di Fernando Petrone –
(Estratto da un personale diario di viaggio)
Arido e brullo, l’allucinante pianoro di un monotono monocromatismo a momenti anche avvilente, toccava laggiù in fondo la linea dell’orizzonte, oltrepassata la quale esso si perdeva a vista d’occhio scomparendo così, in silenzio… forse ansioso di andare a mescolarsi una volta e per sempre con l’eternità. In quella eternità che, colà, avverti incombente e che ti avvolge come personale sudario. Un allucinante pianoro, quello, che non è altro che un assurdo deserto. Un deserto che è lì da sempre, smisurato, addirittura infinito come uno, due, tre… tanti… oceani messi insieme e tutti dallo strano colore di quella sua terra che è curiosamente simile a quel rosso che assumono gli italici pavimenti di antichi e usurati cotti.
Un deserto che, come mitico drago dagli occhi di rossa ed urente ‘bragia’ tanto per dirla con il Poeta, pare inviare le sue smisurate lingue di fuoco, tutte di uguale tonalità, al sovrastante cielo il quale se ne resta lì, attonito ma che, per contro, appare di un assai dolce azzurro-cristallo, fatto di dolcissime sfumature, quale solo in quella lontana porzione centro-settentrionale dell’Australia puoi con tanto rapimento ogni volta ammirare. E lo fai con una meraviglia che sconcerta ma che resta sempre uguale a se stessa. E questo perché ogni volta essa si presenta immutata rispetto alla volta precedente…
E del resto questo affascinante quadro è così da sempre, sin dalle remote origini del mondo.
La superficie così monocromaticamente rossa di quel deserto appare qua e là cosparsa di tanti rilievi orografici, tutti di assai modesta elevazione ma che, per contro, sono inaspettatamente ricchi dentro il loro grembo, che ti si rivela poi essere altrettanto insospettatamente ampio, di grotte preistoriche le quali offrono alla visione del visitatore mirabolanti e policromi graffiti rupestri. E quei graffiti, dai colori ancora vividi, si mantengono ancora oggi in uno stato di conservazione veramente ottimo, direi quasi perfetto, malgrado il lunghissimo e trascorso arco temporale di venti o trenta misteriosi secoli i quali non solo non hanno lasciato traccia alcuna, oltre quelle, nella storia della Grande Isola, ma neanche in quella storia che noi conosciamo e che diciamo esser ‘nostra’.
Del resto qui, in questa sconfinata distesa di terra rossa, puoi ‘vedere’ solo silenzio. Lo ‘vedi’ ancor prima di percepirlo con il senso dell’udito perché qui, in questa remota area di antichissima genesi, esso ne è il sovrano incontrastato il quale, nella ‘sua’ indiscussa e profonda ‘maestà’, tutto avvolge e tutto al suo esclusivo volere soggioga.
A gennaio, caldissimo e afoso, solitamente non s’alza colà la benché minima bava di vento; l’aria ristagna e le poche fronde inaridite restano staticamente immobili, dando così l’impressione di voler aumentare l’intensità di quel silenzio che è già di per se stessa molto alta. E quando poi, dopo averlo ‘visto’, giungi anche a ‘percepirlo’, avverti come uno stordimento strano perché solo allora ti rendi conto di trovarti in un altro mondo, in un mondo che non è il tuo; in un mondo dove ogni punto di riferimento non solo non ha l’uguale, ma neanche il similare in quello ‘tuo’, ovvero in quello di tutti i giorni, in quello dove tu, uomo europeo, hai da sempre vissuto e che dove, tutt’ora, continui a vivere. Qui invece, ai lontanissimi e misteriosi antipodi delle tue terre, sei in un mondo dove il silenzio ‘ha’ un suo suono ed ‘ha’, del pari, anche una sua musica….
Ed ecco allora che l’eucaliptus, il vero e indiscusso ‘Albero-Re’ della locale flora, lo vedi qui di un colore che varia dal bianco-avorio al bianco-cenere, per cui, rispetto al ‘tuo’ familiare eucaliptus, ovvero quello che da te si è acclimatato diventando ‘mediterraneo’, esso ti appare molto più elegante, direi addirittura più puro.
Ed ancora: sfreccia rapido, e non solo in questa smisurata distesa rossa ma anche in altre aree della Grande Isola, il canguro. Strano animale il cui correre a balzi e a due sole zampe mantenendo il tronco semi-eretto non fa altro che sconvolgere in te ogni certezza, fino ad allora considerata indiscutibile, nelle leggi fisiche che regolano l’equilibrio di un corpo vivente in rapido movimento.
E poi a quella rispettabile velocità fatta di salti prodigiosi e di impensabili spinte poderose del corpo in avanti, si contrappone la estenuante lentezza dei tanti braditipi, alcuni brutti ed orripilanti come quello che si è giustamente meritato il nome di ‘Diavolo d’Australia’ tutto nero e con gli occhi di fuoco, altri estremamente miti ed eleganti come il dolcissimo koala, vero e proprio ‘peluche’ vivente, che sembra guardarti con i suoi grandi e trasognati occhi, come a chiederti un po’ di affetto, finendo addirittura per commuoverti.
Mondo strano fatto di profondi ed altrettanto strani contrasti….
Qui, nelle aree del nord-ovest, del centro e della parte più occidentale del nord-est della Grande Isola, in quella sua lunga estate che si estende per ben dieci mesi all’anno non vedi un corso d’acqua se non qualche insignificante greto in feroce secca: pur tuttavia gli eucaliptus, quelli dal bianco-avorio e quelli dal bianco-cenere, raccolti in grandissime colonie fatte di numerosi elementi crescono rigogliosi. Qui ai margini del vasto deserto essi svettano altissimi. Sono assai ricchi di fogliame e riescono a demolire ogni tua conoscenza biologica, che credevi consolidata e quindi immodificabile, circa il metabolismo idrico che è proprio di ogni tipo di vegetazione sia essa caduca che permanente.
Nella parte più brulla del deserto, quella centrale laddove è piena assenza di quegli eucaliptus che visti da lontano sembrano formare originali muraglie vegetali, il sole con feroce sadismo rende uguale a se stessa ogni ora del giorno per cui dal sommo di quei rilievi orografici, per altro assai modesti e sui quali sei salito in assoluta solitudine, non sai dire se è mattina o giorno o meriggio. E questo perché la scarsità di ombre su quell’avvampato suolo non ti offre riferimento alcuno, quei riferimenti cioè che il tuo sub-conscio nel ‘tuo’ abituale mondo elabora in piena autonomia e ti porta ad assumere, con la più estrema sicurezza, automatiche conclusioni. Se poi ti isoli su uno qualsiasi quei modesti rilievi, astraendoti così da tutto ciò che ti circonda e con decisione licenziando da te ogni preoccupazione ed ogni altra idea e giungendo a fare ‘corpo’ unico con quell’incombente e sovrano silenzio, di null’altro ti accorgerai se non di tramonto e di alba.
Ti accorgi di tramonto perché il cielo, sino ad allora apparentemente inerte e senza vita, ad un certo momento – e non sai mai quando – si infiamma d’un colpo solo e senza alcun preavviso, inviando improvvisi bagliori dall’ovest all’est. Un ovest ed un est che fino ad allora non avevano, e né te li mostravano, punti di particolari differenze che fossero in grado di metterti nella condizione di poterli individuare con una certa sicurezza, proprio per l’assenza assoluta di ombre perché nulla colà esiste e che possa fare ombra. E quelle eteree fiamme, dopo aver percorso superbe in ogni direzione tutta l’ampia volta celeste, ora non più caratterizzata dal delicato aspetto azzurro-cristallo, rapidamente si spengono e fanno sì che possa scendere sull’infinito pianoro una fitta coltre, senza orli né altri limiti, che tutto va a ricoprire e che vira gradualmente dal blu-fondo fino al nero-notte.
Ti accorgi di alba perché d’improvviso, e senza alcuna manifestazione che possa preavvisarti, le fiamme solari scostano bruscamente la coltre blu-notte e riaccendono, in una maniera rimasta sempre immutata fin dalla remotissima genesi, l’ampia volta, dando così nuova linfa al cielo di tutti i giorni e risvegliando quella strana parvenza vita su tutta l’arida e infinita distesa di terra rossastra. Terra che dal punto di vista geologico è una delle più antiche del nostro pianeta, coeva solo di quella profonda ed orrida ruga della crosta terrestre che si chiama Gran Canyon.
Poi, passati tramonto ed alba, tutto ritorna eternamente statico, senza punto di riferimento alcuno….. E’ così da sempre, ovvero da quando i Sacri Padri-Spiriti degli Aborigeni dettero il ‘via’ alla vita nella Grande Isola. In quell’Isola nascosta ‘nel’ tempo e ‘dal’ tempo….. in quell’Isola che fu l’incontrastato e spensierato centro del mondo per quelle sue felici tribù fino a che….
…..fino a che l’Uomo Bianco colà non giunse a bordo di grandi vascelli con ampie vele dispiegate e con orgogliosi vessilli di sconosciute Maestà inalberate sugli alti pennoni, provenendo da molto lontano, d’oltre gli sconfinati mari che circondano le terre emerse, per sostituirsi con prepotenza all’Aborigeno stesso e dando alla Grande Isola un nuovo nome, quello di Australia. In tal modo l’Uomo Bianco, senza rispetto per alcuno, volle con tracotanza trasferire d’autorità lo spensierato ‘centro del mondo’ di quell’isola, rimasta fino ad allora felice, in altri continenti da lì assai più distanti e la cui storia nulla ha mai avuto a che fare con quella, rimasta ancora oggi misteriosa, delle originarie popolazioni della Grande Terra Australe.
E fu così che il nuovo abitatore, ricco e spesso anche tracotante, si dette a costruire case e grattacieli, strade e piazze, paesi e città, ponti e viadotti. Volle distendere, con ancor maggiore tracotanza, assurdi fili spinati. Elevò, prepotente, recinti strettamente vigilati e orride muraglie. Importò, dissennato, il cane, il gatto e tanti altri strani animali stravolgendo così il consolidato millenario equilibrio della fauna primigenia. Sfruttò, ingordo, le terre, ma lo fece con molto egoismo perché ebbe ad interessarsi solo di quelle feraci. Imbrigliò, avido, le acque che erano sempre state di tutti, rendendole così per la gran parte solamente ‘sue’. E poi, onnipossente, emanò e impose leggi a suo esclusivo tornaconto e promulgò editti a volte feroci. Come se non bastasse ancora, organizzò polizie, costituì tribunali, edificò tristi penitenziari ed infine eresse a triste corollario ed in gran copia dolorosi patiboli.
Malgrado tutto l’Aborigeno continuò, – e lo continua tutt’ora – a ‘vivere’ da vero re ‘il’ e ‘nel’ suo deserto rosso, rimanendo profondamente immerso in quell’immanente Re-Silenzio che aveva sbigottito te fin dal primo impatto. E in definitiva è proprio per quel ‘tuo’ sbigottimento, che rende te inerte e che ti annichilisce profondamente, che l’Aborigeno si sente sempre, nei tuoi confronti, il ‘sovrano’ assoluto ed incontrastato di quella ‘sua’ Terra Rossa smisurata e senza confini.
Da sempre…..
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