopra la testa, un braccio teso all’ esterno, l’ altro a reggere il piede sollevato. Un breve applauso. Sorride e ci parla della sua famiglia, della sua vita: sembra serena e appagata.
Non è così per tutti i giovani, qui a Cuba. Molti mordono il freno. Sognano di uscire dall’isola per conoscere il mondo oltre i Caraibi, vedere se c’è un’altra vita possibile. La meta più ambita è l’Italia, perché gli Italiani sono allegri e simpatici, e sono felici, perchè con gli euro possono comprarsi tutto quello che vogliono. Ogni volta sarei tentata di rispondere che no, si sbagliano, le cose non stanno esattamente così e che, per molti versi, forse loro sono più felici di noi. Ma rischierei di cadere nel retorico e nel banale. Allora me ne sto zitta e li lascio con la loro ingenua, lontana chimera.

Camaguay: la città delle giare. Ve ne sono ovunque: rosse, panciute, adagiate su un fianco con le grandi bocche spalancate. Sono il simbolo della città. Un tempo servivano a raccogliere l’ acqua piovana: ogni patio ne aveva una. Oggi ornano i giardini delle case, i parchi pubblici, le aiuole spartitraffico.
Alla stazione degli autobus c’è Carlos, il nostro arrendador. Sarà che possiede un grande fiuto, sarà che le telefonate cavillose di Alfredo hanno sortito il loro effetto, fatto sta che ci individua subito e punta deciso verso di noi. Ci attendono due bici-taxi: proveremo anche questa. E partiamo: davanti l’ autista-ciclista, dietro noi, dietro le valige assicurate con un elastico. Ma in pochi minuti il mio entusiasmo svanisce. Il ragazzo suda, ansima, sbuffa, si rizza sui pedali inarcando la schiena. E’ il suo lavoro, lo so, ed è abituato, ma io vorrei pesare la metà, e mi sento in colpa per le valige così piene. E questa strada che non finisce mai..
Lo dico agli altri, quando arriviamo.
– Perché non sei scesa a spingere? – sogghigna Antonio
Non gli rispondo che sono stata lì per farlo, perché non mi crederebbe. O mi prenderebbe per matta.

La casa di Carlos è veramente bella, c’è anche un giardino molto curato con la dependance in cui dormiranno Angela ed Antonio. Noi siamo da Roberto, un gigante di colore che ci accoglie calorosamente ed ha una risata aperta e contagiosa. La casa di Roberto è l’ unica che abbia visto, e, forse, di tutta Cuba, senza la balança.
– Si vede che non ne ha trovate della sua misura – commenta Angela, con il suo solito senso pratico
A Camaguay incontriamo uno dei tre italiani che abbiamo conosciuto e che hanno scelto di vivere qui. Si chiama anche lui Francesco, come quello dell’ Havana, ed è di Milano. Precotto, per la precisione. Hanno in comune, queste persone, un atteggiamento molto critico nei confronti del paese che li ospita. Questo, poi, sembra si diverta a smantellare tutte le nostre convinzioni. L’ embargo? Tutte balle. La povertà ? Qui ci sono un sacco di ricconi. I rapporti tra U.S.A.- Cuba ? Storie: Bush e Fidel sono culo e camicia. La canna da zucchero, poi, è addirittura un pretesto per tenere i contadini occupati, almeno se ne stanno tranquilli: lo zucchero viene importato ! Per non parlare dei cubani: sono licenziosi e amorali, sono inaffidabili e non hanno il senso dell’ amicizia. Tu potrai essere conoscente di un cubano, ma mai amico. E via di questo passo. Ma tu, perché hai deciso di vivere qui? Risponde rapidamente e sicuro, come se non aspettasse altro:
-Per il clima, ovvio: io soffro di sinusite e qui sto benone –
-Non riesco proprio a capire – dice Edoardo, mentre ci allontaniamo – Se la pensassi così, io in questo paese non ci vivrei un minuto di più, direi “Fidel, va’ a quel paese!” e me ne verrei via.-
Ha pronunciato le ultima parole non a bassa voce. Seduto a un tavolino, fuori da un bar, un signore ha avuto un lieve sobbalzo…

Oggi è domenica e si respira aria di festa. Nella piazza un complesso suona su un palco e un gruppo di ragazze con la divisa della scuola, quella color senape, balla in cerchio. Ma è impossibile assistervi: il frastuono degli altoparlanti supera ogni limite di sopportazione. Vi resistono soltanto le ragazze e il Che, li cui enorme viso stilizzato, quello che tutto il mondo conosce, guarda indifferente dalla facciata di un palazzo. La sera, la moglie di Carlos preparerà un’ ottima cena a base dei soliti aragosta, camaron, pescado.

4 febbraio, lunedì
La vastissima Plaça de Armas è inondata di sole, ma non fa eccessivamente caldo. Nel mezzo l’ enorme monumento che, soprattutto se visto da lontano, raffigura due mani giunte a formare la stella della bandiera cubana. E l’ originale fontana a gradoni. C’è un gruppo di anziani che fa ginnastica, ragazzi impegnati in allenamenti di atletica, altri che stanno che stanno raggiungendo la scuola. Anche qui sono numerose le abitazioni con la facciata azzurra o rosa e le grandi inferriate. E piccoli giardini, sul davanti, ricchi di piante. Quasi ogni casetta ha la Stella di Natale. Ma non è la piantina che si regala da noi in occasione del 25 dicembre: qui è un albero che quasi raggiunge la sommità dell’ abitazione. Ora è quasi completamente spoglio: sono rimaste alcune, rare foglie verdi e, in cima ad ogni ramo, il pennacchio delle brattee rosse .alla
Nel centro il viale elegante, chiuso ai veicoli, con negozi e supermercati. Oggi partiremo per Bajamo, ma c’è un problema: alla biglietteria ci hanno comunicato che tre posti sono sicuri, uno in lista d’ attesa. Effettivamente non ci avevamo pensato: il pullman arriva dall’ Havana e fa parecchie soste, è ovvio, quindi, che potrebbe arrivare già pieno. – Facciamo la conta – vorrei suggerire. Ma temo che la mia battuta non sarebbe gradita.
Riusciamo a partire tutti e quattro, finalmente, dopo che ci hanno tenuti in sospeso fino all’ ultimo. E non capiamo perché: posti liberi ce ne sono. Anche questo viaggio è bel lunghetto e Angela comincia a sentire i morsi della fame. Antonio, ad una sosta, le compra i semi abbrustoliti, quelli che sono venduti nei classici cartoccetti bianchi a cono, lunghi e sottili. Li vende una simpatica ragazza che, come sempre succede, non ha il resto. Discutono un po’, alla fine lei gliene regala uno. Sarà pagata con un bacio. Noi abbiamo assistito alla scena dal pullman, e quando partiamo la salutiamo con ampi gesti delle mani. Sorride.
A Bajamo c’è ad attenderci Boso, un simpatico pancione con il viso rubicondo, amico dell’ arrendador, che ci porta a casa con il bici-taxi, assieme a un collega. Io mi sistemo con Angela, i due uomini insieme. Quando il nostro taxi s’ avvicina all’ altro, fin quasi a sfiorarlo, allungo una mano e do un colpetto in testa ad Edoardo, che sobbalza. Ridono tutti. Incoraggiati dalla nostra allegria, i due autisti iniziano una gara scherzosa: accelerano, rallentano, si avvicinano perché ripeta lo scherzo. Boso afferra con un mano l’ altro taxi e si fa trascinare, intanto si gira e ci fa l’ occhiolino. Poi supera, in modo che il collega faccia altrettanto con lui. E così, con questi ingenui, puerili giochetti, arriviamo a casa di Tony.
E’ un bel ragazzo, alto, con un fare un po’ aristocratico. Ci accoglie sorridendo e ci comunica subito che siamo separati. Questa volta Antonio la prende male: si innervosisce, protesta, chiede come mai non siamo stati avvisati prima. Tony dà qualche spiegazione impacciata e confusa. Boso, che è rimasto lì, ascolta serio e imbarazzato. Quando poi si viene a sapere che la nostra casa non è molto vicina, sarà meglio andarci con il bici-taxi, e ovviamente c’è il supplemento per la corsa, Antonio sbotta:
– Benissimo: cornuti e mazziati !- Tony non capisce l’ italiano, ma evidentemente conosce certi epiteti, perché ha afferrato la parola, pensa che sia rivolta a lui e, rabbuiato, chiede spiegazioni. Ci affanniamo per fargli capire che no, non volevamo assolutamente offenderlo, è solo un modo di dire italiano.
Ma ormai qualcosa si è rotto e non si ricucirà più. La moglie di Tony va a lavorare, è lui che ci prepara la cena. La casa è molto bella e ben tenuta, la tavola preparata con eleganza. Il pranzo è curato, anche se c’è il solito “filetto de pescado” con tutto quel che segue. Mangiamo in silenzio, mentre Tony fa la spola fra il salotto e la camera di sopra, dove il bambino sta andando a letto. Il clima non è dei migliori. Alla fine viene annunciato il dolce: che sia l’ occasione buona per sciogliere l’ atmosfera ? Purtroppo no: si tratta di una gelatina dolciastra, tipo marmellata, decorata con dadini di un formaggio di capra. Qualche cucchiaiata, e viene lasciato lì: con tutta la buona volontà, non è proprio possibile! Tony sparecchia, deluso.
Dopo cena viene Boso, per portarci a casa. Angela e Antonio ci raggiungeranno a piedi, così faranno il giretto serale: ci vorranno dieci minuti, dice Tony. In realtà, i dieci minuti sono qualcosa di più, e con il bici-taxi, non a piedi, e il percorso è abbastanza complesso.
Edoardo scuote la testa: – Non ci troveranno mai-
Siamo ospiti di Guido, che ci viene incontro per strada. La moglie è in salotto, con la nipotina.
– Si chiama Carla – e aggiunge orgogliosa – Le abbiamo dato un nome italiano !-
La camera è al primo piano, adiacente la cucina. Diamo un’ occhiata intorno, ci sistemiamo, togliamo il necessario per la notte. E sentiamo bussare.
– Chi è ? –
– Amici !-
Ed ecco i nostri, che entrano, dopo una camminata di quaranta minuti, imprecando contro Tony e tutta la sua genia. Domani mattina, alle nove, ci troveremo; al pomeriggio è prevista la partenza per Santiago, ma potremmo trovare un taxi che ci porta in mattinata: Antonio pensa che non valga la pena trattenersi oltre a Bajamo.

5 febbraio, martedì
Ci svegliamo piuttosto presto. Boso verrà a prenderci alla 8,30: abbiamo il tempo per fare un giretto. La piazza è vicina: una piazzetta “mui linda” con la chiesa, le aiuole, la statua nel centro. Di Josè Martì, ovviamente. Da un portone spalancato sta uscendo della musica, ci avviciniamo: alcune persone, in piedi presso la porta, ci fanno cenno di entrare. E’ una scuola, c’è in corso un breve saggio di danza. I ballerini sono tutti piccoli. In questo momento ce sono in scena due, nel centro della sala. La bambina canta, mimando le parole con ampi gesti, il bambino le risponde marciando. Ho in borsa le caramelle che ho comperato nel bar, durante il viaggio a Camaguay: le consegno alla maestra. Lo spettacolo finisce con un numero di tutte bambine; sono una decina circa e danzano componendo varie coreografie: cerchi, file parallele, file che si intrecciano. Indossano lunghe gonne colorate e muovono i fianchi, le braccia e le spalle a ritmo.
Nessuno può averglielo insegnato: lo sanno fare e basta. I genitori guardano e sorridono, lo sguardo dei nonni è quello di tutti i nonni del mondo.
-Cinco anos – mi dice uno, mostrandomi le cinque dita.
Alla fine si alzano e salutano. La maestra mi si avvicina con le caramelle e me le porge: io le ho portate, io avrò l’ onore di distribuirle. Mi chino; le bambine si avvicinano: non spingono, non gridano, ma, dall’ espressione preoccupata, si capisce che temono di non arrivare in tempo. Per fortuna, ce n’è per tutte.
Usciamo nel mattino tiepido e chiaro. Le strade si stanno animando; qualche rara macchina e molte vetture a cavallo: eleganti carrozzelle un po’ consunte, rustici carretti con la tettoia e le panche lungo i fianchi. I cavalli trottano con il muso puntato alla strada: è un via vai incessante. Sui marciapiedi frotte di studenti, i più piccoli per mano alla mamma. In borsa mi è rimasta qualche caramella, la offro quando li incrocio. Si arrestano, titubanti e intimiditi. Qualcuno deve essere incoraggiato dalla mamma, che suggerisce un timido “gracias” . E non la scartano subito: si allontanano, rigirandosi tra le mani, ancora increduli, quel piccolo bon-bon giunto improvviso e inatteso. La gente cammina spedita, ma non affannata . Qualcuno mi manda un rapida occhiata, di sottecchi, ma se accenno un saluto, mi viene prontamente restituito triplicato. Penso alle nostre opulenti città, così caotiche e indifferenti, così lontane. E non so se quella che sto osservando è la realtà, o soltanto una sua parvenza, vista con la sguardo frettoloso e superficiale del turista.
Alle 9 siamo da Tony: Antonio e Angela sono usciti, ci dice, per andare al terminal della Viazul. Riappaiono dopo mezz’ ora stanchi, sudati, avviliti. Hanno girato mezza città, ma di taxi nemmeno l’ ombra. E come hanno dormito ? Meglio non parlarne: un cane ha latrato fino a notte fonda, poi è iniziato il concerto dei gatti in amore. Questa mattina una bella sorpresa: dai rubinetti scendeva acqua mista a terra. Tony non si è nemmeno scusato, e non solo non ha fatto un cuc di sconto, ma è stato il più caro di tutti gli arrendador. Però una buona notizia c’è: alle 10,30 parte un pullman per Santiago, abbiamo tutto il tempo per prenderlo, almeno ce ne andiamo da questa città di ….
Infatti alle 10,30 partiamo. Noi tre partiamo: Antonio scappa. E mi spiace che l’ esperienza negativa in casa di Tony non gli abbia permesso di gustare a fondo l’ atmosfera di questa cittadina tranquilla e un po’ anonima.
La linea per Santiago compie un giro un po’ vizioso: il pullman va verso l’ interno per fare tappa a Holguin, poi piega verso la costa. La strada corre tra piantagioni di canna da zucchero che si perdono a vista d’ occhio e pascoli recintati con bovini e cavalli. Ai fianchi siepi fiorite e lunghi filari di “bienvestido”, l’ esile alberello ricoperto di fiori rosa. Da Santiago a Holguin, ultima tappa del nostro giro, si ripasserà da Bajamo.
– Basta, non ne posso più di pullman – sbotta Antonio- da Santiago a Holguin andremo in taxi !-
All’ ingresso della città ci accoglie un enorme cartello inneggiante la canna da zucchero, patrimonio, tradizione e cultura del popolo cubano. Al terminal, invece, c’è Raul e segue con il motorino il taxi che ci porta a casa. Siamo in due appartamenti diversi, ma contigui. Noi da Migdalia, una querula, vivace quarantacinquenne che ci mostra la casa, il bagno e il figlio Lorenço, pintor, che sta lavorando in cucina ad un manifesto celebrativo. Migdalia tiene le redini della casa e della famiglia che amministra con decisione. Mangeremo a turno da lei e da Raul.

Santiago è la città “più tutto” di Cuba: la più vivace, la più movimentata, con un maggior numero di abitanti di colore, la più pericolosa: attenti, qui è più probabile essere scippati ! Nel pomeriggio andiamo alla caserma Moncada, ora trasformata in museo. Ci fa da guida una compitissima ragazza, appositamente chiamata tra il personale, poiché parla italiano. Non è un italiano particolarmente scorrevole, in compenso non sbaglia un congiuntivo. E ci descrive con fervore e passione la storia di quel luogo, dove nel 1953 è scoccata la prima scintilla della revoluçion, ad opera di Fidel Castro e di uno sparuto numero di seguaci. Rivoluzione soffocata nel sangue: in molti morirono tra atroci torture. Fidel Castro venne condannato nel corso del processo a porte chiuse, durante il quale sostenne l’ autodifesa con la celebre frase: “L’historia me absolverà” Uscì dopo tre anni in seguito ad amnistia e andò esule in Messico, dove conobbe il dottor Ernesto Guevara. Ritornato a Cuba con 82 uomini, a bordo del battello Granma, diede inizio alla guerriglia, che terminò nel 1958 con la battaglia di Santa Clara. Il 31 dicembre dello stesso anno Batista lasciò il paese. L’ 8 gennaio Fidel Castro entrò trionfalmente all’ Havana.
Sulle pareti esterne della caserma sono visibili i fori lasciati dalle pallottole dei rivoluzionari. Batista li fece chiudere, Castro li ripristinò. Quelli sulle ringhiere, invece, sono originali. La guida parla incessantemente, arrotando le erre, e con evidente orgoglio, di quel passato che le appartiene e di cui non si può non essere fieri. Lungo il ritorno ci fermiamo presso alcune bancarelle artigianali che lavorano il legno. Vi sono vari oggetti: i soliti ritratti del Che, modellini di macchine americane, altri prodotti di gusto dubbio per i turisti. Poi, in disparte, vedo delle graziose ballerine, in mogano ed ebano. Non sono capolavori, perché sono fatte da vari pezzi assemblati e, probabilmente, in serie, ma sono di una grazia e di un’ eleganza rare. E costano pochissimo: 3 cuc. Ne compero una da portare a casa: è sorretta da un piccolo piedestallo quadrato in cui è infilata una gamba, l’ altra è ritta in verticale; le braccia alzate, con le mani intrecciate sopra la testa, il torace e il capo inclinati indietro. La gonna marrone, con i profili chiari, segue ondeggiando il movimento del corpo.
Il nostro giro termina con la sosta, che diventerà abituale, nella piazza in cui sorge la cattedrale, un tempo Plaza de Armas, ora parco Cespedès. E’ il punto di ritrovo dei Santiagueri Sono molto accogliente le piazze delle città cubane, gli abitanti le usano come salotti per passare il tempo, conversare, prendere il fresco. Intanto si godono il via vai della gente e ascoltano la musica che, da qualche parte, arriva sempre, a scandire il tempo al ritmo della trova o del son L’ imponente, elegante cattedrale, fu ricostruita definitivamente nel 1818 dopo che vari terremoti avevano infierito, lesionandola prima, distruggendola completamente dopo. Di fronte il balcone da cui Fidel Castro pronunciò il primo discorso alla nazione libera.
Qui è più facile trovare gente che chiede qualcosa: savon, in genere, oppure penne. In mancanza di questo, qualche moneta. Non siamo mai stati assillati da richieste di elemosine, come avviene in altri paesi. E si tratta quasi sempre di anziani, o di donne con bambini piccoli. A volte chiedono incrociandoti per strada, altre volte, dopo una breve, casuale conversazione, avanzano qualche timida richiesta. Nel mercatino di Trinidad due donne mi avevano chiesto savon per i bambini. Non ne avevo in borsa e il giorno dopo partivamo per Camaguay. Potevano venire al terminal della Viazul, se volevano. Infatti la mattina dopo, appena scesi dal taxi di Mercedes, ecco una delle due che mi fissa, in disparte. Mi sono avvicinata e le ho consegnato il pacchetto, spiegandole cosa conteneva. Sorrideva, timida e impacciata, poi si è allontanata, ringraziando. Subito dopo, appare l’ altra e mi guarda con aria interrogativa. E adesso ?
– E’ appena stata qui la tua amica, ho dato tutto a lei ! –
– Gracias, gracias ! – un largo sorriso sollevato e se ne va.
Santiago è considerata, a ragione, la culla della musica afro-cubana. Già agli albori della nascita vantava un’ orchestrina composta da due pianoforti, un contrabbasso e due mandolini, suonati da una coppia di nere originarie di Santo Domingo. Una di esse, Teodora Ginés, fu la musa ispiratrice del Son de la Ma’ Teodora, il primo esempio di son da cui deriva, appunto, la musica afro-cubana. In seguito, l’ occupazione del Paese da parte dei francesi portò l’ abitudine di riunirsi nelle case private a fare e ad ascoltare musica. Accompagnandosi con la chitarra, il trovador suonava brani di argomento amoroso o politico. Questa, molto probabilmente, l’ origine della trova, che risentì anche l’ influenza della musica haitiana, portata dagli schiavi al seguito dei Francesi, e che, soprattutto in Santiago, conta molti ammiratori e cultori.
Il locale più antico e famoso è la Casa delle Trova, che ospita orchestre di grande prestigio e bravura. Ci andiamo proprio ‘stasera, dopo cena Io non ne avrei molta voglia, a dir la verità, ma poi passo una splendida serata, grazie al buon complesso e al pubblico: un’ umanità varia e bislacca che, tra un moihito e l’ altro, sembra trovarsi proprio a casa sua. E, probabilmente, lo è. Per tutta la durata dello spettacolo una segaligna signora, non più giovane, assiste dal marciapiede, attraverso la finestra aperta: canta, batte la mani, ancheggia a ritmo. E ha l’ aria di divertirsi un mondo.

6 febbraio, mercoledì
Costruita nei primi anni novanta, la Plaza del la Révolution Antonio Maceo è una della tante, enormi, eleganti piazze cubane. E la più vasta di Santiago: pensata per le grandi celebrazioni di massa, può contenere fino a 200000 persone. In mezzo il monumento che già aveva attirato i nostri sguardi, arrivando da Bajamo in pullman.
Ci stiamo andando, percorrendo strade con un intenso via vai. Qui sono più numerosi i veicoli a motore, molti i mezzi pubblici: grosse motrici di camion con cassoni che ospitano i viaggiatori. Sono esclusivamente per i locali. A Edoardo sembrano carri-bestiame; ad Angela i convogli dei deportati. Hanno ragione entrambi.
-Sono la cosa più brutta di Cuba !- esclama Edoardo -non potrebbero sostituirli con autobus dismessi, inviati da altri paesi ? Sarebbe meglio comunque –
Sono d’ accordo, ma se penso alla nostra metropolitana nelle ore di punta (cioè quasi sempre ) concludo che forse la differenza è più nell’ immagine che nella sostanza. Ed eccoci nell’ immensa piazza, sotto la più grande scultura equestre di Cuba, alta 16 metri e pesante 120 tonnellate. Raffigura il generale Maceo con un braccio alzato, nell’ atto di invitare il popolo alla rivolta. Denominato “Il Titano do Bronzo”, questo patriota, nato nel XIX secolo a Santiago, fu un artefice della guerra d’ Indipendenza cubana. Le 23 enormi lastre d’ acciaio, che in successione passano dalla posizione orizzontale a quella verticale, rappresentano i macheti, strumenti di lavoro che nelle mani del popolo cubano si trasformarono in armi per la guerra contro il colonialismo. Il tutto un po’ retorico, forse, ma di sicuro effetto.
Tutt’ intorno, ovviamente, aiuole ordinatissime con cespugli fioriti. In ogni città abbiamo sempre trovato monumenti, e strutture pubbliche in genere, grandiosi e ben tenuti, circondati da ampi spazi verdi perfettamente curati. E’ quindi ancora più evidente il contrasto con le abitazioni private, decisamente più modeste, e la cosa mi ha colpito subito. Forse perché da noi è esattamente il contrario… Proseguiamo con un lunghissimo giro attraverso il porto, in compagnia di Ariel, che, non invitato, si è unito a noi. Ariel è un simpatico ragazzo allegro, loquace e un po’ spaccone: niente a che vedere con l’ Ariel habanero. Vive con una compagna che è un bel po’ più grande di lui, ma non importa:
– Me gusta mucho –
Gli gusta talmente, che progetta di raggiungere il padre in Italia e di cercarsi là moglie e lavoro. Perché l’ Italia… eccetera.. eccetera.. Antonio, che pure parla molto volentieri con tutti, dopo un po’ è frastornato e trova il sistema gentile per allontanarlo. Probabilmente ricorrendo al solito trucchetto della polizia, che qui, bisogna dirlo, funziona sempre. ( o quasi ). Al ritorno sosta nella piazzetta oltre la cattedrale, per gustarci, a tavolino, una bibita fresca, il passeggio della gente e i musicisti che girano tra i tavolini.

7 febbraio, giovedì
Il Morro di Santiago, o San Pedro de la Roca, è uno splendido castello fortificato, eretto nel XVI secolo dagli Spagnoli all’ingresso della baia della città, su una roccia a 76 m sul mare, per contrastare le incursioni sempre più frequenti di pirati inglesi e francesi. Infatti, prima ancora di essere terminato, venne distrutto dal celebre Morgan. Più avanti ci pensò un terremoto. Venne infine terminato nella forma con cui lo conosciamo oggi. Abbiamo intenzione di andarci ‘stamattina.
Antonio, partito alla ricerca di un taxi, per esaudire un desiderio di Angela ha trovato una Chevrolet anni cinquanta. Sono diffusissime, a Cuba, queste vecchie macchine americane, risalenti ai tempi di Batista. Qualcuna è ben conservata, qualcuna è un po’ ammaccata, qualcuna è messa veramente male. Ma funzionano tutte. I padroni le trattano come vecchie amanti, a suo tempo bellissime, che ormai hanno fatto il loro tempo, ma da cui non riescono a separarsi. E sono tuttora esigenti e costose: fanno 5-6 km con un litro di benzina. Il nostro autista è Franco, un simpatico omone dall’ aspetto cordiale. Non è statale, ma vista la brevità del percorso possiamo rischiare La sua macchine è bianca e ben tenuta. Una geniale modifica all’impianto stereo fa sì che, ad ogni frenata, partano le note di “Per Elisa”
-Beethoven mui bien –
Arriviamo sulla cima della collina (“morro” significa appunto colle). Franco parcheggia e noi attraversiamo il piccolo parco che porta al castello. C’è qualche bancarella e alcuni negozietti, in linea con l’ ambiente, niente a che fare con i mercati chiassosi e pacchiani che circondano i nostri luoghi d’interesse turistico o religioso. Visitiamo la rocca con la guida, una garbata signora bionda che parla soltanto spagnolo, ma molto adagio e pazientemente, in modo che riusciamo a capire senza difficoltà. Ed impariamo, tra l’ altro, la differenza tra pirati, corsari, bucanieri e filibustieri.
Il castello, la cui architettura risente dell’ influenza della famiglia Antonelli, noti architetti d’ origine italiana, non è arredato. Dai suoi numerosi cortili, terrazze e garitte si gode una splendida vista sui Caraibi. E, circa una secolo fa, i soldati spagnoli assistettero impotenti alla sconfitta inflitta alla flotta spagnola da quella nordamericana, che aprì la strada al controllo degli Stati Uniti su Cuba. C’è anche una sposa che fa le fotografie, anzi no, non è una sposa, è una ragazza che festeggiai quindici anni. Il compimento del quindicesimo anno d’ età è una tappa importantissima qui, e viene celebrata con tutti i sacri crismi. Questa è una ragazzona col viso timido e sorridente, lo sguardo mite, acconciata e truccata a puntino. Indossa un abito di pizzo bianco, ovviamente lungo, ed esegue docilmente tutte le richieste del fotografo e dei parenti su dove e come mettersi in posa. A casa la festa proseguirà fino a sera. Terminata la visita al castello, usciamo sotto un sole che spacca le pietre. Franco ci ha attesi, spolverando amorevolmente la Chevrolet.
Non abbiamo programmi per il pomeriggio, decidiamo al momento di passarlo al mare, nella splendida caletta sotto il Morro che abbiamo visto dalla macchina tornando a casa. Ci accompagna un amico di Raul, un vecchietto tarchiato, quasi completamente calvo, quasi completamente sdentato. Ha una Chevrolet gialla che tiene sempre parcheggiata sotto casa. Non è ben tenuta come quella di Franco, e non è così giovane: fatti i debiti conti, avrà cinquant’ anni. Siamo d’ accordo che ci riporterà indietro alle cinque. La spiaggetta del Morro è in una piccola baia, chiusa su un lato dalla costa rocciosa, dall’altro dalla strada che scende verso il mare per poi risalire al castello. Non è tenuta bene come quella di Ancom, non vi sono strutture pubbliche né guardiani, ma l’ acqua è stupenda. Al momento vi sono alcune famigliole, tutta gente di colore. Siamo già sul chi va là.
Come scendiamo dalla macchina, veniamo avvicinati da due ceffi: un ragazzo smilzo, da capelli neri molto corti, e un giovanottone piuttosto scuro, con i capelli crespi a treccine. Antonio cerca di darsi un contegno disinvolto e sicuro:
-Olà, amigo, todo bien? Io aquì en vacança, io gendarme de policia. – (o qualcosa del genere)
E’ una sua tattica: ogni qualvolta fiuta il pericolo, si presenta come un agente della polizia. Italiana, ovviamente, data l’ improbabilità del suo spagnolo, ma con importanti agganci con quella locale. E il bello è che ogni volta cambia ruolo e sale di grado. E perchè la nostra vacanza dura quindici giorni, se ci fermassimo un mese alla fine diventerebbe “comandante della guarnigione special del Leader Maximo”
-Oh, no problema – risponde il giovanottone – anch’ io de policia. –
Dopo pochi minuti i due falsi poliziotti stanno conversando insieme, come vecchi amici. Il ragazzo smilzo si chiama Ulisse, ha una macchina privata e arrotonda con vari lavoretti, l’ altro è pescatore e, all’ occasione, cucina per i turisti che scendono alla spiaggia, meglio se italiani o spagnoli. (“tedeschi popolo malo !”)
La giornata passa tranquillamente. Edoardo, fanatico del mare, fa cinque bagni, uno dei quali in compagnia di un cavallo. E’ apparso a metà mattina, tenuto per le briglie dal padrone. Nell’ acqua fino al garrese, s’è lasciato lavare docilmente dal ragazzo che, tra una nuotata e l’ altra, lo spruzzava con ampi gesti della mani. Poi, tranquillamente come sono venuti, se ne sono andati, come se nulla fosse.
Al pomeriggio riappare Franco, il taxista: ha accompagnato al Morro quattro turisti italiani. Ma non sono bravi e accomodanti come noi, sono “Italiani-vaffanculo-rompicoglioni” Dice tutto di seguito, senza rabbia né volgarità, in modo quasi elegante. Probabilmente non conosce neppure il significato delle parole: sa che non è un complimento e gli basta. Una dei quattro si avvicina: è quella che si dice “una signora distinta”. Non più giovane, carina, i capelli biondo-castani raccolti dietro la nuca, fare compassato. Deve essere un’ insegnante: ho fatto parte della categoria e ne ho esperienza.
-Di dove siete?- chiedo
-Di Roma-
Ulisse, che ha sentito, si avvicina
– Di Roma? Allora tu Romanaccia!-
Ulisse è un grande estimatore dell’ Italia: me ne parlava prima, mentre chiacchieravamo.
– Italia storia mui antigua. Roma, imperatori: Ottaviano, Claudio, Nerone. Nerone mui malo!- Ora non gli sembra vero di far ulteriore sfoggio della sua cultura in merito. La signora, che mai si sarebbe aspettata di essere apostrofata in tal modo a 10000 km da casa, in un paese del terzo mondo, accusa il colpo, ma è impietrita. Soprattutto per la presenza degli eterni rivali: i Milanesi
-E perché dici così? – fa, un po’ piccata.
-Perché io so; io sento sempre turisti italiani dire: abitanti Roma, Romanacci –
La signora tenta la strada della mediazione : – Ma non siamo tutti uguali: c’è la lana e c’è la seta..- il tono è paziente e didascalico, quasi materno.
Ma Ulisse, incoraggiato forse dalla risata che, ineducatamente, non sono riuscita a trattenere, è irrefrenabile:
– No, no, voi di Roma Romanacci!-
-E allora tu Cubanaccio ! –
-Romanaccia –
– Cubanaccio –
La signora mantiene un tono pacato, anche se risentito. Poi, sconfitta, si allontana per raggiungere i suoi. Una volta a Roma parlerà ad amici e conoscenti della sua vacanza, mostrerà le foto, porterà qualche regalo, forse, ma questa, sono sicura, non la racconterà.
Noi, invece, quella della ballerina di Santiago la raccontiamo. L’ abbiamo incontrata sulla spiaggetta del Morro. Se ne stava seduta in una angolo, all’ ombra delle rocce. Antonio, che non ama star fermo né nuotare e lì non aveva la possibilità di lunghe passeggiate, l’ ha subito puntata ed ha attaccato bottone. Lei sembrava non aspettare altro. Si chiama Tzaritza ( o un nome simile). Trent’ anni circa, né alta né bassa, né bella né brutta. E’ prima ballerina, ha studiato danza all’ Havana. Fuma continuamente, gesticola, ride, si passa le mani nei capelli. Ieri sera Antonio ha assistito con Angela ad uno spettacolo di danza e gliene parla: si è svolto in un salone nella piazza di Santiago ed era riservato a un pubblico giovane, tutti ragazzi delle scuole superiori. E’ stata una cosa splendida: danza classica, danza moderna, coreografie che lasciavano a bocca aperta. E i ragazzi del pubblico, che cantavano e battevano i ritmi, erano uno spettacolo nello spettacolo.
– Si, lo so, io lì, ballavo, prima ballerina: non mi riconosci? –
Solleva i lunghi capelli ricci e li raccoglie dietro la testa, nell’ acconciatura usuale di quando danza.
L’ entusiasmo di Antonio è alle stelle. Ma tu guarda, la combinazione e l’ onore di incontrare, il giorno dopo, la protagonista di un simile capolavoro e si complimenta e chiede ulteriori spiegazioni, addirittura la fa alzare e accennare qualche passo di danza. Lei accetta: si muove ondeggiando, alza una gamba, poi l’ altra, volteggia.. Lavora a “Las Americas”, questa sera, appunto, c’è lo spettacolo. Antonio non sta più nella pelle: invece che alla Casa della Trova, perché non andiamo lì ? E lei potrebbe prenotare un tavolo? Ma certo, no problema: un tavolo per quattro. Tzaritza non ha più i genitori e il marito l’ ha lasciata: vive con la figlia di sette anni, e la vede poco, perché i loro orari non coincidono. Quando la bambina torna da scuola, qualche volta sta con la vicina di casa, ma spesso è sola.
Io ed Edoardo andiamo a fare il bagno, mentre la conversazione continua. L’ acqua è splendida, non si uscirebbe mai. Dopo un po’ anche Antonio, invogliato, decide di entrare. E, guarda, caso, ha voglia anche Tzaritza. Fanno il bagno insieme. Angela li osserva dalla spiaggia, senza scomporsi:.
-Sbaglierò, ma quella ha intenzione di cuccare –
Sintetico, ma chiaro.

Durante il pomeriggio ci spostiamo, per seguire gli ultimi raggi del sole che sta abbassandosi dietro le rocce.
– Adios, Italiani – Franco se ne sta andando con il gruppetto dei Romani e ci saluta con simpatia. Ma prima è riuscito a farsi regalare il cappellino di Antonio. Ha notato la scritta chevrolet ricamata sopra la visiera. E’ stato sufficiente che dicesse:
-Ma quello più adatto a me, che a te !- E in pochi istanti il piccolo copricapo ha cambiato padrone. Improvvisamente vengo distratta da piccoli strilli concitati: Angela e Tzaritza hanno scoperto di essere nate lo stesso giorno. Eccitata, la ragazza saltella, ride, batte le mani: sembra una scolaretta. Vuole essere fotografata con Angela e l’ abbraccia. Poi s’ allontana e torna con un regalo: un campioncino-omaggio di profumo che le offre insieme a una piantina raccolta sulla spiaggia. E riprende a parlare di sé, della sua vita, di sua figlia che, mentre la mamma danza a “Las Americas” , è sola in casa: mangia un uovo, guarda la televisione fino alle dieci, poi va a dormire. Per fortuna è una bambina molto intelligente: a scuola è bravissima. Ma avrebbe bisogno di una nuova divisa, di altri indumenti, e lei non se lo può permettere. Tutto questo è colpa di Fidel:
– Fidel, bha !- fa, con una smorfia di disgusto, e mostra il pollice verso. Antonio è costernato: una bambina di sette anni, in casa sola la sera ! Ma è possibile in un paese civile ? E trova il modo di lasciarle qualche cuc. Poi, senza farsi sentire, ci propone di raccogliere una sommetta in euro. E lei continua. L’ effetto delle sue parole su Antonio la incoraggiano: il tono è sempre più patetico, sempre più arrabbiato, ripete le stesse cose con ritmo quasi maniacale: la ragazza allegra e un po’ farfallona di questa mattina si è completamente trasformata .
Sono le cinque passate, e siccome il nostro autista ancora non si vede decidiamo di andargli incontro. Tzaritza ci segue, taciturna e pensierosa: le daremo un passaggio fino in centro. Lungo la strada un gruppo di muratori lavora intorno a una casa
– Macchina gialla, là! – e indicano.
Infatti, ecco la cinquantenne accostata al ciglio della strada e il nostro uomo che armeggia sotto: ha forato. Cambiare la gomma di un’ auto è lavoro da ragazzi. Se gli attrezzi funzionano. E, per l’ appunto, il cric non vuole saperne. Il nostro uomo sbuffa, si divincola, si contorce sotto la vecchia amante in panne, ma il cric gira a vuoto e la macchina rimane inchiodata sull’ asfalto. Assistiamo impotenti e preoccupati, mentre Il sole scende sul mare: in breve verrà buio, allora sì sarà un bel problema! E Tzaritza deve andare a lavorare.. Ma lei non sembra preoccupata: se ne sta silenziosa e indifferente, come se il tutto non la riguardasse. E fuma.
Arrivano, nel frattempo, Ulisse e il Trecciolino. Spieghiamo la situazione e Ulisse si offre di accompagnare Tzaritza con il motorino. La ragazza lo segue docilmente e i due si allontanano seguiti dalle nostre raccomandazioni:
– Ulisse, l’ affidiamo a te, mi raccomando: fa’ il bravo, comportati bene !-
– Certo, no problema, io non mangio persone, io no cannibale – fa lui, che non ha capito il senso della nostra battutaccia.
Ed è ovvio: loro non sono maliziosi, perchè non sono inibiti. Finalmente, grazie anche alla collaborazione del Trecciolino, la gomma viene sostituita. Nel breve viaggio di ritorno teniamo un silenzio un po’ imbarazzato.
– Grazie – diciamo all’ ometto appena arrivati – ci spiace per l’ inconveniente.. –
– Oh, non problema – fa lui – tutto risolto – E ci omaggia di una splendido sorriso senza denti. Poi, mentre saliamo verso casa, toglie dal baule uno straccio e comincia a lucidare….
Ed eccoci pronti per andare a “Las America”. Mi spiace di non tornare alla Casa delle Trova, nello stesso tempo sono curiosa. E poi Tzaritza ballerà per noi, questa sera.. Antonio è un po’ cambiato: le sue certezze cominciano a vacillare, non è più tanto sicuro di voler dare altri soldi alla ragazza
– Alla peggio ho perso cinque cuc.- borbotta
Una cosa, in particolare, ha insospettito un po’ tutti: una donna con una bambina appena uscita da scuola e sola a casa, cosa ci fa sulla spiaggia di Santiago a prendere il sole e a parlare con estranei? Il taxi ci porta in poco tempo.
Las Americas è un grande complesso con vari locali.
-Danza qui la prima ballerina? –
– Certo… No, non si chiama Tzaritza. No, non è stato prenotato un tavolo per quattro… –
Sarà allora nell’ altro locale.
– Sì, questa sera lo spettacolo di danza è qui !- (sospiro di sollievo )
– Certo, la prima ballerina: è appena arrivata, eccola. –
Ovviamente non è lei. Stessa cosa negli altri locali. E ogni volta i commenti di Antonio si fanno più accorati e pittoreschi.
– Se solo avessimo potuto accompagnarla a casa, vedere dove abita… –
Alla fine scegliamo un tavolo, mangiamo un’ ottima bistecca e ascoltiamo musica. Attratto dalla nostra parlata, si avvicinerà e si unirà a noi, con la moglie, un ragazzo italiano sposato a una splendida ventenne cubana. Per tutto il corso della piacevole serata, la signora, che parla perfettamente l’italiano, converserà amabilmente, scoppiando a ridere di gusto, ogni tanto, al pensiero di quattro ingenui turisti italiani e di una sedicente prima ballerina, sua simpatica connazionale…

8 febbraio, venerdì
Oggi si parte per Holguin, ultima delle sette città del nostro tour cubano. Alle 8,30 , puntuale, il taxi è sotto casa. Ma non è quello che abbiamo prenotato ieri, sotto la cattedrale. Ce lo comunica Lorena, la figlia di Migdalia, in un inglese perfetto. Capita frequentemente che si prenoti un taxi, ma l’ autista arriva con una macchina diversa da quella fissata, oppure è la stessa , ma con un altro autista. Nel nostro caso entrambe le cose. Comunque il taxi è statale, in ordine, le valige ci stanno tutte, perciò no problema.
Migdalia abbraccia me: – Gracias de la compagnia –
abbraccia Edoardo: – Gracias de la compagnia- E partiamo. Adios, variopinta Santiago.
Adios anche a te, misteriosa Tzaritza, svanita nel tramonto, sulla strada del Morro, con l’ aiuto una vecchia, acciaccata chevrolet gialla.
Il nostro autista è di colore, molto compito e attento nella guida. Viaggiamo tra estensioni sterminate di canna da zucchero, la strada è discreta e non molto battuta. Poco prima di Holguin siamo costretti ad alcune deviazioni viziose, perché c’è una gara ciclistica in corso.
E, all’ ingresso della città, siamo accolti dal fischietto di un poliziotto che ci intima di accostarci e di fermarci. Nel breve tempo che l’ agente impiega ad attraversare la strada per avvicinarsi, facciamo un rapido esame di coscienza: il taxi è statale, i passaporti e i visti in ordine, non trasportiamo droga, in teoria non stiamo rischiando la galera. Ma non si sa mai… L’ autista scende, seguito a ruota da Antonio che si guarda bene dal presentare le solite credenziali. Multa: nel superare una bicicletta che marciava sul ciglio della strada, ci siamo allargati troppo. Pagata la contravvenzione, i due risalgono in macchina, dando sfogo ognuno ai propri commenti.
L’ autista è indignato non tanto per la sanzione (gli verrà poi rimborsata, con il prezzo della corsa), quanto per l’ onta ricevuta: quei due punti sottratti alla patente sono lì a infangare una carriera immacolata, che ora non è più tale, per colpa di un poliziotto esoso e “malo” Tutto il popolo di Holguin è malo, e se scoppia la guerra con gli Stati Uniti lui combatterà contro Holguin.. Antonio, a sua volta, comincia ad elencare tutte le cose più importanti cui la polizia dovrebbe badare, invece di dare multe per sciocchezze. E prima ancora che l’ elenco finisca arriviamo a destinazione.
L’ arrendador è una giovane, imponente, bella signora. Si chiama Jodalis ed è medico di medicina interna e docente nel policlinico locale. Organizza la casa, aiutata dalla mamma, da una ragazza e dal marito, un giovane dall’ aria simpatica e giovale che è la sua metà in tutti i sensi. Nel tempo libero, e non so come lo trovi, ama dondolarsi sulla balança e telefonare alle amiche.. Ha una graziosissima bambina di quattro anni, con neri capelli a caschetto, vivace e socievole che intrattiene piacevolmente gli ospiti della casa. Jodalis scambia qualche parola con il taxista, che le sta raccontando la disavventura holguinera. Poi si rivolge a noi e, in modo sicuro e preciso, ci ragguaglia sul ménage familiare. Mangeremo sempre da lei, io e Edoardo, però, abbiamo la camera da Sonia, che abita lì vicino.
Lei non ha mai visto la casa di Sonia, ma tutti assicurano che è mui linda. Comunque, se qualcosa non ci va, non facciamo altro che rivolgerci a lei:
– Jodalis, hesta abitation non me gusta ! –
E Jodalis – No problema – e cerca subito altra abitation.. Ma va tutto bene, per fortuna. La nostra camera è al primo piano e si raggiunge attraverso una stretta scala a chiocciola esterna e indipendente. Sonia e il marito sono molto discreti, non li vedremo quasi mai. Vedremo invece, ogni volta che usciamo e rientriamo, l’ anziana e grassa mammy, seduta sulla balança di fronte al televisore, che ci sorride e agita la mano in segno di saluto.
Holguin è una città vivace e moderna, meno cubana di Santiago. Non so se è dovuto al fine-settimana, ma si respira aria di festa e di allegria. Il suo elegante boulevard, con le aiuole, le fontane , le panchine e la pavimentazione tirata a lucido, è frequentato da una gran varietà di gente: molta gioventù, famiglie intere, attempati turisti, pateticamente convinti di essere irresistibili grazie ai capelli ossigenati e a un vezzoso foulard, annodato intorno al collo al posto della cravatta. E le solite, accoglienti piazze con le panchine piene di gente che si gode il fresco sotto le piante. Le panchine al sole, invece, sono sempre deserte. E’ curioso, perché dovrebbero essere abituati al clima. Eppure anche quando la temperatura è sì alta, ma a nostro parere non eccessiva, i condizionatori funzionano al massimo. Più di una volta nei pullman, nelle sale d’ attesa della Viazul, nei locali pubblici abbiamo sofferto il freddo, per questo viaggiamo sempre con un leggero giacchino di scorta.
E gran parte delle signore circola con gli ombrellini riparasole: li abbiamo visti all’ Havana, per la prima volta, e pensavamo fosse un caso isolato, ma abbiamo poi constatato che è un’ abitudine molto diffusa in tutto il Paese. Ombrellini normalissimi, per niente ricercati, ma portati con l’ eleganza tipica di qui, sotto il sole cocente, hanno qualcosa di frivolo e di ricercato. E per fortuna è inverno; in estate, ci spiegano, “mucho calor” la temperatura arriva persino a 35 gradi. (?).
Domani ci attende Guardalavaca, una delle tante, famose spiagge del litorale. Sarà l’ultima occasione di mare. Dista circa 50 km e non ci sono mezzi pubblici, quindi è d’ obbligo il taxi. Non una macchina americana (consuma troppo), né un taxi privato ( è rischioso). Occorre un taxi pubblico, che non ci faccia pagare troppo. Lo troviamo e dopo varie contrattazioni ci accordiamo sul prezzo. Seduti a un tavolino, mentre la sera si anima di luci e di suoni, Angela, coinvolta da quest’ atmosfera libertina e ruffiana, scoprirà il fascino segreto e sottile del daiquiri e apporrà la parola fine alla breve, ma intensa passione per il moihito.

9 febbraio, sabato
Si parte verso le 8, la mattina è calda e piacevolmente ventilata. Le solite strade larghe e senza traffico, fiancheggiate di verde, con parecchi rappezzi dissestati che l’ autista evita con ampie, accurate manovre.
– No es diniero por la reparation – è, ogni volta, il commento di Antonio.
Nello spazio antistante l’ ingresso alla plaja, che ovviamente è libero, c’è un simpatico mercatino artigianale, ma non ci tratteniamo, passeremo poi. Una giovane donna incinta, con un aspetto chiaramente europeo, quasi anglosassone, mi chiede sommessamente qualcosa per il futuro bebè. Per fortuna ho in borsa l’ ultimo bagnoschiuma, che rischiavo di riportare in Italia. La spiaggia è superiore ad ogni aspettativa: grandi alberi ombrosi, il mare con tutte le possibili tonalità dell’ azzurro e del blu, ma, soprattutto, la sabbia: lieve e impalpabile, di un delicato color crema come non avevo mai visto. Ci accomodiamo sulle sdraio.
Dietro a noi due uomini, uno giovane, uno di mezza età, stanno sciogliendo degli involucri di plastica nera. Ed appaiono due grossi tronchi di mogano abilmente intagliati. Il primo, ormai terminato, è un trionfo di animali: palmipedi, uccelli, selvatici che l’ abile mano dell’ artista ha liberato dal legno grezzo dando loro una nuova vita. E, intrecciati con essi, fiori e rami ricchi di foglie. La gente si avvicina e ammira stupefatta. I due artisti si mettono all’ opera: il più giovane lavora a terminare un’anatra, che tiene in grembo, l’altro continua il secondo tronco, in cui sono raffigurate decine di mani intorno a un globo, a significare l’ unione e la fratellanza dei popoli. Entrambe le opere sono destinate al Museo Nacional de l’Havana.
L’ artista si chiama Juan e s’ intrattiene volentieri con la gente che lo guarda mentre lavora. Siamo Italiani ? Lui ha un’ amico italiano: gli ha spedito il piccolo scalpello che sta usando ora. E’ di Siena, Siena è una bella città, gli hanno detto, e molto antica . C’è sulla sabbia un pezzo di legno, lungo come la mia mano. Vorrebbe incidere la sua la firma ? Lui fa di più: con una piccola lesina comincia a sgrezzarlo e gli dà, via via, la forma di pesce. Lo liscia bene, aggiunge le scaglie, accenna i tratti del piccolo muso, termina con il suo nome e la data. Puoi mettere la vernice, se vuoi, ma è bello anche così, grezzo: è legno di mogano, tipico della zona, viene da questo albero, vedi? E mi indica l’ albero sotto cui abbiamo messo le sdraio. Ho nella borsa l’ ultimo omaggio della serie, un profumo maschile, e sono felice di lasciarlo a lui. Ora il piccolo pesce è posato sul tavolino del salotto, accanto alla ballerina di Santiago e ai sassi di Ancom.
Nel pomeriggio camminiamo lungo la spiaggia, fino allo splendido complesso alberghiero. Sulla sinistra, oltre la costa che ora si è fatta alta e rocciosa, il verde-blu del mare, sulla destra i piccoli padiglioni dell’ albergo immersi nel verde, ed è un tripudio di palme, piante grasse, cespugli di ibisco e alberi di mango. E’ uno dei luoghi più belli che mai abbia visto, ma una vacanza lì non mi attira, mi dà l’ idea della prigione dorata e non la cambierei con nessuna delle case degli arrendador. Tony compreso. Le due ragazze torinesi incontrate sulla spiaggia, infatti, vi hanno trascorso una settimana deludente e noiosa.
Prima di tornare a casa è d’ obbligo passare da Bariay: è il punto in cui sbarcò Cristoforo Colombo. Da Guardalavaca è un quarto d’ ora di taxi. Arriviamo in un piccolo villaggio immerso nel verde, con la strade sterrate, mentre il sole che tramonta allunga le ombre e tinge gli alberi di luce rosata. Pochissime indicazioni: soltanto un semplice cartello. Lasciamo la macchina e facciamo pochi passi a piedi. Il luogo è deserto e silenzioso: ci siamo solo noi. Qui niente aiuole, vialetti, cespugli in fiore, assolutamente nulla della pompa che solitamente precede i grandi monumenti nazionali: è tutto molto semplice ed essenziale. In una radura erbosa, circondata da vegetazione spontanea, alcune colonne in stile greco classico sono disposte su due file che convergono verso grandi monoliti di ocra rossa, raffiguranti le antiche divinità inca, maya e atzeche. Il tutto vuole rappresentare l’ incontro pacifico e scambievole tra il vecchio e il nuovo mondo, tra due culture, due civiltà. Vuole rappresentare quello che avrebbe dovuto essere e non è stato.
Il sole è sceso definitivamente.

10 febbraio, domenica
Ed è arrivato l’ ultimo giorno. Tornare a casa, riprendere le mie abitudini, il solito tran-tran non mi dispiace, anche se so che è un piccolo segno di vecchiaia. Ma l’ idea di lasciare Cuba, probabilmente per sempre, mi mette un piccolo nodo alla gola.
C’è l’ atmosfera tipica della domenica mattina, fuori: uguale, penso, in ogni paese del mondo. Sulla piazzetta antistante la chiesa due squadre di ragazzi si allenano con gli istruttori, cimentandosi in gare di atletica, che seguiamo per un po’, mentre Antonio ed Angela assistono alla Messa. Nella piccola piazza il via-vai della gente sta aumentando, sono tutti vestiti a festa; le bambine, in particolare, indossano vestitini ampi e svolazzanti. Su un lato della piazza si stanno radunando dei bandisti con i loro strumenti. Poco prima che termini la messa, inizia il concerto. Sono brani che non conosco, suonati con competenza, per quanto possa capire, e piacevoli da ascoltare. Ci sono anche il violoncello, l’ oboe, i flauti traversi. Comincio a dubitare che possa trattarsi di una banda e di suonatori amatoriali. Infatti è un’ orchestra di professori del conservatorio locale. Intanto il pubblico si è infittito, per l’ uscita dei fedeli dalla chiesa. Ed ecco due strani tipi arrivare su dalla via: vestiti in modo bizzarro, il volto e il capo ricoperti da una patina bianca, sembrano due clown, due artisti di strada. Ma sono semplicemente due ubriachi. Si appostano dietro il direttore d’ orchestra e iniziano una loro grottesca pantomima: agitano le braccia, fanno giravolte, si inchinano. Poi si sdraiano, o crollano, sull’ asfalto. Uno mette in bocca il piede dell’ altro e finge di mangiarlo, l’ altro, per contro, accenna a tagliargli il torace e ad estrargli il cuore. Il tutto in silenzio perfetto.
Qualcuno, nel pubblico, comincia a sorridere. Anche qualche orchestrale sbircia, ogni tanto, sopra le spalle del direttore. Che, terminato il brano, si gira e mormora:
– Oggi, oltre alla musica, c’è anche il teatro –
Quindi, senza scomporsi, chiude lo spartito e ripone tutto: fine del concerto. Antonio è a dir poco scandalizzato: non concepisce simili spettacoli, non concepisce che si sia dovuto interrompere il concerto, e gli agenti che non arrivano.. E aggiunge i due ignari all’ elenco famoso delle priorità della polizia, altro che dare multe ai taxisti.
Dopo circa un quarto d’ ora due poliziotti verranno a prelevare i nostri uomini, che nel frattempo stanno continuando lo spettacolo nella sagrestia della chiesa. Uno verrà portato fuori per la collottola, l’ altro accompagnato da un agente che, con fare, paterno, gli sta probabilmente spiegando dove lo sta portando e che, per prima cosa, dovrà lavarsi per bene la caveza.

Oggi, ultimo giorno e giorno di festa, ci concediamo un pranzo al ristorante, visto anche che il bilancio è ampiamente in attivo. Ci hanno indicato il 1821: il più elegante e prestigioso della città, che, nel nome, ricorda l’ avvenuta indipendenza di Holguin dal giogo coloniale. Così, almeno, ci spiega il cameriere, un inappuntabile ragazzo che ci serve l’ aperitivo nel grande patio ombroso. Ma ora è presto, torneremo più avanti: ora andiamo alla Loma del la Cruz. E’ un colle non lontano dal centro, dove il 3 maggio 1790 Antonio de Alegrìas, padre francescano, pose una croce di legno. In seguito, alla croce venne affiancata una torre di avvistamento, trasformata poi in fortilizio in cui funziona tuttora l’ eliografo dell’ esercito spagnolo. Ancora oggi si svolge il Romerìas de Mayos (pellegrinaggio di maggio ), con lo scopo di baciare la croce, sciogliere voti e godere dall’ alto il verde panorama della città. La lunga e impervia strada che raggiungeva la cima della loma è stata sostituita da una scala di 450 gradini. Eccola là, in fondo alla via, incassata nel colle: sembra di toccarla. Sembra….
Per arrivarci percorriamo una lunga strada assolata, fiancheggiata da casette modeste e altre di un certo lusso. Antonio è deciso ad intraprendere tutta la salita. Parte, infatti, e in breve non si vede più. Io mi fermo alla quarta rampa. Edoardo e Angela nemmeno ci provano. Angela è una buona camminatrice, ma oggi non è molto in forma. Stanno apparendo, a lei come a tutti, i sintomi della dissenteria. Sono appena accennati, ma tolgono un po’ le forze. Eppure siamo stati prudenti, abbiamo cercato di seguire i vari consigli, ma sembra che sia inutile. Dissenteria del viaggiatore, la chiamano. E allora va bene così: senò che viaggiatori saremmo?
Seduti all’ ombra, osserviamo la gente che scende e sale, quasi tutti giovani. In un angolo, là in fondo, il corpo di una capra: gli avvoltoi dalla testa rossa cominciano a descrivere nel cielo cerchi sempre più stretti, sempre più bassi.
Al 1821 scegliamo la paella holguinera, buona ma un po’ troppo cotta. Un po’ di verdura fresca e fine del pranzo. Cominciamo a sentire il peso di un regime alimentare diverso dal nostro e ci saziamo facilmente. E, probabilmente, sentiamo il bisogno dei piatti nostrani. A Cuba abbiamo sempre mangiato bene, da anni non assaggiavo un pollo come quello di Jodalis, i pomodori erano eccezionali in ogni casa, ma il menu è sempre stato piuttosto ripetitivo: riso, con fagioli o senza, assado di maiale o pesce E per pesce la solita triade: aragosta, camaron, pescado. Cucinati magari in modi diversi, e sempre buoni, ma sempre quelli. Come verdure insalata e pomodori, tagliati e disposti nei piatti sempre allo stesso modo, in tutte le case, e, immancabili, le banane fritte. Sono banane verdi, adatte a essere cotte, gradite soprattutto da me e da Angela, che ha preferito in particolare quelle di Jodalis. Io, invece, ho trovato migliori di tutte quelle della moglie di Carlos, a Camaguay, saporite e carnose.
Ogni tanto ci guardiamo e ognuno legge sul viso degli altri un desiderio inespresso che è anche suo e che diventa sempre più difficile reprimere, ma non si può fare sempre la figure dei soliti Italiani all’ estero, provinciali e cafoni…
La pastasciutta!
Il taxista che ci porta all’ aeroporto arriverà alle 3: c’ è tempo per una breve soste nella piazzetta. Seduti su una panchina all’ ombra, sentiamo uno strombazzamento petulante e continuo che si avvicina sempre più. Proviene da un furgone, che entra in piazza preceduto da una decapotabile con una ragazza seduta sul tetto.
La sposa, la sposa…
Questa volta ci accorgiamo in tempo dell’ errore: è un festeggiamento per il quindicesimo compleanno. I veicoli compiono due giri della piazza. La gente osserva e sorride, ma i più eccitati siamo noi. Balziamo dalle panchine per vedere meglio, Antonio si avvicina per fotografare: il convoglio si blocca per facilitargli il compito, poi riprende per fermarsi e posteggiare un po’ più in là. Dal furgone scendono i parenti vestiti a festa, dall’ auto la famiglia della festeggiata: padre, madre, e lei con i fratello.. E’ una ragazza mora, esile e carina. I lunghi capelli neri raccolti sulla sommità del capo, indossa un abito lilla con le spalline, lungo fino a metà polpaccio, tenuto ampio da un evidente cerchio all’ altezza delle anche. I quattro, in riga, si addentrano nella piazza.
– Andranno in chiesa – penso
Invece il gruppo si arresta, avanzano solo i due ragazzi. Poi lei si china e depone un piccolo mazzo di fiori ai piedi della statua situata nel centro. Il fratello osserva compunto. I quattro tornano indietro, mentre la madre saluta e ringrazia la piccola folla accorsa a vedere.
– Perché hanno messo lì i fiori? – chiede Antonio a una giovane, robusta signora dall’ aria simpatica, che tiene per mano una bimbetta vestita a festa.
– Hesto es el general Garçia – risponde con sussiego, contenta e onorata di fornire tale spiegazione – un patriota che mucho bien ha fatto per il pueblo de Holguin e per i giovani –
Il convoglio riparte: un ultimo giro di piazza strombazzando, poi infila una strada laterale e sparisce, mentre il suono del clacson si perde lontano.
E io sorrido, pensando all’ improbabile scena di una giovane ragazza italiana che depone fiori al monumento di Garibaldi o di Cavour.
Ci avviamo verso casa.
– Olà, Italiani, todo bien? – è un uomo di colore che, incrociandoci, ci fa un largo sorriso, senza fermarsi.
Non rispondiamo nemmeno, per la sorpresa. Solo Antonio:
– Come fai a saperlo? –
Rallenta: – Si capisce! Ciao, Italiani… – e riparte con passo deciso
Sorridiamo, perché siamo sicuri che voleva farci un complimento. Alle 3 il taxista arriva puntuale. Purtroppo Jodalis, impegnata a scuola per un saggio della sua bambina, non è ancora tornata, Mi spiace, perché le avevo promesso una foto sotto il bel pergolato di fausto, il rampicante dai fiori bianco-rosati, e dai lunghi rami che scendono a terra, che orna il piccolo spazio antistante la sua casa.
Il piccolo aeroporto è quasi deserto, per cui svolgiamo le pratiche d’ imbarco velocemente. L’ addetto al check-in, un giovanottone allegro e cordiale, ha voglia di chiacchierare:
– Todo bien, Italiani? Buena vacança? Divertiti aquì a Cuba ?-
Approfittiamo della sua disponibilità: è possibile avere quattro posti vicini, due al finestrino? Ma certo ! E possibilmente, non sull’ ala. No problema. Gli offriamo un caffé.
La sala d’ attesa, semivuota, si popola in breve di turisti italiani. Ci sono anche le due piemontesi, che svolazzano qua e là, abbracciando e salutando i ragazzi stranieri conosciuti nell’ albergo di Guardalavaca e che non rivedranno più. Nel free-shop spendiamo in biscotti gli ultimi cuc rimasti. Il nostro aereo arriva dall’ Havana e non è ancora atterrato: sarà qui tra breve.
Sono l’ ultima dei quattro a salire, accolta da Angela che ha individuato i posti e si è sistemata:
– Guarda un po’ qui! E quello si sta bevendo il nostro caffé! –
Siamo esattamente sull’ ala. Ma non importa: la maggior parte del viaggio si svolgerà di notte. No problema. La pista di decollo assomiglia alla caretera central, fiancheggiata com’ è da palme che fuggono via rapide mentre, l’ aereo prende velocità.
In pochi istanti siamo sospesi sul Mar dei Caraibi.
Cuba è laggiù, sempre più piccola e lontana, con le sue ballerine e i suoi taxisti, i musicisti, gli arrendador… con Alfredo, Tzaritza, Trecciolino, e Ninette..
Un’ ampia virata, e scompare definitivamente, inghiottita dalla bruna foschia della sera.
v 10 febbraio, lunedì
Atterriamo verso le 10,30 alla Malpensa.
Il freddo pungente, nonostante la giornata soleggiata, ci riporta di colpo alla realtà.
Edoardo è un po’ preoccupato:
– Speriamo cha la macchina non faccia storie, dopo quindici giorni ferma all’ addiaccio… –
Per fortuna va tutto bene, anche l’ organizzazione del parcheggio si conferma ottima. Ma, uscendo, sbagliamo direzione. Giriamo un po’ a vuoto, finché ci troviamo in un paese sconosciuto, uno di quei ricchi, anonimi paesotti della pianura lombarda: belle ville, bei giardini, belle macchine. Di cartelli indicatori nemmeno l’ ombra. Antonio comincia i suoi borbottii, Edoardo gli fa eco. Chiediamo a un gentile signore fermo sul ciglio della strada.
– Vadi sempre dritto in quella diresione – poi, rivolto ad Antonio:
– E lei non s’inc… che ci fa male alla salute !-
Lo spagnolo è musica ormai lontana.

A mezzogiorno siamo a casa, accolti da un lungo, lamentoso miagolio di Jago, che per l’ intero pomeriggio rimarrà incollato a Edoardo. Il giorno dopo i media daranno l’ annuncio delle avvenute dimissioni di Fidel Castro a favore del fratello Raoul.
Nei giorni successivi una perturbazione di origine siberiana riporterà sotto lo zero le minime delle nostre regioni centro-settentrionali; in televisione inizieranno i soliti dibattiti al veleno, in vista della prossime elezioni politiche; il cardinale Bagnasco rivolgerà un appello a Nanni Moretti affinché non tralasci, nei suoi film, quei principi cristiani che sono base imprescindibile della nostra cultura e della nostra società..

Bentornati in Italia !

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