di Marina Binda –
Parte prima: il grande sud. 18-19 Agosto: Roma – Sidney
Siamo usciti presto da casa: l’aereo per Hong Kong partirà intorno a mezzogiorno e dobbiamo essere in aeroporto ben due ore prima. Mi sento già stanca sul trenino Roma-Fiumicino, essendomi occupata, durante i giorni precedenti alla partenza, di definire tutte le questioni in sospeso: conti, lavoro in arretrato, pulizia di casa, genitrice, etc. Ieri notte poi, more solito, non ho dormito molto, spossata dalla mole delle incombenze adempiute ed in lieve ansia per il lungo viaggio a venire. Il volo verso Hong Kong è davvero pesante; non ho chiuso occhio ed ho studiato indefessamente il decreto 112, allucinata dal fuso che avanzava, con le gambe dolenti, la posizione scomoda. Scendiamo alla mezzanotte italiana ma sono le sei di mattina in Cina. L’aeroporto di Hong Kong mi sembra magnifico: luccicante di vetrine e di vestiti sciccosissimi che nulla hanno da invidiare alla moda italiana. Mi innamoro di quello che mi sembra l’abito più bello che abbia mai visto, assolutamente inaccessibile per le mie tasche. Dopo tre ore prendiamo l’aereo per Sidney, siamo gli unici italiani. Per fortuna ho riposato mezz’oretta su un divano dell’aeroporto.
Nel salire in aereo mi stupisco subito per il numero di persone che ha scelto la business: poco dopo capisco perché. La business della Qantas ha un poggia-piedi comodissimo; in pratica, ogni sedile è singolo ed è strutturato come se fosse un piccolo letto. Nei viaggi intercontinentali è effettivamente molto comodo. Comunque, anche nella economy non si sta male: la tratta Hong Kong-Sidney è per me meno faticosa di Roma-Hong Kong, forse perché ormai è giorno e stiamo viaggiando da nord a sud, piuttosto che da ovest ad est.
Scendiamo a Sidney circa alle nove di sera (ora locale) del 19 Agosto: abbiamo spostato di altre due ore l’orologio, sono circa ventisei ore che siamo in movimento. Cambio subito i soldi e compro una carta telefonica con la quale chiamo mia madre, che si lamenta sempre come al solito. Lo shuttle dall’aeroporto agli alberghi costa solo 12 dollari (circa 8 euro) e ci porta a destinazione.
Il nostro albergo è carino, un po’ retrò forse, ma pulito; è gestito da indiani, che vedendoci stanchissimi ci danno una camera calda e spaziosa, dotata di un terrazzino con affaccio sul lato principale. Mi faccio subito una doccia e mi accorgo che l’acqua di Sidney (ed in generale di tutto il South Australia) ha un odore pungente ed un sapore sgradevole. Forse dipende dal fatto che gli australiani utilizzano acqua piovana riciclata e deionizzata. Qui, infatti, ogni palazzo ha la sua cisterna, la cui riserva viene utilizzata per le scorte. Ci addormentiamo alle nove e trenta di sera e ci sveglieremo, intontiti, tra circa dodici ore. Se penso che normalmente dormo tra le cinque e le sei ore mi rendo conto che la circostanza è davvero eccezionale.
20 Agosto: Sidney
La colazione viene servita in una specie di cortiletto interno ricoperto da un tetto di vetro, dove crescono degli alti alberi di bambù. Molto carino ma un po’ freddo. Purtroppo ad agosto in Australia è inverno e fa buio prima che da noi.
Il gestore dell’Hotel ci consegna una mappetta, suggerendoci i luoghi dove andare, compreso lo shopping. Decidiamo di seguire i suoi consigli alla lettera e non ce ne pentiremo. Accanto all’albergo c’è un piccolo store gestito da un giordano molto simpatico, dal quale compreremo costantemente l’acqua e generi vari. Prova nostalgia per la sua terra e soprattutto per la cultura orientale, non riuscendo ad identificarsi con quella australiana che giudica troppo “birrosa” e poco interessante. Conclude decretando che a Sidney si sta bene ma che la città peggiora di anno in anno; riteniamo di non approfondire il significato dell’affermazione.
Seguendo le indicazioni del gestore dell’hotel ci rechiamo dapprima al giardino botanico, dove ammiriamo piante di ogni tipo e uccelli mai visti prima, poi alla famosa Opera House, ove parteciperemo ad una visita guidata.
La baia di Sidney è spettacolare ed ha fama, certamente non usurpata, di essere la più bella del mondo. Il sole, pur invernale e la mite temperatura contribuisce a renderla perfetta. L’Opera House è un capolavoro assoluto di architettura di cui il nostro Auditorium altro non è che una pallida imitazione. Progettata da un danese, e situata sulla punta della baia, ha una struttura a conchiglia, o meglio, a triplice conchiglia di colore bianco e a forma triangolare. Personalmente l’ho associata, più che alle conchiglie, ad un incastro di bianche vele ammainate al vento, smaglianti al sole e rivolte verso il mare.
Sidney, con la sua splendida baia è certamente affascinante, moderna, organizzata e (inutile dirlo) pulita ma tutto sommato – Opera House a parte – mi pare più intrigante la speziata Istanbul, distesa sul Bosforo e punto di misterioso contatto tra due civiltà: l’oriente e l’occidente. Anche Washington, poi, con le sue banchine sul grande Potomac, non è di molto inferiore.
Dopo la visita guidata all’opera House, ci rechiamo al caratteristico quartiere The Rocks, fulcro dell’antica Sidney e pieno di caffè e negozietti. Da lì prendiamo un traghetto (dove dormicchiamo un po’, ancora sballati per il fuso) che ci porta all’acquario di Sidney, luogo assolutamente ben strutturato e interessante, pullulante di pesci e di animali, che in seguito vedremo dal vivo.
Dopo una sosta in albergo, scendiamo nel quartiere Woolloomoolloo dove sfilano ristoranti sciccosissimi, lungo la darsena. Lì commettiamo il primo errore: attirati da una cameriera sorridente, ci sediamo in un ristorante apparentemente easy ma che si rivelerà costoso. La cameriera ci chiede se festeggiamo qualcosa di speciale e da ciò dovremmo capire che il conto sarà salatissimo. Comunque sia, crepi l’avarizia! Staremo a stecchetto al ritorno. Mangiamo bene e chiacchieriamo con la ragazza che sembra assolutamente entusiasta del giro che faremo. Appare sinceramente felice dell’esperienza, straordinaria secondo lei, che ci accingiamo a sperimentare. E con l’animo pieno di aspettative torniamo in albergo.
21 Agosto: Sidney
Sempre seguendo le indicazioni del gestore dell’albergo, ci dirigiamo di buon’ora alla Sidney Tower, alta torre da cui si vede tutta la città. Ancora scossa dal fuso, mi accorgo che non riesco a salire le scale. Dalla cima ammiriamo un bellissimo panorama della città, sorseggiando un espresso (finalmente!) ed assistiamo ad una simulazione, piuttosto ben fatta, sui vari ambienti dell’Australia. C’è anche la storia geologica del Paese e una storia dei Pionieri. In effetti, l’Australia è un continente ove un secolo fa non c’era praticamente nulla, luce, acqua, strade… è stupefacente cosa siano riusciti a fare in tempi così brevi. Ciò rende ragione dell’orgoglio nazionale e giustifica il senso delle origini (la colonia penale) sempre presente in ogni spot televisivo, in ogni opuscolo turistico, in ogni maglietta degli abitanti. In effetti moltissime strade e località hanno nomi legati all’Inghilterra: Victoria Street, Southampton, London, etc: una sorta di invisibile filo che lega presente e passato.
La giornata purtroppo è piovosa e coperta; ciononostante ci rechiamo alla spiaggia di Mainly, distante dal centro circa quindici minuti di traghetto, tragitto durante il quale sonnecchiamo un pochino. A Mainly passeggiamo lungo una spiaggia lunga, pulita e bianca ma fortemente battuta dal vento. Troviamo riparo in un caffè sulla promenade e mangiamo qualcosa.
La sera, grande evento: andiamo a vedere il Don Giovanni all’Opera House, concedendoci così un appuntamento veramente mondano, l’unico del viaggio. Bello spettacolo, anche se piuttosto “queer” per le scenografie, come commenteremo poi al ritorno con una coppia di coniugi inglesi. Devo confessare di essere piuttosto tradizionalista ed incapace, perciò, di comprendere le rivisitazioni eccessivamente alternative dei grandi classici. E’ probabile che il mio attaccamento al testo ed all’ambientazione originale sia un grande limite intellettivo ma è pur vero che questa mia caratteristica nasce dall’umiltà: che bisogno c’è di un intervento eccessivamente manipolativo su un capolavoro universalmente riconosciuto come ad es. il Mercante di Venezia, o il Paradiso dantesco? Per tale ragione prediligo l’architettura e la musica antica, la prima polifonia occidentale medievale e rinascimentale, prive come sono di arricchimenti non necessari.
Durante l’opera Gianluca per fortuna ha dormito poco: gli ho dato solo due gomitate.
22 Agosto: Sidney
Finalmente ci sentiamo fuori dalla spirale del fuso, perciò festeggiamo girovagando tra i mercati coperti, anche perché cade una fitta pioggia uggiosa.
Ci troviamo per caso davanti al Tribunale di Sidney e decidiamo di entrare; assistiamo ad una sorta di udienza in camera di consiglio aperta al pubblico. Si dovrebbe trattare, salvi miei errori, di un’udienza dinanzi al Giudice di Sorveglianza o qualcosa del genere. Una detenuta cretina durante un permesso premio ha tentato di vendere eroina ad un poliziotto ed ora chiede qualcosa che non riesco a capire. Forse la liberazione anticipata? Il diniego del giudicante è scontato e prevedibile.
Andiamo, poi, nell’esclusivo quartiere di Paddington (segnalatoci dalla cameriera del costoso ristorante – ivi residente – che lo ha definito “il più chic di Sidney”), ove cerchiamo riparo dalla pioggia in una libreria, frequentata -ahimè!- da intellettuali ricchi dall’aria alternativa. Almeno il panino è buono e così il succo d’arancia.
La sera, mangiamo in un ristorante vicino all’albergo, in Victoria Street, ove gustiamo la cena migliore di tutta la vacanza. Nonostante abbia discusso con la persona che ci ha servito, che giudico stupidamente snob, devo ammettere che il cibo è superbo.
23 Agosto: Sidney – Melbourne
La mattina uno shuttle ci porta all’aeroporto di Sidney e alle undici partiamo per Melbourne ove arriviamo a mezzogiorno e mezza (sono riuscita a comprarmi una maglia mentre ero in transito verso i bagagli!). Da lì un autobus ci porta alla stazione, che si trova a circa 200 metri dal bed and breakfast dove dormiremo.
L’alloggio è delizioso, arredato da un sapiente architetto e fornito di ogni confort, ivi compresa la coperta elettrica. La colazione viene servita in una stanza in mattoni ove c’è un enorme tavolo rettangolare attorno al quale siedono tutti gli ospiti. Nella stessa accogliente stanza un bellissimo forno antico è illuminato con gusto.
Dopo una rapida doccia, nell’illusione di aver lavato la stanchezza, verso le tre e mezzo usciamo e camminiamo per Melbourne, cercando di cogliere il più possibile della città. Prendiamo subito un tram gratuito, che si chiama Circle Line, da cui si può salire e scendere a piacimento; è dotato di un disco nell’altoparlante che spiega tutti i punti salienti della città, in prossimità delle fermate. Melbourne è molto più fredda di Sidney ed il tempo, oggi piovoso, non aiuta di certo. Del resto, al telegiornale hanno appena detto che questo è il più freddo Agosto del trentennio.
Scendiamo dapprima ai Docks, avveniristico quartiere sul mare in perenne costruzione; un cantiere in movimento all’aria aperta. Nel giro di cinque anni chissà cosa diventerà. A Melbourne ci sono piste ciclabili dappertutto, anche sul fiume (intendo dire su ponti costruiti appositamente per le bici che attraversano il fiume, non semplicemente in riva al fiume). Federation Square è un bel punto di aggregazione, piena di caffè e ristoranti, con uno schermo gigante installato al centro che proietta le Olimpiadi e, subito sotto, l’affascinante Yarra, fiume ove nuotano rari cigni neri. Il centro, poi, è pieno di luci e le strade larghe e pulite sembra portino tutte al Parlamento dello Stato di Victoria.
Alle sei di sera, stanchi di camminare, entriamo nella chiesa cattolica di St. Patrick, ove assistiamo alla funzione più gelata della storia. La temperatura ricorda quella di S. Antimo a Capodanno, ma qui, al posto del coro, c’è una signora (brava naturalmente, ma monotona) che canta da sola.
Usciti dalla chiesa, divoriamo un magnifico hamburger in un pub, dove ci riscaldiamo un po’. Non contenti, ordiniamo poi una bowl of chips, che mangiamo allegramente in barba alla dieta. Al ritorno, la Circe Line ci riporta fischiettando al bed and breakfast.
Nell’addormentarmi, ho un moto di dispiacere per il poco tempo che ho avuto a disposizione per visitare questa città moderna ed interessantissima, e, improvvisamente, un senso di precarietà mi coglie nel constatare che non so se mai tornerò, anche se vorrei.
24 Agosto: the Great Ocean Road
Gianluca si è svegliato pervaso da comprensibile nervosismo, poiché deve andare a prendere l’automobile in affitto. Ci danno una spaziosa Nissan ove le valige entrano comodamente. Ci dirigiamo quindi verso la Great Ocean Road, non senza aver avuto difficoltà per trovare l’uscita dalla città e per la guida a sinistra.
La Great Ocean Road è la strada più bella del mondo, punto. Non è necessario aver vistato tutta la terra per capirlo: è semplicemente escluso che ve ne possa essere un’altra di uguale bellezza. Per tale ragione non è possibile descrivere a parole e ricordare il fascino dei paesaggi ove si snoda, posso solo dire che è una strada costruita in mezzo al Paradiso terreste.
Dopo circa 300 km da Melbourne, giungiamo a Port Campbell, paesino adagiato sulla costa ove l’erba verdissima cresce sino al limitare della scogliera. E’ questo il luogo dove si possono ammirare i famosi “dodici Apostoli”, cioè scogli altissimi dalle forme e colori spettacolari. E’ un paesaggio superiore in bellezza, se possibile, alle alte scogliere d’Irlanda. Arriviamo all’imbrunire con un freddo pungente. Ciononostante la vista è indimenticabile.
A Port Campbell dormiamo in un graziosissimo hotel, gestito da una ragazza figlia di emigranti calabresi. “Io sono alta, ma i miei genitori sono bassi”, ci dice ridendo. La stanza è freddissima e per riscaldarla ci metto quattro ore, tenendo il condizionatore a trenta gradi. La sera mangiamo in un ristorante sul mare, dove ci accettano per un pelo, in quanto in Australia, soprattutto in campagna, la cucina chiude inderogabilmente alle otto di sera.
25 Agosto: the Great Ocean Road
Venticinque agosto: la giornata più stancante del viaggio. Percorriamo più di 700 km in auto lungo la Great Ocean Road, ammirando paesaggi di una bellezza inimmaginabile, per certi versi simili all’Irlanda. Arriviamo sfiniti a Middleton alle otto di sera. La sistemazione è deliziosa, anche se priva di bagno in camera (disagio irrilevante, essendo noi due gli unici avventori). La stanza è bianca e celeste ed è arredata con gusto: sui muri, foto di grandi conchiglie bianche di tipo compostellano e, all’esterno, un piccolo giardinetto a disposizione dell’ospite. Peccato che non possiamo godere di tutte queste “facilities” per lo scarso tempo che abbiamo.
Il sussiegoso proprietario ci fa sapere immediatamente di essere francese e ci chiede se parliamo la sua lingua. Gli rispondo di essere spiacente: purtroppo parlo male solo inglese, anche se avrei voluto dirgli: “ Ma te l’ho chiesto se sei francese?”.
Dopo una rapida doccia, che certo non elimina il gonfiore delle gambe, corriamo a cercare qualche posto dove poter mangiare, purtroppo invano. Ci spostiamo allora di cinque km. e per il rotto della cuffia troviamo due posti in un hotel (“hotel” in Australia talvolta significa “ristorante”) dopo che una prima cameriera ci aveva rifiutati.
Corriamo sfiniti in camera, consapevoli che domani dovremo fare una levataccia.
26 Agosto: Kangaroo Island
Ci svegliamo alle sei e mezzo del mattino in quanto dobbiamo prendere il traghetto delle nove da Cape Jerwis per Kangaroo Island. E poiché ci dovremo presentare un’ora prima e il porto dista circa 70 km. da Middleton, l’alzataccia è obbligatoria.
Al sorgere del sole costeggiamo la penisola dei Fleurs, così chiamata perché è stata originariamente colonizzata dai francesi. L’aria è tersa, anche se il tempo è coperto: ancora intontita dal sonno osservo i gruppi di uccelli multicolori che si sono dati appuntamento sulle lagune o sugli scogli che costeggiamo. Una inspiegabile sensazione di felicità mi coglie, mentre all’alba osservo la terra rossa e le verdissime praterie.
Arriviamo tra i primi a Cape Jerwis (per l’ansia di Gianluca) e ci mettiamo in fila per salpare. Kangaroo Island è un vero paradiso, ove vivono animali e piante divenute rare o estinte in tutto il resto del pianeta. E’ un luogo dove bisognerebbe andare a vivere, avendone il coraggio. L’attracco è a Penneshaw graziosissimo villaggio formato da casette colorate ed abitato da gente cordiale.
La guida del punto di informazioni turistiche ci consegna una cartina, indicandoci i luoghi da visitare. Anche questa volta, come a Sidney, seguiamo i consigli alla lettera, e ancora non ce ne pentiremo.
L’isola è lunga circa 250 km. ed è percorsa da due lunghe strade che si snodano tra dolci foreste di eucalipti, praterie e specchi d’acqua dove riposano uccelli di razze sconosciute. Il tempo è coperto ma, forse per l’incanto dei luoghi, mi pare che faccia meno freddo che a Port Campbell.
Ci fermiamo subito a Seal bay ove sperimenteremo un’avventura indimenticabile. Entriamo nel punto di informazione e ciò che subito ci colpisce è l’entusiasmo delle guide nel parlare di quello che faremo. L’amore per il loro lavoro. La fortunata consapevolezza di trovarsi in un luogo unico al mondo. Ed effettivamente è così.
A Seal bay riposa una colonia di leoni marini che ha scelto questo luogo quale riparo dopo le lunghe battute di pesca. Ci viene spiegato che questi animali nuotano per tre giorni di fila per cacciare i pesci di cui nutrirsi, e giungono su queste spiagge esausti, quasi incapaci di respirare per la stanchezza. In mare hanno superato molti pericoli mortali, gli squali, le forti correnti e non sempre il bottino è stato opulento. Giungono sfiniti sulla riva, ove si trascinano lentamente, incapaci di proseguire. Si addormentano vicini, rannicchiati l’uno accanto all’altro, quasi a voler festeggiare il fatto di essere vivi. Il musetto di un leone marino è indimenticabile: di colore chiaro con lunghi baffi sottili, occhi neri e tenerissimi, ti guarda come volesse dirti: “Perché mi cacci? Perché butti quei sacchetti di plastica bianchi che tanto mi affascinano ma che mi soffocano o quelle corde di plastica che mi strangolano? Non lo vedi, sono innocuo…chiedo solo di vivere e di nutrire i miei piccoli”.
Me ne innamoro all’istante e decido che sono l’animale che preferisco. Tutt’ora questo innamoramento persiste e non accenna a diminuire.
I cuccioli di leone marino sono meravigliosi, praticamente incapaci di stare lontani dalla madre che li allatta teneramente. Poiché il mantello è bianco spesso si confondono con la sabbia o con gli scogli chiari. Quando fa molto freddo, si riparano dietro i cespugli o dietro le dune di sabbia. Alcuni di questi animali sono vicinissimi al nostro gruppo. La guida raccomanda di parlare piano e di non toccarli. Un piccolino, improvvisamente svegliatosi dal sonno, emette un allarmato e insistente verso di richiamo, cercando affannosamente la mamma. Subito mi preoccupo che la trovi e scruto fra le tante cercando di individuare quale potrebbe essere la sua.
Torniamo al punto di partenza felici per la bella esperienza vissuta e consapevoli della immensa e misteriosa armonia che pervade la natura.
Saliamo in auto e ci dirigiamo verso sud. Ci fermiamo a Kelly hill ove facciamo una bellissima visita guidata in una enorme grotta naturale dalle splendide stalattiti. Anche qui la guida è entusiasta ed appagata: ci dice di essere enormemente fortunata a svolgere il proprio lavoro che non cambierebbe con nessun altro. Penso mestamente al senso di frustrazione e di fallimento che talvolta traspare dai volti indifferenti dei custodi dei nostri ti archeologici o d’arte.
La grotta è spaziosa e sapientemente illuminata con flebili luci bianche e basse. Vedo colori che giudico improducibili artificialmente anche dal migliore degli stilisti.
Fuori pioviggina, ma andiamo ugualmente a fare una passeggiatina nel bosco. All’entrata del sentiero, ci fermiamo davanti vediamo un cartello (del National Park), munito di spazzola, che impone al viandante di pulire le scarpe prima di intraprendere il sentiero, in quanto le suole potrebbero avere attaccato materiale fungino nocivo per le piante. Incredibile!
Prima di arrivare al resort, ci fermiamo nel Koala Sanctuary ove vediamo i primi canguri dell’Australia e i koala, appollaiati in alto sugli alberi. I koala sono orsetti simpatici dai movimenti lenti. Mangiano foglie di eucalipto e stazionano sui rami più alti al riparo dagli umani e dai pericoli provenienti dal basso. In genere si accomodano su rami a forma di V onde stare agevolmente seduti ma sovente si posizionano a testa in giù cercando di acchiappare una foglia che giudicano particolarmente succulenta. Osservare un koala è divertente: ti guarda come se ti dicesse: “Fai come me, non ti stressà! Stai calmo. Take it easy.” Un elogio dell’ozio. Uno di questi animali, in particolare, porta un piccino aggrappato alla schiena, che emette striduli gridi di giusta preoccupazione quando si ritrova a testa in giù suo malgrado.
I canguri, invece, sono mammiferi dalla lunga coda che dovrebbe servire a mantenerli in equilibrio quando stanno a zampe ritte. Purtroppo non li ho mai visti saltare ma sempre brucare pacificamente l’erba. Quello che è certo è che il musetto triangolare è simpatico e che gli occhi sono vispi.
Felici di questa giornata, all’imbrunire arriviamo al resort, situato nel parco nazionale di Flinders Chase, che dispone di una propria pompa di benzina dai prezzi altissimi. Ci danno una bella camera in legno (che provvedo subito a riscaldare) con vista sul giardino dove vivono numerosi wallabies.
Ceniamo nel resort, infastiditi da una musica new age, ma confortati da un discreto cibo. Ci serve un signore che giudico assai stressato dalla direttrice (presente a cena con noi). Durante la notte mi accorgo con orrore che viene tolta la luce per ragioni di risparmio energetico. “Come la mettiamo con l’insonnia? Riuscirò a leggere?” Mi chiedo nervosamente.
27 Agosto: Kangaroo Island
Carichiamo l’auto e andiamo subito al Parco Nazionale di Flinders Chase ove purtroppo ci comunicano che gran parte del bosco è inaccessibile a causa dei recenti allagamenti ed i passati incendi.
Fortunatamente è aperta al pubblico l’area ove si trovano the “Remarkable Rocks”, sito sul mare dove si possono ammirare enormi massi erosi dal vento che li ha resi lisci e cavi alla base.
Lo spettacolo naturale è davvero notevole, anche se inferiore a Stonehenge, quanto a fascino e mistero. Sotto la scogliera il mare mugghia con violenza impressionante, quasi a voler ricordare ai mortali chi comanda veramente.
Facciamo una breve passeggiata tra gli arbusti e poi ci rechiamo all’Admiral’s Arch, un arco naturale in pietra sotto il quale soggiornano numerose lontre marine. Le foche sono di colore più scuro dei leoni marini e si caratterizzano per un odore pungente e sgradevole. Se penso che hanno nuotato dalla Nuova Zelanda sino a qui mi sembrano eroine che si godono il giusto riposo del guerriero.
Accanto a noi, una famigliola, credo genovese, il cui figlio adolescente appare svogliato e poco interessato. Ho un moto di ammirazione per il padre, di modesto aspetto, che si sforza di insegnare al giovane annoiato ciò che ha letto sulla guida, mentre la moglie fotografa il mare schiumante sotto. Mi interrogo sull’utilità dello sforzo economico sostenuto da quest’uomo per portare il giovane figlio fino a lì. Decido definitivamente che sono soldi ben spesi e che qualcosa nel cuore del ragazzo senz’altro rimarrà.
Usciamo dal Parco Nazionale e, dopo aver fatto benzina a metà tragitto in un paesino rallegrato da adolescenti vocianti, ci dirigiamo verso il paese di Kingscote, dove dormiremo.
Kingscote è un discreto centro, dotato dei principali servizi dell’isola, la banca, la posta, un centro sociale e addirittura il Club dei Lions.
L’albergo affaccia sul mare ma ci danno una camera con vista laterale, forse perché rimarremo solo una notte. La stanza, sita al piano terra, è immensa: ha due letti matrimoniali, un enorme armadio e un terrazzino dove non mi azzardo ad uscire sia per il freddo sia per la presenza di un gruppo di ubriachi dall’altra parte della strada. Immediatamente provvedo ad accendere il riscaldamento in quanto fuori tira un vento gelido.
Ceniamo presto nel ristorante dell’hotel, un immenso stanzone pieno di gente. Per ordinare si va alla cassa e si sceglie il piatto; il personale mette il foglio dell’ordine in fila attaccato al banco del cuoco e consegna al cliente un oggetto di plastica. Si torna al proprio tavolo e a un cero punto l’oggetto di plastica comincia a suonare furiosamente e a lampeggiare; a questo punto, senza farsi prendere dal panico, bisogna recarsi al banco, riconsegnare il “ lampeggiante” e ritirare il piatto.
Dopo cena andiamo subito alla darsena, per partecipare alla visita guidata che abbiamo prenotato nel pomeriggio. Lì c’è un ragazzo che riconosco essere lo stesso che qualche ora prima aveva nutrito i pellicani. Uno “spettacolo” tenutosi sugli scogli, quando questo stesso ragazzo aveva simpaticamente spiegato qualche cosa che non sono riuscita a comprendere, mentre era letteralmente circondato da gabbiani e pellicani. Aveva con sé un secchio di pesce con cui nutriva gli uccelli. Capivo che era buffo, sia per il modo di parlare, pur se incomprensibile per me, sia perché tutti ridevano a crepapelle alle sue battute.
Ma torniamo alla visita notturna. Ci dicono anzitutto qualcosa sui pesci, mentre siamo ancora al chiuso. Poi usciamo all’aperto e con una torcia laser ci spiegano con pazienza ed accuratezza quali sono le stelle e le costellazioni che dall’alto guardano gli umani. Sono incantata dall’entusiasmo e dalla felicità che mostrano questi giovani nel loro lavoro. C’è un vento gelido che ha spazzato le nubi. La ragazza ci porta sul pontile e ci fa scendere per una passerella in legno che arriva sulla spiaggia. Ha in mano una torcia di colore rosso. Con essa illumina i dintorni e ci mostra con orgoglio una colonia di pinguini nani stabilitisi sugli scogli della cittadina. Alcuni provengono dalla Tasmania, altri dalla Nuova Zelanda; hanno nuotato a lungo e ora si riposano qui. Sono chiaramente infastiditi dalla luce rossa e subito cercano di nascondersi. Alcuni, più piccoli, hanno il pelo più morbido e arruffato vicino al collo; altri, più grandicelli, camminano in coppia. La guida ci spiega che sono circa quattrocento e che i maggiori pericoli sono costituiti dai falchi, peraltro rari per la vicinanza al centro abitato, dai cani e dai gatti (“dai gatti? Avrò capito bene?”). I pinguini dispongono di casette di legno costruite da questi ragazzi; in esse si sentono “safe” dagli assalti esterni e riparati dal freddo. Sono innumerevoli scatole di legno quadrate con un’apertura davanti e una sul retro. Talvolta, quando un pinguino entra in una di queste casette si sentono urli acuti provenienti dall’interno: decido che costituiscono una sorta di rivendicazione della proprietà privata, anche perché dopo qualche secondo “l’intruso” esce di gran fretta.
La visita è bellissima ma interminabile: ogni pinguino viene cercato, fissato, illuminato e viene “spiegato” con dovizia di particolari. Fa freddissimo….tempo da pinguini… ma almeno il cielo è stellato.
28 AGOSTO: kangaroo Island
Fuori splende un sole accecante. E’ la seconda bella giornata che abbiamo (dopo la prima a Sidney) da quando siamo partiti. Mi dirigo subito verso uno store che vende souvenir e oggetti di tutti i tipi. Compro regalini per i bambini dei miei amici appena nati ed olio di eucalipto per le mie povere gambe gonfie, distrutte dai viaggi in aereo e in macchina.
Prendiamo l’auto e andiamo ad Emu bay, dove facciamo una lunga passeggiata lungo una delle spiagge più belle che abbia mai visto. La sabbia è bianca e finissima, ricorda quella di Santa Monica a Boavista, isola capoverdiana. Fa troppo freddo per mettere il costume, ma è piacevole camminare raccogliendo graziose conchiglie. C’è solo una coppia che passeggia con un minuscolo cane, assai espansivo anche verso di noi. Vedo la signora raccogliere una magnifica stella marina di colore blu e sono colta da uno stupido moto di gelosia. Su un pontile sono appollaiati pellicani e altri uccelli simili a cicogne. Fantastichiamo di acquistare una delle incantevoli case dalle grandi vetrate in vendita sul mare. I prezzi degli immobili sono elevati, ma assai meno esosi che in Italia.
Ci allontaniamo malvolentieri e raggiungiamo Stroke’s bay, spiaggia bianca e lunga alla quale si accede tramite una roccia e una grotta. Lì ci sediamo per mangiare ma veniamo letteralmente cacciati da un gabbiano molto aggressivo che vola intorno a noi, abbassandosi circolarmente. Lo cacciamo, ma lui subito si sistema su una roccia accanto ed emette grida roche che richiamano altri “colleghi”, roteanti sempre più vicini. Allora capiamo che quelle grida erano segnali ai compagni, una sorta di predisposizione alla battaglia. Che fare? Ci alziamo sconfitti, lasciando i gabbiani padroni del territorio.
Il tempo sta cambiando: tira un vento che porta nuvole. Saliamo in macchina e ci dirigiamo lentamente verso Penneshaw, dopo aver deviato per un grazioso villaggio chiamato American River in quanto era il luogo prediletto dai primi soldati americani.
A Penneshaw telefono a mia madre e intirizzita dal freddo entro in una specie di pub, dove consumo insieme a Gianluca una cena anticipata a base di gamberi. Continuo a pensare che ci troviamo in un paesino delizioso.
Il battello parte alle sette e mezzo di sera e dopo circa tre quarti d’ora siamo a Cape Jerwish da cui iniziamo il viaggio in auto verso Adelaide. E’ buio pesto e dobbiamo percorrere centodieci km. Gianluca per fortuna ha studiato bene il percorso e persino l’ingresso in città sembra facile. Ad Adelaide ci sistemiamo in un hotel composto da miniappartamenti dotati di ogni confort: c’è addirittura la lavatrice. Il nostro si trova al terzo piano ha uno dei muri in mattone ed è arredato con toni sul marrone, crema e caffè. Molto elegante. Mangio subito un pacchetto di patatine, riscaldo la stanza, doccia e letto. Questa lunga giornata è finita. Domani abbiamo l’aereo alle nove e quaranta e ci dobbiamo svegliare presto. Buonanotte.
PARTE SECONDA: IL DESERTO
29 Agosto: Alice’s Springs
Gianluca è particolarmente nervoso perché teme di non fare in tempo: deve riconsegnare l’auto all’aeroporto alle otto. Fa colazione in uno stato di parossistica agitazione. Naturalmente arriviamo in aeroporto in anticipo e facciamo una lunga fila per l’imbarco. Le raffiche di vento entrano ogni volta che si apre la porta, perciò sono la prima a passare il check-in. Compro qualche altro regalo per gli amici del cuore e poco dopo saliamo sull’aereo che ci porterà ad Alice’s Springs, con arrivo previsto a mezzogiorno circa. Non appena scendiamo dalla scaletta ci colpisce subito il caldo secco del clima e il sole forte che ci riscalda. Ci illudiamo che il freddo sia finito e ci dirigiamo verso il banco del noleggio. Lì Gianluca ha una sorta di attacco di panico quando gli viene detto che dovrà guidare una specie di carro, munito di due cambi. In uno stato d’ansia dà l’assenso all’estensione del massimale di polizza, cosa che gli costa centinaia di dollari, “soldi mal spesi”, rifletto mestamente, senza profferire verbo. In effetti la macchina è enorme e nella parte anteriore è dotata di un minaccioso tubo che svetta verso l’alto. Ha due cambi, uno dei quali ignoriamo completamente.
Ad Alice’s Springs, cittadina ben tenuta nell’Outback australiano, tutti portano cappelloni genere Mr. Crocodile Dundee e camperos. Ci sistemiamo in un resort dove c’è anche una piccola piscina. La stanza si trova al piano terra ed è carina, anche se esposta al passeggio esterno. Usciamo subito per dirigerci al vecchio telegrafo, passeggiata di circa 7 km. tra andata e ritorno. Arrivati sul posto chiedo a Gianluca di fare una piccola pausa per far riposare le mie gambe gonfie. Nel frattempo, la custode del vecchio telegrafo chiude, con mia somma costernazione. Torniamo indietro rapidamente, in quanto incombono nubi nere e l’orario è tardo. Arriviamo al resort piuttosto stanchi e perciò decidiamo di mangiare in albergo, ove assaggiamo il barramundi, tipico pesce australiano, gustoso e di discrete dimensioni. Il pesce è ben cucinato e ci fa sentire satolli e soddisfatti.
30 Agosto: King’s Canyon
Ci svegliamo di buon’ora, preoccupati per il tratto che dobbiamo affrontare su strada sterrata. Il tempo è coperto e non sembra preludere a schiarite. Dobbiamo percorrere circa 300 km. su un percorso accidentato e non asfaltato in pieno deserto australiano. Cominciamo la nostra traversata su una larga strada rossa che taglia una immensa pianura dove crescono sparuti alberi e cespugli giallastri. Il sole deve essere potente in questa zona, bagnata raramente dall’acqua.
Ad Alice’s Springs esiste un fiume, completamente secco, the Todd river. Gli abitanti del luogo usano dire che sei un vero cittadino se hai visto per almeno tre volte scorrere l’acqua nel fiume. Oggi si tiene una finta gara di canoa in cui i partecipanti, in realtà, corrono a piedi sul letto del “fiume”, tenendosi la canoa sui fianchi. Nonostante la festa preferiamo partire, ignorando le difficoltà che ci riserva il tragitto che ci aspetta.
In effetti il viaggio è pesante. Sono rare le forme di vita ed è difficile incontrare un’altra automobile. Quando ci fermiamo, restiamo stupefatti dal silenzio quasi irreale che regna in questo luogo. Nessun palo della luce, nessun segno umano, a parte la lunga strada chilometrica. L’unica cosa che di tanto in tanto si vede è un grosso copertone ai lati della strada. Gianluca decide che le enormi gomme servono per essere bruciate nel caso si abbia un guasto. Una sorta di segnale per far individuare la posizione.
Giungiamo in un luogo chiamato Hermannsburg, antica missione cattolica divenuta oggi una specie di casa-museo. Visitiamo il posto, ancora dolcissimo, popolato da bimbi aborigeni. Qui ha sede un coro di giovani aborigeni, di cui mi affretto a comprare il CD. Riprendiamo la strada che fende la nuda pianura desertica; il paesaggio sembra non mutare mai, il silenzio assoluto, il cielo plumbeo. Ad Hermannsburg ha piovuto un po’ e la gestrice del luogo ci ha detto che quelle gocce d’acqua rappresentavano una fortuna ed erano una preziosa rarità. Sarà pure una fortuna; fatto sta che noi abbiamo avuto solo due giorni di sole e che questo è l’agosto più freddo del trentennio.
Ogni volta che si incontra un cartello che indica il numero di chilometri che mancano a King’s Canyon è una festa: è un segno della civiltà, dà l’idea di non essere soli. Talora vediamo tratti più verdeggianti, ove cresce una macchia dai colori più vivi e persino qualche eucalipto. Ed è qui, in queste zone meno aride, che vivono bellissimi branchi di cavalli selvaggi che mai hanno conosciuto sella o speroni. E’ la seconda volta nella mia vita che vedo questi splendidi animali allo stato brado: la prima fu a Fregene, quando ero bambina, nella riserva di Maccarese di cui il papà di alcuni miei amichetti era responsabile. Avrò avuto sette anni, ma l’immagine di quei cavalli selvaggi, lontani, è ancora vivido come se fosse di oggi.
Finalmente, dopo tre ore e mezzo di deserto, la strada diviene asfaltata e subito comincia a piovere forte. Arriviamo al resort di King’s Canyon intorno alle tre del pomeriggio. Ci danno una camera spaziosa con vista sulla piana; dispone di due letti matrimoniali ed ha un’enorme finestra con terrazzino da cui vedo un dingo, per la prima volta nella mia vita. E’ un coraggioso cane selvatico che non conosce padrone ed è nato in libertà. E’ di color sabbia ed ha alte zampe, la coda fluida ed il muso affilato. Questo esemplare mi pare particolarmente magro, immagino per la vita dura che conduce. Non c’è acqua ed il cibo è scarso.
Nonostante piova decidiamo di andare a vedere il canyon, che consiste in una fenditura tra le rocce nel deserto. Ci rendiamo confusamente conto che si tratta di uno sito naturale unico al mondo, che non godiamo appieno, però, per la pioggia incessante. Ci inoltriamo nel cuore del canyon, salutando con un sorriso tutti quelli che incontriamo durante il cammino. In Australia tutti si sorridono, si salutano e quando ci si incontra si scambiano due chiacchiere. Sarà perché il paese è immenso ed anche un incontro fugace costituisce un’occasione di socializzazione, sarà perché la vita è semplice o sarà per il senso civico dei suoi abitanti, comunque è un fatto: tutti si salutano e sono cortesi verso gli altri. Non dispongo di sufficienti elementi per capire se tale cortesia sia soltanto apparente o se sia reale, comunque sia “How are you going?” è una tipica frase che ci si dice normalmente tra sconosciuti. In Australia ci sono molte famiglie con bambini e molte coppie anche anziane che si tengono per mano. I bimbi vanno a scuola in divisa (che comprende grandi cappelli) che è diversa a seconda della scuola pubblica frequentata.
Dopo King’s Canyon, facciamo un’altra piccola passeggiata in un luogo chiamato Kathleen’s Spring. In un certo punto, considerato sacro dagli aborigeni, ci accorgiamo che c’è l’eco e un’acustica eccezionale. Costringo Gianluca a cantare suo malgrado “Ay Santa Maria” antica cantiga spagnola del cinquecento. Arriviamo infine ad un piccolo stagno, altro luogo magico e assolutamente raro nel deserto, dove ci fermiamo ad ascoltare il suono della pioggia e degli uccelli.
La sera, tornati al resort, decidiamo di cenare in un grill genere “lower class”, come ha voluto specificare l’addetto alla reception, ove incontriamo la maggior quasi tutti gli ospiti del resort che lo hanno preferito al raffinato ristorante (dai prezzi “upper class” aggiungerei). Ci sediamo su una panca accanto ad una coppia di anziani australiani, che subito attaccano a chiacchierare. Hanno otto figli e undici nipoti. Lui si vanta di avere sempre vissuto nello stesso posto, una fattoria costruita nel cuore di una prateria del sud-est, se ho capito bene; è di origine scozzese mentre la moglie irlandese. Alla fine ci scambiamo gli indirizzi. La serata è allietata da una coppia di cantanti di mezza età, che eseguono canzoni country. Tutti cantano e battono le mani. La signora chiama Gianluca sul palco chiedendogli di eseguire una canzone popolare italiana, cosa che lui non riesce a fare; nondimeno tutti i presenti, in un empito di generosità, battono ugualmente le mani.
31 Agosto: King’s Canyon – Ayers Rock
Ci svegliamo di buon’ora e carichiamo l’auto. Prima di fare colazione in una bella struttura in legno, incontriamo una mamma dingo con due cucciolini, dai musetti magri e curiosi.
Dopo colazione ci dirigiamo verso King’s Canyon, dove vogliamo scalare la montagna per veder il canyon dall’alto. Saliamo rapidamente in cima e cominciamo a percorrere un’alta via su sentiero segnato. Il panorama è maestoso e il paesaggio assolutamente unico. Siamo consapevoli della rarità di un’occasione simile che gustiamo respirando a pieni polmoni. Il percorso è circolare e ad un tratto scende tra due rocce ove c’è un bellissimo laghetto, in alcuni punti di un vivido blu. Anche qui l’acustica è eccezionale: lo capisco dal trillare degli uccelli. Questa volta Gianluca si rifiuta recisamente di cantare alcunché: il suo giusto senso del ridicolo gli impedisce di esibirsi alla presenza di altri turisti. Francamente so dargli torto, ma io sono un po’ fissata e canterei in ogni situazione quando mi accorgo che c’è una buona acustica .
In alto nel cielo un falco, immobile, sospeso nell’aria.
Scendiamo poi al parcheggio da cui inizia il nostro viaggio per Ayers Rock, la montagna sacra degli aborigeni.
Partiamo all’una circa e percorriamo 300 km. di strada asfaltata. Vero le quattro del pomeriggio arriviamo ad un immensa struttura nel deserto, composta da tanti piccoli resorts e alberghi consorziati. Ayers Rock è tutta qui: un grande resort, ove c’è anche il supermercato, il campeggio, il cinema, il teatro, banca, posta, e così via. Nella bacheca degli annunci ci sono le offerte e le richieste di lavoro, i beni in vendita, etc. Il resto è deserto.
Ci sistemiamo in uno dei resort, ove ci danno una bella camera molto simile a quella di King’s Canyon. Usciamo subito per andare a conoscere “Sua Maestà la Montagna”. E’ un immenso roccione rosso dalle pareti lisce, alto e piatto alla sommità. E’ isolato nella pianura e veramente bellissimo. Gli aborigeni lo consideravano un luogo sacro e tuttora non vogliono che lo si scali. Facciamo una breve passeggiata partendo dal centro culturale sino alla base della montagna. Qui ci sediamo sulle panchine a contemplare il monte e i turisti che, nonostante gli avvertimenti degli aborigeni riportati su molti cartelli, stanno salendo con fare incerto. Gli aborigeni ritengono che la scalata sia riservata a pochi eletti e considerano un sacrilegio che si vada in cima. Ciononostante la montagna è attrezzata per la salita, in quanto vi sono conficcati numerosi paletti e una corda. Mi sembra contraddittorio: o si vieta in toto un dato comportamento o lo si consente, evitando giaculatorie. Ci fermiamo a scambiare due chiacchiere con alcuni australiani e poi torniamo a piedi al centro culturale, dove è parcheggiata la nostra vettura.
Prima di tornare al resort, ci fermiamo in un grande piazzale segnalato come “best point” di osservazione della montagna al tramonto. Il parcheggio è lunghissimo e pullulante di gente che osserva lo spettacolo. Quasi tutti scattano foto, alcuni ascoltano musica, altri scrivono. Certo è che Ayers Rock a quest’ora è fantastica, diventa di colore rosso vivo, e poi arancione, e poi rosa, e cambia ogni momento. E’ un’immagine indescrivibile. E la gente è tutta qui, ferma ad osservare il tramonto, chiacchierando e sorridendo. La migliore delle feste.
A sera, mangiamo al grill del resort che ha la particolarità di costringere il cliente a cuocere per suo conto la carne su grandi barbecue all’uopo approntati. Imitiamo incerti un giapponese che cuoce spiedini mentre la fidanzata lo fotografa; sembra tutto complicato: prima dobbiamo comprare e scegliere la carne cruda in un dato punto, poi andare a chiedere le bevande in un altro punto, poi scegliere il contorno in un terzo punto ed infine arrostire i pezzi acquistati. Oltretutto, ci troviamo in un capannone aperto ai lati.
Nonostante ci sia un musicista, perfettamente intonato, che suona magistralmente la chitarra elettrica, decidiamo di andare a letto. Fa troppo freddo per rimanere.
1 Settembre: Ayers Rock
C’è un bel sole e dobbiamo prendere l’aereo per Cairns soltanto alle quattro del pomeriggio: abbiamo perciò tutta la mattinata a disposizione. Dopo aver fatto i bagagli andiamo ad Ayers Rock, dove decidiamo di fare il giro della base della montagna, percorso lungo circa 10 km. Nel circoscrivere la roccia, ci rendiamo conto del motivo per cui gli antichi aborigeni la consideravano sacra: scende acqua dall’alto in più punti in cui si formano lenti ma costanti rigagnoli. E poiché siamo in pieno deserto australiano, la circostanza doveva sembrare divina ai primi abitanti del luogo. Lungo alcune pareti rocciose vi sono graffiti disegnati in epoca incerta. In un punto, un minuscolo e prezioso laghetto tra le rocce. Alla base del monte cresce in effetti una vegetazione piuttosto fitta per essere nel deserto.
Giunti alla fine del giro, scambiamo due chiacchiere con una preoccupata signora vicentina che guarda il marito salire sulla montagna. Viaggiano in camper e il marito ha vissuto in Australia in gioventù. Lui rimpiange molto quella che considera la sua terra e vorrebbe trasferircisi, ma lei si rifiuta perché a Vicenza hanno una figlia impiegata di farmacia e un nipotino appena nato cui badare. Mi interrogo sul reale motivo del diniego, che sospetto essere l’attaccamento alla sua Vicenza, a prescindere dal nipotino. Non vorrei abbandonarla alla sua preoccupazione ma l’aereo non aspetta, per cui ci allontaniamo lasciandola a faccia in su.
Al centro culturale, Gianluca si compra una maglietta con su scritto: “Ho scelto di camminare intorno ad Ayers Rock”. Poco dopo l’acquisto ci accorgiamo che c’è un libro, cosiddetto “dei rimorsi, composto da migliaia di lettere di persone che avevano scalato la montagna e se ne erano pentite perché erano state perseguitate dalla sfortuna. Non so se è una invenzione turistica, ma fatto sta che per chi è superstizioso come me il libro è molto efficace.
Andiamo in aeroporto dove riconsegniamo la vettura-camion. Prendiamo il volo delle cinque del pomeriggio ed arriviamo a Cairns alle otto e un quarto.
Comincia la terza parte del nostro viaggio: siamo ai tropici, a nord-est dell’Australia, il clima è caldo e umido. La regione si chiama Queensland e sulle targhe automobilistiche c’è scritto “Sunshine State”. Sarà. Ma quando ci sarà questo famoso sole? Speriamo domani.
Prendiamo uno shuttle dall’aeroporto all’albergo. L’autista è di origine livornese e ride sempre. Sul pulmino un anziano giapponese, che evidentemente ha girato tutti i paesi del mondo, ridendo ci racconta, con dovizia di particolari soprattutto culinari, i luoghi in cui ha vissuto. E noi increduli facciamo mille domande. Ci salutiamo allegramente disquisendo sugli ingredienti del “cacciucco”, argomento introdotto dall’autista.
L’albergo è carino, ma la stanza è piccola, calda e si trova al piano terra, esposta cioè al passaggio di tutti i clienti. Inoltre è popolata di minuscoli insetti. Mi innervosisco un po’ ma poi penso che è matematicamente impossibile che sia sempre tutto perfetto.
Domani sarà un’altra splendida giornata.
PARTE TERZA: I TROPICI
2 Settembre: Cape Tribulation
Gianluca va a ritirare l’auto a noleggio, una piccola volkswagen in cui le valige faticano ad entrare. Siamo costretti a tirar giù i sedili. In effetti ci siamo portati troppa roba, quasi dovessimo fare sfoggio di chissà quali ricchezze. Pochi capi sportivi ed uno elegante (per la serata all’Opera House) sarebbero stati sufficienti. Le lusinghe del consumismo mai abbandonano l’uomo del ventunesimo secolo. Vorrei essere più pura e meno attaccata agli oggetti materiali. “Marta, Marta, perché ti preoccupi di cose vane?”.
Il cielo ovviamente è coperto; ci dirigiamo verso il luogo di destinazione, Cape Tribulation, a circa 120 km. a nord di Cairns. La strada, dapprima larga e trafficata, diviene sempre più stretta, fino a raggiungere un fiume ove le auto vengono fatte salire su una chiatta mobile che le trasporta sull’altra riva. Sarebbe stato più razionale costruire un ponte, che però avrebbe avuto un maggior impatto ambientale. L’australiano ha un vero senso dell’ambiente, è conscio della bellezza della propria terra e non fa nulla più del minimo nell’intervenire sull’habitat naturale. Un senso dell’ambiente etico, non politicizzato, serio, appreso sin dall’infanzia e tramandato di generazione in generazione. Certo, sarebbe stato più semplice costruire un ponte. Ma meno bello.
Superato il fiume, dove leggiamo che albergano coccodrilli, ci inerpichiamo per una stretta strada che si snoda nella foresta pluviale tropicale. La vegetazione è fittissima, quasi inestricabile. Rimaniamo stupiti dal numero di piante di diverse specie che prosperano in questi luoghi. Ci fermiamo al Discovery Centre dove è stata costruita una passerella all’interno della giungla, con una guida in tutte le lingue. Prediligiamo quella in italiano: siamo stanchi di tutto questo inglese, che a volte non capiamo. Del resto, impregiudicata la nostra incapacità, l’inglese degli australiani sembra oggettivamente difficile da comprendere.
La passeggiata è interessante e culmina in una torre dalla quale si domina la foresta. E’ alta ventitre metri ed è costruita in legno e in ferro; ciononostante, l’impatto ambientale è minimo. Le robuste fondamenta sono in cemento armato, in grado di sopportare i cicloni tropicali. Alcune piante della foresta sono antichissime e scomparse dal resto del pianeta, una di queste ha l’età dei primi dinosauri. Tutte lottano fra loro per raggiungere la luce, una specie di battaglia naturale con selezione del vincitore. A terra ci sono felci enormi, e poi liane, e rampicanti salenti in alto per metri e metri.
Terminato il giro, facciamo una sosta a Cow Bay, luogo molto pubblicizzato nella nostra guida cartacea. Effettivamente è una splendida spiaggia color crema, molto lunga ma inferiore a quella di Emu Bay a Kangaroo Island. Facciamo una passeggiata senza azzardarci a metter piede nell’oceano. Qui nessuno fa il bagno perché il mare è popolato da squali e da meduse velenose, che hanno tentacoli lunghi sino a tre metri. Ovunque sono affissi allarmanti cartelli che avvertono l’incosciente bagnante dei terribili pericolo che corre e presso ogni spiaggia c’è una bottiglia contenente un liquido acetato, da versare immediatamente sulla parte toccata dalla medusa, prima di andare “quickly” dal medico.
Il nostro resort è situato nella Feitree Rainforest ove, come si evince dal nome, evidentemente piove sempre. La camera è molto grande, in posizione sopraelevata, su palafitte, ed è dotata di due enormi vetrate. Purtroppo il telecomando dell’aria condizionata non funziona e nonostante le nostre lamentele il personale sembra incapace di risolvere il problema. Decidiamo di spegnere manualmente l’apparecchio e di stare al caldo, sperando in una soluzione. A dire il vero, l’ambiente è un po’ spartano: mancano la televisione ed altre comodità, ma una pellegrina di Santiago come me è abituata a ben altre disagi.
La sera restiamo a cena nel resort e mangiamo un magnifico burger con patatine fritte. Viene considerato un light menu: non oso immaginare in cosa consista quello heavy.
3 Settembre: Cape Tribulation
Purtroppo il tempo è coperto ed umido e subito comincia a piovere. Dopo colazione, decidiamo di esplorare un po’ la zona in auto. Facciamo una bella passeggiata botanica su una passerella tra le mangrovie, splendide piante con radici che crescono nell’acqua: sembra un paesaggio fantasy, genere “Il Signore degli Anelli”. Ci fermiamo poi da Daintree icecream Company un luogo incantevole dove gustiamo un magnifico gelato fatto con i prodotti della giungla, infine decidiamo di fare un piccolo tour in battello sul fiume per cercare di avvistare i coccodrilli.
Il tour non ci delude, c’è una guida che parla un australiano incomprensibile, ma avvistiamo ben tre coccodrilli in punti diversi delle rive del fiume. Uno di essi è spaventosamente enorme e dorme con una terribile bocca aperta vicino ad un coccodrilletto. Veramente orribili a vedersi e oltretutto assai attivi in queste acque.
Ci fermiamo poi da Mason’s, un emporio ben fornito, ove decidiamo di fare un bagno nel famoso Mason’s hole, punto del fiume (uno dei tanti di questa zona) libero da coccodrilli, che lo evitano per le pareti molto ripide da risalire. L’acqua è freddissima ma il bagno è corroborante. Per fortuna, è uscito un po’ di sole.
La sera decidiamo di cenare in un resort vicino e consorziato con il nostro, che ha un bellissimo ristorante in legno, ideato da un buon architetto, situato su una spiaggia incantevole. Ci accolgono freddamente perché non abbiamo prenotato, nonostante sia quasi vuoto.
4 Settembre: Cape Tribulation
Ci svegliamo presto perché dobbiamo fare il check-out e recarci alle otto all’appuntamento con Nick, una guida che ci mostrerà i segreti della foresta pluviale. Abbiamo prenotato ieri tramite la gross pharmacy vicino al resort.
Siamo in cinque, veniamo caricati su un pulmino e portati in un punto interno della foresta. Camminiamo per la foresta percorrendo sentieri creati dagli animali o risalendo il torrente. Nick conosce ogni pianta, ogni radice, ogni più piccola orma; ci mostra il seme del mogano, ci fa assaggiare le bacche commestibili e odorare i fiori e le piante che individua. Ci spiega come si calcolano gli anni delle palme e ci descrive la superficie dei funghi. E’ veramente bravissimo e deve essere di origini aborigene. La scalata è a tratti difficile e necessita dell’aiuto di una corda, ma lui cammina agevolmente, indossando sandali di gomma. Penso ad alcuni romani che conosco, che vanno in montagna vestiti di tutto punto, guardando con occhi critici chi indossa abiti a loro giudizio incongrui, ma che si rivelano poi delle vere schiappe nelle salite. Trovo che in generale l’italiano medio sia esageratamente attento all’abbigliamento: è molto comune nel nostro paese osservare sciatori o camminatori incerti, ma vestiti di tutto punto. Sono cresciuta con un eccessivo senso del ridicolo, inculcatomi da mia nonna, e trovo grottesco (oltre che stupidamente antieconomico) indossare abiti tecnici assai costosi senza poi essere poi in grado di affrontare decentemente la prova. E invece a Montalcino, un paese toscano in provincia di Siena, c’è un anziano signore di oltre ottant’anni, che, vestito in maniera del tutto incongrua, è in grado di affrontare con la sua vecchia bici da corsa la inaccessibile salita dell’Osticcio! (Non posso descrivere la pendenza: solo chi è della zona può capire).
Giunti vicino al fiume, ci fermiamo in un punto della foresta per riposare: qui la nostra guida prepara un tè, scaldandolo con un fornellino a gas che si è portato nello zaino. Gustiamo anche del buon pane con miele e dolcissimi frutti rotondi a forma di ciliegia. Nick ci mostra alcuni sassi friabili che colorano di arancione e mi fa dei piccoli disegni arancioni sul viso: gli altri mi scattano subito una foto.
Nello scendere, incontriamo una sorgente. Sin da bambina mi sono sempre chiesta come fosse una sorgente, per quale magia da un dato punto della roccia potesse zampillare dell’acqua. Eppure è così: non ne avevo mai visto una e ora ho capito com’è, piccole gocce che scendono in un rivolo. Dal nulla. Sono consapevole che può sembrare un’ovvietà ma a me sembra incredibile. Miracoloso.
Alla fine del giro, la nostra guida ci porta ad una fattoria di sua proprietà, dove c’è una nonna e una piccola bambinetta bionda che lo adora. E’ sua figlia, naturalmente. La bimba mi scruta fissamente e non capisco perché. Poi mi ricordo dei disegni arancioni sul viso.
Prima di andare via, Nick ci invita a fare un bagno nel fiume che scorre nella sua farm, invito che subito accettiamo. L’acqua è freddissima ma pulitissima. Bagnati e felici, torniamo tutti indietro.
Per fortuna è uscito il sole, perciò Gianluca ed io decidiamo di sostare un po’ in spiaggia prima di lasciare Cape Tribulation. Abbiamo trovato il sole raramente durante questa vacanza, ma quando esce picchia selvaggiamente. Sembra più forte di quello delle Maldive ed è impossibile resistere nelle ore calde, specie senza protezione.
Alle quattro del pomeriggio ripartiamo diretti verso Port Douglas, ridente cittadina distante circa settanta km. a sud di Cape Tribulation.
Ci sistemiamo in un appartamento il cui terrazzino dà sul corso principale della città a pochi metri dalla spiaggia. L’abitazione è veramente carina, composta da un soggiorno con cucina e una camera da letto, più terrazzino e bagno. E’ moderna e arredata con gusto. Nel complesso residenziale c’è anche una piccola piscina e una vasca idromassaggio.
Faccio subito un giretto del centro, pieno di locali e negozi alla moda. Port Douglas è una città elegante, adagiata su un promontorio. La gente è ben vestita e l’ambiente di classe.
Tiro fuori dalla valigia un vestito buono ed esco a cena con Gianluca. Ceniamo in un ristorante molto in voga la cui cucina aspira ad essere raffinata ma in realtà non eccelle. Scambiamo due parole con una cameriera romagnola, felicissima di essere in Australia. Avrà venticinque anni e dice di essere contenta perché guadagna molto, lavora poco e riesce anche a mettere da parte un po’ di soldi. Del resto, rifletto, Nick chiede 55 dollari a tour ed ha una media di quattro – sei persone a giro. Non so quanti giri faccia al giorno: quello che è certo è che guadagna molto più di me e si stressa molto meno.
5 Settembre: Port Douglas
Fuori c’è un bel sole e perciò decidiamo di andare subito al mare. La spiaggia di Port Douglas è bellissima e lunghissima. Inoltre, cosa incredibile, ci si può fare il bagno. Non mi sembra vero. Ci ricopriamo di crema e decidiamo di fare una corsa sulla spiaggia. Magnifica corsa chilometrica su un litorale che sembra non finire mai. Al ritorno, un bel bagno e un po’ di riposo al sole, debitamente protetti con la crema.
Verso l’una decido di andare da sola a vedere i negozi, anche per evitare scottature. Li batto uno ad uno e mi provo qualsiasi cosa; purtroppo quelli che mi piacciono sono troppo cari per le mie tasche e mi sembra che tutto mi sta male.
La sera facciamo una passeggiata sul promontorio e poi andiamo a cena in un ristorante che ci dà bistecca e patatine fritte per quattordici dollari. Fantastico!
6 Settembre: Port Douglas–Cairns-Green Island
Ci siamo svegliati con calma; Gianluca ha preparato una bellissima colazione a base di fragole, biscotti e succo di frutta, che gustiamo sul terrazzino.
Il tempo è coperto e perciò non ci dispiace troppo lasciare questa magnifica cittadina.
Arriviamo a Cairns, dove lasciamo le valige all’hotel che ci accoglierà l’ultima notte e andiamo all’imbarco del traghetto per Green Island, distante 27 km. da Cairns, portando con noi un’unica piccola valigia per tutti e due. Gianluca ha già riconsegnato l’auto ed è rilassato.
Spunta un po’ di sole mentre aspettiamo l’aliscafo e arriviamo all’atollo con il bel tempo. Il viaggio è stato faticoso, perché il mare era molto agitato e la barca era piena di giapponesi che urlavano ad ogni onda. Nell’isola c’è un lussuoso resort, dotato di ogni comodità. Purtroppo è aperto al pubblico e per questa ragione di giorno pullula di turisti vocianti. L’umidità è opprimente e l’aria condizionata talmente forte che i vetri si appannano. La camera è bellissima, ha due letti matrimoniali e un piccolo salottino. Andiamo subito in spiaggia, ove restiamo fino al tramonto. Per la prima volta vediamo il sole calare sul mare in quanto ci troviamo, finalmente, ad est rispetto alla costa. A quest’ora, ci viene offerto champagne e patatine cosa che ci fa sentire due re. Se penso alla vita che faccio a Roma, mi sembra di vivere un sogno. So che pagherò tutto, ma per ora assaporo questo momento, mentre Gianluca si stiracchia al sole.
Tornati in camera ci accorgiamo, con costernazione, che non funziona l’acqua calda. Perciò ci laviamo tremando e andiamo alla reception a lamentarci. Ci assicurano che sarebbero intervenuti il giorno dopo. Cosa che non succederà.
Ceniamo al ristorante del resort, unico locale aperto a quest’ora, che, in regime di assoluto monopolio, pratica prezzi esosi e fornisce porzioni risicate. Il cibo però è buono, per fortuna.
7 Settembre: Green Island
Il tempo è coperto e purtroppo lo sarà tutto il giorno. Andiamo a fare una visita del reef su una barca dal fondo di vetro, da cui vediamo pesci dalle mille forme e colori.
La barriera corallina in Australia è la più lunga del mondo, ma non la più bella, a mio modesto avviso, dato che giudico superiore quella delle Maldive e quella delle Seychelles. Visto il tempo coperto, mi accomodo sul lettino e mi metto a leggere e a studiare sulla spiaggia.
Nonostante il brutto tempo, il resort è invaso da turisti urlanti che mi infastidiscono non poco. Mescolandomi alla folla, giro per qualche negozietto, ove compro alcuni ciondoli di conchiglie per le mie amiche. Ancora non so che avrò un successone e che le vedrò spesso con i miei regali al collo! Nel pomeriggio comincia a piovere, perciò decido di andare in camera a studiare mentre mio marito si reca sul pontile per osservare un tizio del resort che dà da mangiare ai pesci. Al tramonto esce un po’ di solicino che mi fa precipitare sulla spiaggia dove Gianluca sta già bevendo champagne; i turisti se ne sono già andati con l’ultimo traghetto e questo, perciò, è un momento davvero magico. Scruto il sole, sdraiata sul lettino, mentre tramonta dietro una massa di nuvole.
Non riesco mai a vedere il raggio verde.
8 Settembre: Green Island–Cairns
Ultima giornata di vacanza: piove a dirotto quasi a voler sottolineare la nostra mestizia. Faccio le valigie e mi vesto, lasciandomi ottimisticamente indosso il costume. Lo scaldabagno non è stato riparato né la direzione ha ritenuto di spostarci in un’altra camera. Lo facciamo presente per iscritto.
Ciondoliamo un po’ per il resort, poi andiamo in spiaggia, visto che ha smesso di piovere. Gianluca fa il bagno mentre io studio e leggo Agata Christie in inglese.
La valigia è imbarcata sul traghetto a cura del personale del resort. A mezzogiorno e mezzo, come per miracolo, esce il sole ed io mi rendo conto di aver lasciato tutte le creme in valigia. Me ne frego e mi metto al sole, tanto alle due ce ne dobbiamo andare e non so se mai tornerò in spiaggia prima dell’inverno. Decido anche di fare un po’ di snorkeling, nonostante l’acqua fredda. Il sole è potentissimo e, naturalmente, è sufficiente un’ora per bruciarmi; ma non importa: il bagno è bellissimo e chissà quando mai mi ricapiterà.
Il viaggio di ritorno in aliscafo è tranquillo perché il mare è calmo. All’hotel ci danno una camera molto più spaziosa di quella precedente; inoltre è situata in un cortiletto interno ed è lontana dal passeggio dei clienti.
E’ finita: ultimo giro di negozi al mercato notturno di Cairns e ultima cenetta.
Chissà se e quando torneremo. Arrivederci, Australia, sei meravigliosa! Non ti dimenticheremo mai.
Il Viaggio Fai da Te – Autonoleggio Low Cost in Australia |
Ciao per la patente vi hanno accettato quella italiana?
Puoi trovare informazioni dettagliate sulle regole per guidare in Australia con la patente italiana in questa pagina web a cura del Consolato Generale d’Italia a Melbourne:
http://www.consmelbourne.esteri.it/consolato_melbourne/it/per-i-cittadini/newsletter.html