di Marco Brando –
Quel Salento di pietre e binari lungo l’antica via del tabacco
Se non fosse che siamo certi d’essere in Puglia, nella punta estrema del Salento, potremmo anche sospettare d’essere in Gallia: quella fumettistica in cui «vissero» Asterix e Obelix, creati nel 1959 da Goscinny eUderzo. Perché anche qui, sebbene pochi ci facciano caso, ci sono molti menhir. Sono monumenti preistorici risalenti all’età del bronzo (III-I millennio a.C.), costituiti da una grande pietra di forma allungata e piantata in terra. Che c’entra Obelix? C’entra.
Il corpulento Gallo è un intagliatore e portatore di menhir; dato che il menhir della Croce (nell’agro di Arigliano) non c’è più, e non ne resta che il basamento, sospettiamo che Obelix sia passato di qui. «È stato urtato a suo tempo da un veicolo ed è caduto», ci rassicurano. Ora è in un deposito comunale. In compenso lì vicino ce n’è un altro, quello dello Spirito Santo, altro due metri. E ce ne sono altri 44 solo nel resto dell’entroterra salentino.
Il fatto è che il cuore della Puglia nasconde, con pudore, molti tesori. Basta dirigersi verso l’interno. E la storia della regione – quella dei suoi genitori e progenitori, ma anche la storia del loro lavoro – riemerge. Lontano dai riti dell’estate balneare. Lontano dal mare. Senza offesa per l’Adriatico e lo Ionio, il nostro viaggio «dentro» la Puglia – dopo quello dell’anno scorso lungo gli 850 chilometri di costa – comincia da Gagliano del Capo, alla fine del Salento, dieci minuti d’auto da Santa Maria di Leuca. Il viaggio proseguirà, attraverso le Murge e il Subappennino dauno, fino al cocuzzolo del Gargano.
Così ecco Gagliano, sulla Serra dei Cianci; Arigliano ne è una frazione. Se non si cerca uno spiraglio tra le case bianche, e qualche condominio non proprio in armonia, è difficile intravedere il mare, per quanto sia vicino. Lì in mezzo, nel punto più alto del paese, c’era quella che la gente chiamava «la Fabbrica». Con la «F» maiuscola: dagli anni Venti a metà degli anni ’70 ha offerto lavoro,merce rara quaggiù. Le foto color seppia offrono ancora la vista di un bambinaia con i figli delle tabacchine, intente a conciare il tabacco. E poi le donne al lavoro, davanti a piccoli banchi.
Quelle foto nella «Fabbrica» ci sono ancora, esposte con orgoglio lungo la hall, assieme a quelle di Andrea Morgante, un bravissimo fotografo che sta salvando il passato a colpi di immagini. Infatti il vecchio tabacchificio è rinato, ristrutturato dal gruppo Italgest di Casarano e gestito da Mario Coscia , barese «fuggito» quaggiù, con la socia Paola Pellegrino. È diventato il Capoalto Hotel, inaugurato da meno di un mese, dopo due anni di lavori firmati dall’architetto Francesco Spada, tra i maestri del design mediterraneo. Uno dei primi interventi italiani di recupero d’archeologia industriale per fini turistici, il primo in Puglia e forse nel Sud.
Un modo per recuperare la storia locale, senza costruire nuovi casermoni. Così qui la vita delle operaie del Salento – raccontata nel bel libro Tabacco e tabacchine nella memoria storica, a cura di Vincenzo Santoro e Sergio Torsello (Manni, 2003) – si coniuga con «un nuovo modo di fare turismo, lontano dal caos e vicino alle tradizioni locali», dice Coscia. Perché il vituperato (oggi) tabacco è stato (in passato) una delle poche risorse certe di questa terra. Le stesse stazioni delle Ferrovie Sud Est (quasi dimenticate, potrebbero diventare una vera risorsa turistica) seguivano più le tappe dei raccolti che i centri abitati. Le tabacchine, quaggiù, erano l’equivalente delle mondine della Padania, con le quali condivisero proteste e repressione (nel maggio 1935 a Tricase perirono in cinque). Altri tempi. Oggi da Gagliano il «turista- non-solo-mare» può inoltrarsi attraverso le serre, piccole alture, sorelle minori delle Murge tarantine e baresi. Qui, tra rocce e macchia mediterranea, è difficile coltivare; ma nel Medioevo furono il rifugio della popolazione costiera, in fuga dai pirati, saraceni e non solo. Ad esempio, gli abitanti della non lontana Casarano si salvarono sulla Serra Campana: in memoria, vi costruirono la Chiesa della Madonna «della Campana». Sull’«alta» serra di Alliste nell’antichità i fuochi accesi servivano come faro naturale per i naviganti. E un’ottantina di anni fa fu avviato il progetto di Cardigliano, sulla serra di Specchia; un paese concepito tra 1920 e 1930 per colonizzare la terra, come usava allora (si pensi a Sabaudia e Latina). Fu voluto dal possidente Giovanni Greco. Realizzò un villaggio- azienda per la lavorazione del tabacco: cento abitanti stanziali, seicento durante il lavoro; scuole, negozi, frantoio, una chiesa (la facciata ricorda la Basilica veneziana di San Marco, in miniatura). Abbandonato nel Dopoguerra per decenni, anche Borgo Cardigliano è diventato da poco un originale villaggio turistico, «città del sole e del vento».
Le strade, sulle serre, s’insinuano tra vallette, boschi di ulivi, paesi che in estate il sole sembra prosciugare, facendo «sparire» le persone. Qui si possono fare altre scoperte inattese, quasi magiche: come la Centopietre, «nascosta» a Patù. Una costruzione rettangolare, massiccia, costruita nel IX secolo dopo Cristo con cento blocchi di tufo, sottratti alle rovine dell’antica città messapica di Vereto. E’ di fronte alla piccola chiesa romanica di San Giovanni Battista. Cos’é? Un monumento funebre, costruito probabilmente per accogliere le spoglie del barone Geminiano. Si narra che egli, giunto via mare a Gallipoli con l’esercito cristiano del re di Francia Carlo il Calvo, era andato a trattare con i saraceni che minacciavano Vereto. Fu ucciso, scatenando così la battaglia del 24 giugno 877. I francesi vinsero; recuperato il corpo di Geminiano, lo sepellirono nella Centopietre, realizzata per accoglierlo. Tra il XIII e il XIV secolo fu trasformata in luogo di culto cristiano con affreschi in stile bizantino. Oggi nella Centopietre si può entrare indisturbati. Non c’è alcun controllo. E degli affreschi non restano che labili tracce, tanto che ci si chiede se sia (o sia mai stato) possibile salvarli. In attesa di saperlo, ci avviamo verso Lecce, per raggiungere – superata la più nota Maglie – l’altopiano dei nove comuni della Grecìa salentina. Qui – oltre a dolmen e menhir – conservano pure la lingua, la cultura e le tradizioni dei loro antenati greci.
Buongiorno, anzi Calimera Qui si parla ancora il griko
«Stia tranquilla… Scherzava», abbiamo dovuto dire alla signora, barricata dietro al banco. Non c’è stato il tempo d’approdare – assetati, durante un torrido pomeriggio – in un bar di Calimera, che s’è subito dovuta mettere una pezza: all’intraprendenza milanese. Motivo? Occorre fare una premessa… Questo è uno dei nove comuni della Grecìa salentina, tra Maglie e Lecce. Vi è ancora diffuso un idioma (guai a chiamarlo dialetto) con robuste radici elleniche. Calimera, come rivela il nome («Buongiorno », nella lingua di Atene), ne è un po’ il cuore. Anche se qui di turisti se ne vedono pochi; perché, come al solito, solo rari pionieri decidono di avventurarsi all’interno, lasciando i lidi di Torre dell’Orso od Otranto.
Tra quei pochi, ecco un gruppetto di milanesi, tra cui spiccava una tipa di nome Sara, la traumatizzatrice di bariste calimeresi. Un’attenuante? È vero che nella vicina Corigliano d’Otranto, sempre in Grecìa, c’è persino una fonte d’acqua minerale che si chiama «Eureka» (cioè «ho trovato», prima persona singolare del perfetto di «heurískein »): magari può dare alla testa.
Comunque, ecco Sara vantare pubblicamente gli «antichi» studi al Liceo classico «Berchet» del capoluogo lombardo: nel tentativo di sfoggiare le memorie del suo greco scolastico e di conversare – a colpi di aoristi – con la signora in questione. Tentativo vano, almeno quanto quello in cui potrebbe cimentarsi un greco dei nostri giorni in vena di parlare latino a Roma.
Rassicurata la signora, tramortita dall’aoristo/ milanese, eccoci a vagare in questa zona del Salento. Proprio la barista, per riconoscenza, ci ha indicato in quale angolo dei giardini pubblici è «nascosta» una stele funeraria di marmo attico, risalente al IV secolo aC e donata nel 1960 da Atene, come simbolo dell’origine comune. Tanto è vero che sul frontone dell’edicola c’è un’iscrizione in greco, tradotta in italiano, che rassicura pure la stele: «Straniera tu non sei qui a Calimera». Un tempo si parlava greco in venticinque paesi, oggi sono nove: oltre Calimera e Corigliano, Castrignano dei Greci, Martano, Martignano, Melpignano, Soleto, Sternatia e Zollino. Nella Grecìa una parte della popolazione riesce ancora a esprimersi in griko, lingua assai simile a quella parlata oggi in Grecia e, pare, normale evoluzione di quella usata queste zone all’epoca della Magna Grecia. Poi il flusso di nuove genti greche e greco-sicule – tra il VII ed il IX secolo, a causa soprattutto delle invasioni arabe – fu favorito dall’esistenza di lingua e costumi ellenici nel Salento. Tanto che il rito religioso greco s’è mantenuto fino al XVII secolo.
Comunque non tutti i milanesi, quaggiù, vengono per traumatizzare. Ai margini della Grecìa, a Borgagne, abbiamo scoperto – oltre all’isola grecofona – anche un atollo «meneghinofono». È la masseria «Bosco di Makyva», un vero hotel di campagna più che un agriturismo. La gente del posto lo conosce come Bosco Coppola, dal nome dei vecchi proprietari. E infatti quando alla persone si chiedono informazioni dicendo «Makyva», ti guardano, anche loro, tra il perplesso e il preoccupato. Il bosco c’è davvero, un po’ surreale, tra gli ulivi. Al centro, uno strano edificio ottocentesco, una via di mezzo tra la classica masseria salentina e uno chalet tirolese (fu voluto nell’Ottocento da un Coppola, diplomatico in Germania, innamorato di una tedesca). Accanto piscina, camere e suite.
Al timone, appunto, un milanese. E che milanese: è proprio lui, Michele Girani, classe 1941, qui con la sua collaboratrice Luisa Airoldi. Un’istituzione, in senso ludico. Girani è stato un inventore-creatore di ristoranti e ritrovi alternativi nella Milano degli anni Sessanta e dopo. Partì col mitico Tencitt, primo di una serie di locali belli e informali frequentati da giovani ma anche dal fior fiore della politica e dell’intellettualità cittadina: dai Craxi ai Montale, per intenderci; per poi passare pure ai sessantottini, «molti dei quali – conferma lui – oggi ai vertici delle istituzioni e dei giornali». Anni fa, a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, Girani capitò ad Otranto in una appartamento in affitto, accanto alla casa di Carmelo Bene: «Allora ci andavano pittori, artisti, bella gente di tutta italia. Mi piacque molto».
Cosicché dopo qualche anno – facendo il pendolare con Milano – ha rimesso le radici qui, inventandosi il «Bosco di Makyva» (nome coniato da Luisa, mescolando i nomi di Michele e di sua sorella). Lui è un appassionato di golf e spera di portare quaggiù molti golfisti, oltre ai normali turisti, grazie al vicino Acaya Golf Club. E dice: «Per gli amanti del golf, è garantita l’attività tutto l’anno. Certo, siamo aperti dal 2004 e, così come stanno le cose, si lavora appena due mesi in estate. Ma se solo i voli per la Puglia fossero più economici, come quelli che portano, ad esempio, da Milano a a Sharm o in Tunisia ». «Possibile – si chiede – che non ci si dia da fare, quaggiù, per raggiungere questo obiettivo? La Puglia potrebbe diventare come la Toscana. È bellissima, sul mare e anche all’interno. Se potessi, lo direi direttamente al nuovo governatore, Vendola. Incoraggiate i voli charter dal Nord, Italia ed Europa. Non ve ne pentirete ». E accanto a lui, annuisce Franco Testa, ospite del Bosco: un altro mito milanese, padre della Magolfa sui Navigli, ospite del Bosco. Se lo dicono loro, che se ne intendono, c’è da crederci. Beh, tanti saluti e via, verso la prossima tappa: Manduria. Prima, nell’arco di pochi chilometri, ci sono il paese natale di Carmelo Bene (Campi Salentina), quello dove visse da ragazzino Domenico Modugno (San Pietro Vernotico) e quello dove è nato e regna Al Bano Carrisi (Cellino San Marco). Poi Copertino, il paese, appunto, del francescano San Giuseppe, «santo dei voli»: patrono di aviatori, viaggiatori, studenti e anche, udite udite…, di Cupertino, cittadina californiana della Sylicon Valley, sede della Apple. Fu Padre Pedro Font a dare alla baia cui guarda Cupertino il nome di Arroya St. Joseph de Copertino, perché quel giorno, 23 marzo 1776, cadeva la ricorrenza del santo. Nel 1963 il municipio della cittadina Usa scrisse al lontano fratello salentino,rivolgendo «an invitation to become a sister-city», «un invito a diventare una città gemella». Così è stato.
Un giro di boa a Leverano – il cui vino Primitivo, prodotto dalla Cantina sociale (0832/925053) nel 2002 meritò sul Corriere della Sera le lodi di Luigi Veronelli: «M’incanta. Sì, m’incanta!» – ed eccoci a Manduria, su un gradino della Murgia tarantina. Promette, in teoria, bene: tra l’altro, al Primitivo offre il proprio nome, tanto da avergli dedicato un museo.
I Messapi chiusi al pubblico ma i turisti si rifanno a Oria
«Ah, cerca quelli che producono pure vino? », ci dice l’addetto d’un distributore di benzina, nel centro di Manduria, sotto un sole spaccapietre. È una di quelle risposte che lascia un po’ storditi, soprattutto se un istante prima s’era chiesto: «Gentilmente, mi sa dire dov’è il Fonte pliniano?». Come chiedere, invano, aRoma dove sia la Fontana di Trevi. Per la cronaca, il Fonte pliniano è una grotta naturale, poi ampliata: scesi quaranta gradini, s’arriva in un spiazzo sotterraneo di diciotto metri di diametro e sette d’altezza; al centro sgorga acqua freschissima, con un flusso costante e ininterrotto che dura almeno da duemila anni. Da quando lo storico e naturalista romano Plinio il Vecchio (Como, 23-24 – Pompei, 79) la descrisse nella sua Naturalis Historia col nome di «lacus» (Nat. Hist. 111, 6).
Detto questo, all’inizio dell’avventura prendiamo la risposta del benzinaio come un aspetto pittoresco del nostro tour, dedicandoci poi alla ricerca della meta con l’aiuto di eventuali cartelli e lo spirito di Indiana Jones. Peccato che i cartelli siano rari; per giunta, quando s’arriva esausti davanti al parco archeologico, con Fonte annesso, si trova tutto chiuso, senza neppure un avviso che giustifichi qualcosa. «Sono parecchi mesi che è chiuso», c’informa una signora, seduta con tutta la famiglia di fronte all’uscio di casa. «Ma se vuole può scavalcare», aggiunge, impietosita dalla nostra timida ricerca di un varco. Peccato che il Fonte sia sotto terra, strachiuso. Una telefonata alla Pro Loco non aiuta: «C’è da tempo una controversia in corso tra il Comune e il gestore». Quando riaprirà? «Purtroppo non lo sappiamo». Amen. Pare siano tre anni che il gestore, un privato cittadino di Galatina, litiga col municipio. Così tutto resta serratissimo, con tanti saluti a Plinio. Roba che fa innervosire noi; figurarsi un tedesco con famiglia assetata al seguito. Insomma, un vero «requiem » per quella Puglia che vorrebbe puntare su cultura e turismo. Il fatto è che s’arriva aManduria, provenienti da Avetrana, con le migliori intenzioni. Come se fossimo alle porte di Pompei o Siena o Venezia. Complice la guida rossa del Touring Club, che di questa antichissima città – «di nobile aspetto, su un gradino delle Murge tarantine » – racconta meraviglie. Complici pure gli enormi e prolissi cartelli posti lungo la superstrada: per avere il tempo di leggerli bene non serve andare a passo d’uomo, meglio fermarsi sul ciglio della strada: oltre al Fonte pliniano, il Palazzo Imperiali, il Ghetto degli Ebrei, il Duomo, le mura megalitiche, la necropoli e via promettendo. Infatti Manduria ha una storia trimillenaria: nacque come insediamento di popolazioni messapiche, poi fu assediata da Archidamo di Sparta nel 338 aC, conquistata da Annibale durante la seconda guerra punica, devastata dai Romani, distrutta da Goti e Saraceni. Ora le beghe tra Comune e gestore rischiano di far rimpiangere gli antichi invasori. E pensare che lo stemma di Manduria è costituito da un mandorlo che emerge da un pozzo; ai lati dell’albero le lettere maiuscole F ed M, che sono le iniziali dei termini «Fons Mandurinum». Tanto è vero che il pozzo raffigurato nello stemma è quello che sovrasta il lucernario naturale della volta della caverna del Fonte. Per la legge del contrappasso, si propone al Comune di lasciare sullo stemma solo il mandorlo, in attesa di tempi migliori.
Fortunatamente, a Manduria c’è anche il bel Museo della Civiltà del Vino Primitivo (099/9735332), all’interno del Consorzio Produttori Vini: un vero abbecedario sulla civiltà contadina. Tra l’altro, s’apprende che il nome del Primitivo (oggi diffuso come doc a cavallo tra le province di Taranto, Brindisi, Bari e Matera e introdotto dai Fenici o dagli Illiri oltre duemila anni fa) non significa che sia un vino un po’ rustico; il nome deriva dal latino «primativus », che vuol dire maturazione precoce: i grappoli sono raccolti in genere a fine agosto. Mentre «di Manduria» nasce dal fatto che – fino a qualche decennio fa – vagoni di Primitivo prodotto nel Tarantino per raggiungere il Nord Italia («assetata» di vino da taglio) partivano dalla cittadina, l’unica servita da una stazione ferroviaria. «Giunto a destinazione – ci spiegano alle Cantine Soloperto – il vino era identificato col nome della città da cui era partito e che risultava in bell’evidenza dall’etichetta daziale. Da qui l’origine del nome».
Un’altra fortuna? Il fatto che a 11 chilometri da Manduria, in provincia di Brindisi, c’è Oria, l’antica Hyria o Uria messapica. Deve la fama soprattutto al suo castello che domina dall’alto il tavoliere. Fu voluto da Federico II di Svevia, poi restaurato negli anni Trenta dal proprietario conte Giuseppe Martini Carissimo. I suoi eredi ci vivono ancora. E qui funziona tutto alla perfezione («Sarà che la gestione è privata e sa com’è…», ci dice la guida): i turisti – italiani ma incontriamo anche danesi, tedeschi, brasiliani – entrano a scaglioni, su e giù per i merli. Ma il castello non sarebbe così affascinante se non fosse incastonato in un paese che sembra trapiantato qui dalle colline toscane, tanto è pulito, piacevole e a misura d’uomo. Lo testimoniavano i signori più o meno anziani, ma tutti sorridenti, seduti in cerchio davanti al Circolo Europa, intenti a chiacchierare. Per di più, nel primo sabato d’agosto vi si svolge un corteo storico con quattrocento figuranti in costume «medievale », dedicato a Federico II. E’ giunto nel 2005 alla trentanovesima edizione e, sebbene abbia radici storiche non proprie solide, rende Oria ancor più gradevole.
Da Oria la strada porta a Francavilla Fontana, dove sono nati gli stilisti Emanuel Ungaro (da anni vive a Parigi ma racconta di pretendere dalla moglie Laura la tipica pasta con le polpette alla vigilia delle sfilate) e l’emergente Angelo Galasso. Poi si risale la Murgia verso Ceglie Messapica, culla dell’arte culinaria regionale (ben tre dei dodici migliori ristoranti pugliesi sono qui), ai margini della Valle d’Itria. La bella strada che conduce alla nota città barocca e roccocò di Martina Franca (dovè nata la show girl Rossella Brescia) comincia a svelare le magia dei trulli. Finché di fronte a noi spunta Cisternino: un gioiello dall’aspetto orientale, con le sue case bianche che brillano al sole.
Quei menù scritti in giapponese fra trulli e scenari alla Van Gogh
«Buono è buono. Lo dicono tutti, ci va un sacco di gente. Forestieri, chiaro. Io mica ci vado. Sono di Cisternino e quindi se proprio devomangiare fuori vado in altro paese. Altrimenti che gusto c’è…». Se la canta e se la suona, come si suole dire, la signora cistranese (o cisterninense, a seconda delle scuole di pensiero) cui abbiamo chiesto solo informazioni sulla strada da percorrere per raggiungere un ristorante nel centro storico. Combattuta, alla fine ci ha detto dove dirigerci. Un incontro strano, comunque in armonia con luogo, altrettanto strano e surreale: Cisternino, già circondato dai trulli della Valle d’Itria, è forse il borgo più «orientale» di Puglia. Nel senso che mantiene e conserva la sua antica genuinità mediterranea: piccolo al punto giusto; bianco brillante sullo sfondo del cielo azzurro, tanto da far socchiudere gli occhi, quando il sole è alto; splendente nella notte. Con quel fascino da piccola casbah sopravvissuta lassù dai tempi delle invasioni saracene. Insomma, un rappresentazione quasi teatrale del Mezzogiorno, inteso come categoria dello spirito: roba da indurre in pensieri meridiani pure chi non conosce il sociologo barese Franco Cassano, che ne è il teorico. Certo, Alberobello è la capitale della valle. Ma è preferibile passare prima da Cisternino e da Locorotondo. Per cogliere come si deve la gradualità del cambio del paesaggio; e per immaginare come doveva essere la suddetta capitale prima che diventasse una meta turistica da tour organizzato (inclusi i giapponesi), con tutti i pregi e i difetti del caso. Se ad Alberobello è pressoché impossibile, per quanto sia splendida, cogliere un po’ di genuinità dietro boutique e negozi di souvenir, a Cisternino – malgrado tutto – la gente ha conservato di più le proprie radici, carattere estroverso compreso. E una passeggiata scarpinando sulle chianche delle viuzze restituisce serenità: per quanto si giri, pare di percorrere un spirale che trascina sempre verso le piazzette del centro, in un luogo sia chiuso che aperto, sia pubblico che privato: costruito con la logica spontanea di chi nei secoli ha pensato a tessere rapporti umani, ancor prima che a costruire architetture. D’altra parte in tutta la Valle d’Itria, unica al mondo, quei coni bianchi – i trulli – sembrano fuori posto e nel posto giusto, allo stesso tempo, contribuendo a creare un’atmosfera magica. Atmosfera cui, come in tutte le favole, non sono estranei neppure i nomi dei luoghi.
Cisternino, ad esempio, potrebbe trarre origine da Sturnoi, il compagno di Diomede, che – terminata la guerra di Troia – avrebbe fondato questo centro che i Romani hanno poi chiamato Sturninum. Nell’ottavo secolo i monaci braciliani costruirono una badia di rito greco che chiamarono San Nicolò cis-Sturninum, (cis in latino significa «dallo stesso alto »), dove oggi sorge la Chiesa Matrice. Alberobello deve il suo nome alla Sylva Arboris Belli («selva dell’albero della guerra»), un querceto che anticamente ricopriva la zona. E Locorotondo potrebbe chiamarsi così non solo per il suo originale perimetro circolare ma, secondo lo storico locale Francesco Fumarola, pure grazie a coloni greci originari di Locri: da «Locros-Tonos», ovvero «forti locresi», a Locorotondo.
Per giunta sopravvivono tradizioni millenarie: ad esempio, sempre a Cisternino le gestanti vanno ancora in processione, a piedi, fino alla chiesetta dedicata alla Vergine d’Ibernia, detta anche «delle uova» – cioè, la Madonna dell’abbondanza, della vita e della fertilità – in inconsapevole memoria delle prerogative di antiche divinità pagane: non lontano c’era un tempio dedicato alla dea della fertilità Cibale; tanto è vero che al santuario mariano è portato in dono, nelle feste primaverili, lo stesso dolce, il chïrrùchele (dal latino auguraculum, dono propiziatorio), che i bambini pagani offrivano a Cibele per propiziarsi la fecondità. Con un balzo di duemila anni in avanti, a Locorotondo si può osservare anche la targa che ricorda un altro mito, Giuseppe Di Vagno, il «Matteotti di Puglia»: deputato socialista di Conversano (non lontano) assassinato dai fascisti nel lontano 1921. «La codardia nemica due volte distrusse. Il popolo due volte pose. Locorotondo, 2 maggio 1947», vi si legge.
Infatuati da queste reminiscenze, si torna alla realtà nel bel mezzo di Alberobello, protetta dall’Unesco. Qui la Puglia celebra la proclamata vocazione al turismo internazionale. Vi si osservano frotte di turisti giapponesi, segnalati nel resto del Tacco d’Italia solo a Lecce, Otranto e Castel del Monte. E ci s’imbatte nella preveggenza – questa sì, solo alberobellese – dei commercianti: esibiscono anche cartelli, avvisi, listini, menù scritti nella lingua del Sol Levante, circostanza che tranquillizza i diffidenti nipponici; e non pochi commercianti sfoggiano un inglese che, per quanto elementare, è efficace (quanto raro nel resto delle località turistiche pugliesi). Nell’impeto del marketing, si offrono, ai religiosi, trulli presidiati da Padre Pio; agli sportivi, trulli con i colori di Inter, Milan, Juventus, Bari, Lazio, Napoli e via elencando. Gli amanti degli animali possono accettare i fischi di richiamo emessi da «Ba Ciccio», vivace canarino che ovviamente «vi invita alla visita del trullo».
Il conseguente stordimento da overdose di trulli e rosoli (forniti «innocentemente» dai proprietari) è curabile finendo nel mezzo di un quadro di Van Gogh; o meglio, del quadro che il pittore olandese avrebbe senza dubbio dipinto se avesse visto, poco lontano dal caos di Alberobello, l’Abbazia di Barsento. I colori sono degni della Provenza, sullo sfondo di campi gialli costellati da covoni di fieno. E’ nel territorio di Noci, fu realizzata per i monaci di Sant’Equizio da Papa Gregorio Magno nel 591, in cima a una collina affacciata sul canale di Pirro. Merita, da sola, l’onere di un viaggio. La strada da qui s’abbarbica su per i colli della Valla d’Itria, raggiunge Noci, svolta verso Putignano, quindi scende in direzione di Castellana e delle sue grotte e, attraverso distese di vigne e di ulivi, raggiunge Conversano, laddove regnarono, con piglio di amazzoni, le badesse mitrate.
Nel regno delle badesse il cicloturista parla tedesco
Può capitare di raggiungere un paese come Conversano – sulle Murge baresi – stando in coda dietro un plotone di ciclisti. Anzi, di cicloturisti tedeschi; di tutte le età, dai ragazzini agli anziani. Con pullmino al seguito. Perché le strade interne della Puglia sono care ai cicloturisti di tutto il mondo. Ma è più facile incontrare francesi, tedeschi e persino australiani piuttosto che italiani. Anche se, a onor del vero, ci sono eroiche associazioni pugliesi come Ruotalibera e Cicloamici.
«In Puglia servono infrastrutture, servizi e interventi di promozione e incentivazione. E qualcuno che ci creda. Al momento siamo ancora in pochi», ci ricorda Lello Sforza, presidente di Ruotalibera Bari. Intanto ci sono tour operator, nazionali e internazionali, che offrono assistenza, studiano tappe di marcia, prenotano ristoranti i e hotel di charme. Non a caso i cicloturisti che abbiamo incontrato alle porte di Conversano poco dopo erano in coda davanti alla reception della Corte Altavilla Relais & Charme, uno dei rari esempi italiani di «albergo diffuso»: attici, sottani e suite sono disseminati lungo un vicolo a fondo chiuso, nel borgo medievale. Tempo fa c’è stato anche il regista statunitense Francis Ford Coppola, che ha radici nella vicina provincia di Matera, a Bernalda.
C’è da dire che Conversano di charme ne ha molta per vocazione. Ad esempio, dietro la bella cattedrale c’è un quadrivo, dominato dalla statua di San Benedetto. Poco più avanti c’è l’omonimo convento, nascosto dalle mura di cinta: davanti all’ingresso, due signori a torso nudo, intenti a pulire con spazzole e ramazze. Ebbene, quello è stato un centro di potere tale da meritarsi, fino ad «appena» 195 anni fa, un anatema tipo: «Deleatur hoc monstrum Apuliae », ovvero: «Che questo “Monstrum” (cioè fenomeno terrificante e meraviglioso assieme, ndr) delle Puglie venga distrutto». Perché? Beh, lì il potere per quasi seicento anni lo hanno avuto le donne. Donne? Esatto. Erano le «badesse mitrate», «monstrum» più unico che raro nel mondo cristiano di tutti tempi: portavano la mitra e il pastorale come i vescovi (maschi) e a loro era dovuto il baciamano, privilegio incredibile se attribuito a una donna. Cosicché proprio con i vescovi furono in conflitto per seicento anni.
Dunque, nel 1266 giunsero a Conversano alcune monache cistercensi guidate da Dameta Poleologo. Il monastero era già protetto dal Papa (dal 1110) ma in più ricevette il potere abbaziale: Dameta e le sue sorelle diventarono «Abbatissae infulatae», «Badesse Mitrate». Dato che erano spesso parenti dei nobili della zona, fu difficile per i vescovi di Conversano piegarle. Alla fine questi ultimi ottennero ragione, ironia della sorte…, proprio da un figlio della Rivoluzione francese, Gioacchino Murat (cognato di Napoleone e Re delle Due Sicilie dal 1808 al 1815): nel 1810 inviò a Monsignor Carelli, vescovo di Conversano, un dispaccio nel quale dichiarava l’abolizione del potere delle badesse e il passaggio del convento sotto il suo vescovado. Fine del «femminismo» delle tenaci monache. Da Conversano si prosegue per Turi, cittadina nota per le ottime ciliege «ferrovia». Eppure anche Turi nasconde un segreto, legato a fatti storici più recenti: nel massiccio carcere ottocentesco fu detenuto dal 19 luglio 1928 al 19 novembre 1933 Antonio Gramsci, uno dei padri del Pci, che condivise quelle sbarre con altri antifascisti, come Sandro Pertini. Gramsci vi cominciò a scrivere, l’8 febbraio 1929, i suoi trentatrè Quaderni del carcere, immenso patrimonio di idee pubblicato da Einaudi solo nel 1948. Una lapide, sulla facciata, lo ricorda così: «In questo carcere visse in prigionia Antonio Gramsci / maestro liberatore martire / che ai carnefici stolti annunciò la rovina / alla patria morente la salvazione / al popolo lavoratore la vittoria». È scritta con caratteri un po’ tremanti e porta la data del 27 aprile 1945. Non abbiamo potuto fotagrafarla, un agente della polizia penitenziaria ci ha detto che non è possibile; infatti la casa di reclusione funziona ancora, sessant’anni dopo, e minacciosi cartelli insistono: «Limite invalicabile », «Vietato fotografare o produrre rilievi a vista».
Da Turi la strada corre verso Sammichele di Bari (patria della «zampina», prelibata salsiccia locale, e sede di un interessante Museo della civilta contadina, tel. 080/8917297 ) e poi verso Acquaviva delle Fonti, La cittadina deve il nome ad una falda acquifera perenne; e ha dato il suo nome alla «cipolla rossa di Acquaviva », raro e dolce ortaggio che Slow Food conta tra i suoi «presidi». «Vuolsi notare che fra i ricolti, onde maggiormente si avvantaggia la classe agricola è quello delle cipolle, ricercatissime anche da lontane regioni», si legge nella Storia della Chiesa Palatina di Acquaviva delle Fonti dal 1779 al 1875. La prima domenica di ottobre la cipolla rossa è protagonista di una festa organizzata dalla Pro Loco.
Poi via verso Gioia del Colle. Tra le città pugliesi ha uno dei centri storici conservati meglio, col suo splendido castello federiciano. Tutto lindo, ordinato e pulito (potrebbe fare scuola). Qui, nella calura estiva, è pure possibile imbattersi in un antico cocchio funebre trainato da quatro cavalli bianchi: visione quasi onirica, che sarebbe piaciuta allo scrittore Dino Buzzati. Per chi desidera emozionimenometafisiche, c’è a disposizione anche il vicino aeroporto militare, sede del 36esimo Stormo (caccia e caccia bombardieri). Anche qui le foto sono vietate. Ma è possibile vedere i jet decollare e atterrare. E, tanto per restare sul filo della storia, forse non tutti sanno che l’aeroporto è ricordato per un’impresa memorabile, portata a termine da Gabriele D’Annunzio nel 1917: partendo da qui verso il calar della sera, con una formazione di quindici velivoli Caproni da bombardamento, col buio e senza strumenti di navigazione, attraversò l’Adriatico e raggiunse la Dalmazia, dove bombardò la flotta austriaca. I Caproni rientrarono tutti alla base seguendo una «strada» di fuochi accesi, da Bari fino all’aeroporto di Gioia. D’annunzio festeggiò l’epica impresa proprio nel castello di Federico II. Mentre noi, osservando nel nostro specchietto retrovisore un caccia in atterraggio, prendiamo la strada per Mottola, nel Tarantino.
Chiese rupestri «dimenticate», un po’ meno Rodolfo Valentino
Si può anche essere fiduciosi nella guida rossa del Touring Club Italiano, che scrive: «Fu abitata fin dalla preistoria», «Mura greche di età ellenistica (IV sec. aC)» e via di questo passo. Però il primo impatto con Mottola lascia perplessi. Invece delle mura ellenistiche si vede un muraglione di condomini e palazzine, precipitato sulla Murgia tarantina. Per ovviare allo choc, il sito www.comune.mottola.ta.it offre una ricca documentazione dedicata al centro storico, alla Murgia dei boschi, alla gravina di Petruscio e alle «grotte di Dio».
Grotte in che senso? Al primo rondò una scritta indica la direzione. Il pomeriggio arroventato dal sole deve averci favorito. Perché in giro – lungo una strada priva d’altre segnalazioni – non c’è anima viva: né turisti né «indigeni» in grado di darci indicazioni. Così – quando ci siamo imbattuti nel cartello, un po’ sbilenco, «Madonna del Carmine » – la sorpresa è stata pure maggiore. Un posto di certo magico, secondo i credenti miracoloso. In una piccola gravina, adattata per ospitare visitatori e pellegrini, c’è questa piccola chiesa bianca, ben tenuta, in parte scavata nella roccia, circondata da rosmarino, piante di capperi, oliveti. Nessuno in giro. Da dove si entra? Un cancello pare chiuso. Finché lo sfioriamo. S’apre. Dentro, in un ambiente fresco, un tripudio di affreschi bellissimi. «C’è nessuno?», proviamo a sussurrare, invano.
Viene voglia di restare qui a lungo. Indisturbati. Con le rondini che volano attraverso le finestre. Il santuario è noto alla gente del posto come «Madonn’ Abbasc’». Durante la Settimana santa cento personaggi in costume svolgono la Sacra rappresentazione. Sembra la grotta sia stata il ricovero del pastore «Chierico Francesco Pietro di Filippo», come recita una lapide. Ebbe una visione miracolosa il 22 aprile 1506. Nella lapide è lo stesso pastore a raccontare, a modo suo: stava «riposando sopra il letto ad ora di vespro voltata la faccia verso la porta dormendo sentendo una voce angelica e vedendo tutta la grotta illuminata di fuoco celeste». La voce: «Sono la Madonna SS.ma del Carmine voglio che fate una cappella in nome mio qua in questo deserto». Oggi la chiesa è ancora una meraviglia nel deserto. E non è l’unica. Nei dintorni ci sono tante chiese rupestri. Bisogna cercarle, magari nascoste in terreni privati e quasi abbandonate. Una delle più famose è quella di San Nicola. Famosa in teoria, perché trovarla è un’impresa: una freccia, scritta anche in russo, indica una stradina. Si percorrono piccoli canyon, si oltrepassano gallerie, si costeggiano discariche emuretti. Trattori in lontananza. La strada diventa sterrata e polverosa. Un’altra freccia conduce a un sassoso viottolo fiancheggiato da fichi d’india. Poi finisce pure il viottolo. Occorre inerpicarsi a piedi, fino a costeggiare la ferrovia; s’intuisce da vecchi segni di ruote dei carri sul tufo che deve essere passata tanta gente, nei secoli. Poi una scala scende in una gravina. Ecco San Nicola, scavata nella roccia, con un cancello chiuso che consente di scattare fotografie. Pare d’essere fuori dalla realtà: tre navate con pitture a più strati sovrapposti, realizzate tra l’XI e il XV secolo. E non abbiamo incontrato assolutamente nessuno.
La Murgia intorno a Mottola nasconde centinaia di affreschi analoghi. Le chiese rupestri sono più di trenta, «orientate – leggiamo nel sito Salentopoint (www.salentopoint.com/Archeologia/ Archeo_17.html) – secondo un preciso schema liturgico, le absidi verso Oriente». Ci sono Sant’Angelo, Santa Margherita, San Gregorio, San Cesario, Sant’Apollinare…: «Potrebbe essere uno dei parchi naturali ed archeologici più importanti della regione. Nel buio della terra le facce dei santi risplendono, quasi ad invocare pietà contro l’insulto degli uomini. Molti hanno la testa tranciata, altri gli occhi cavati dal piccone. Vandalismo, superstizione, speculazione: questa l’amara sorte di un mondo silenzioso e imponente che mille anni dopo non riesce più a sopravvivere neanche nascondendosi ». Difficile non essere d’accordo. Questo mondo sotterraneo fu usato pure per costruire città nascoste, rifugi delle gente in fuga dalle invasioni di Bizantini, Goti, Longobardi, Slavi, Franchi, Saraceni, tra VI e XIII secolo. Meriterebbe d’essere conosciuto; e d’essere tutelato. Da Mottola si raggiunge Palagianello, con altri esempi di civiltà rupestre. La strada s’inerpica verso Castellaneta. Ha un bel centro storico ma deve la sua fama all’attore Rodolfo Valentino, nato qui centodieci anni fa. Il suo mito resiste inossidabile, anche se morì negli Stati Uniti a soli 31 anni, nel 1926; a diciotto s’era imbarcato per New York. Era nato da un veterinario e da una bella donna d’origine francese, dama di compagnia della marchesa Giovinazzi, che contribuì a innescare i suoi sogni. Nel film I quattro dell’Apocalisse, tratto dal romanzo di Blasco Ibanez, era il protagonista: un gaucho che balla il tango. Successo internazionale, senza precedenti. Rodolfo è sepolto all’Hollywood Memorial Park. È stato chiesto che sia trasferito a Castellaneta. Si vedrà. Intanto in città l’unico cinema è intitolato a lui, ovviamente. C’è poi una sua statua in ceramica azzurra, realizzata dallo scultore Gheno nel 1961, che lo rappresenta vestito come nel film Lo sceicco: è soprannominata «capasone» («otre», in dialetto), comunque pare porti fortuna. E poi c’è un museo a lui intitolato (099/8492398).
Da Castellaneta la strada va verso Laterza (da «Latentia», luogo di caverne e di nascondigli; o da «Tertiam», la terza legione romana, qui accampata) e Ginosa (da «Genusia», forse con riferimento ai fondatori giunti da Genusim, l’odierna Cnosso, nell’isola di Creta). A Santeramo in Colle, già in provincia di Bari, batte il cuore della Natuzzi. Il paesaggio cambia, gli ulivi scompaiono quasi del tutto, ci sono vigne e soprattutto campi di grano appena mietuti. La strada scende verso Cassano delle Murge, nel cui territorio sorge la Foresta Mercadante: 1.300 ettari voluti oltre settant’anni fa per difendere Bari dalle alluvioni. La selva è la maggiore attrattiva turistica della piccola Cassano: ospita pini, lecci, cipressi, querce, cedri, olmi, robinie, frassini, eucalipti. È attrezzata per i pic-nic, con grandi recinti che ospitano daini e struzzi. Superata la foresta, la strada si dirige verso Altamura. Mentre in cielo volteggiano decine di rapaci.
E l’«Uomo di Altamura» cerca di diventare poliglotta
«Come mai fin qui?», chiede. «Turista». «Turista? ». «Turista, sì sì» (mentiamo, contando sull’accento non proprio pugliese). «Da solo? Strano… Qui, poi». «Beh, ci sono altri, sono rimasti al mare». «Dove?». Per sfuggire all’interrogatorio – condotto sotto un sole rovente, senza risparmio di colpi, lungo la balaustra che guarda il pulo di Altamura – abbiamo dovuto inventarci un improrogabile impegno e tagliare la corda. Altrimenti il tipo non ci avrebbe mica mollati. Non aveva altre «prede». Anche se ci dicono che, quando fa più fresco, quassù arriva chi fa jogging o va in mountain- bike. Adesso però siamo soli con l’inquisitore.
In realtà dobbiamo essergli grati, perché le indicazioni stradali sono rare, sparpagliate un po’ a caso per le campagne, spesso annerite da sole e ruggine. Così è stato lui a farci da guida, fin qui. Comunque, una volta svincolatici, possiamo guardare con calma il pulo di Altamura, a 9 chilometri dalla cittadina, nel mezzo delle Murge. Sul vocabolario la parola «pulo» non c’è: è la versione locale di «dolina», «depressione a forma d’imbuto, tipica delle regioni carsiche». E infatti la Murgia è carsica. Questo è il pulo più grande della Puglia: sembra il cratere di un meteorite, più o meno circolare, con una diametro di mezzo chilometro, profondo 75 metri, creato dallo scorrere millenario delle acque piovane verso la grotta, un cosiddetto inghiottitoio, che si apre al centro. Lo spettacolo è unico. E nel pulo sono stai trovati anche molti reperti archeologici, soprattutto preistorici. Peccato che non si facile trovare questo posto. E peccato che lo trovino quelli che ci arrivano per scaraventare la loro vecchia automobile giù per la scarpata. Sul fondo ci sono decine di carcasse, alcune arrugginite da tempo. Tirarle fuori? Un’impresa. Sarebbe carino, almeno, far cessare questo costume locale, lasciando i «reperti» già finiti laggiù agli archeologi del futuro, sperando che non vogliano farsi di noi un’opinione troppo cattiva. Non lontano da Pulo, tre chilometri verso Altamura, c’è una meraviglia ancora più… meravigliosa. L’uomo di Altamura. Anche qui è non è facile arrivare. Noi incontriamo solo due turiste austriache e una coppia di napoletani. Ci conforta il fatto che, secondo la guida, in poco più di anno sono arrivate 17 mila persone. L’«Uomo di Altamura » è stato rinvenuto nella Grotta di Lamalunga il 7 ottobre 1993. Era un cacciatore del Pleistocene medio – via di mezzo tra l’Homo Erectus e l’Uomo di Neanderthal – che più o meno 250.000 anni fa cadde in un voragine e rimase intrappolato sottoterra, morendo. La stessa sorte di tanti animali. Poi la voragine si chiuse. Il suo scheletro, ricoperto da concrezioni che paiono brillanti, è incastrato tra stalattiti e stalagmiti, dove fu scoperto dagli speleologi del Centro Altamurano Ricerche Speleologiche. Si può osservare solo per mezzo di telecamere, sui monitor installati nel centro espositivo, la Masseria Ragone (080/3143930). La visita è interessante. E bisogna rendere onore all’ingegno della guida naturalistico/speleologica Francesco del Vecchio, uno degli scopritori: grazie ad un eroico linguaggio italo-mimico- inglese persino le due turiste austriache hanno potuto capire. «Da tempo chiediamo almeno depliant in inglese – dice lui, alla fine, esausto – ma per ora niente. Beh, speriamo in bene. Faccio quello che posso, sono uno speleologo, in fondo, mica un interprete…». Bravissimo, in ogni caso. Sperando che «chi sta in alto» – dopo anni di beghe burocratiche necessarie per aprire la masseria – prenda atto del fatto che l’italiano non è la lingua più diffusa nel mondo.
Ecco Altamura, la «Leonessa di Puglia», bella e antica cittadina, con le sue tipiche «stradicciole » e le piazzette chiamate «claustri». Deve quel soprannome alla resistenza contro le truppe sanfediste del cardinale Ruffo, dopo che nel 1799 era stato piantato l’albero della Libertà con i simboli della rivoluzione francese. Altamura cercò di resistere: inutile. Il 10 maggio dello stesso anno l’esercito filoborbonico entrò in città, saccheggiando e uccidendo. Per la cronaca, il Comune non ha ancora fatto la pace con il principe Ruffo di Calabria, pronipote del cardinale: da tempo chiede ad Altamura una «riappacificazione». Invano. Da Altamura si raggiungeGravina, il cui borgo ricorda quello di Matera. In centro, l’Osteria di Salvatore Cucco espone sulle sue pareti le foto dei clienti blasonati: da Arbore a D’Alema, da Vissani a Placido. Il suo motto è «Mente sapiente in pancia capiente». Slogan gastronomico o slogan politico? Con questo interrogativo ci s’inoltra nel grande solco tra le Murge e l’Appennino lucano: vi scorrono il Basentello, il Bradano e il Locone. In mezzo c’è la sella su cui sorge Spinazzola. Poco prima, Poggiorsini, 1.500 abitanti affacciati sul lago artificiale del Basentello: di eccezionale questo paese lindo e pulito ha la calma serafica che trasmettono le sue strade e i suoi abitanti, sospesi in un’atmosfera rurale d’altri tempi. Spinazzola, 7.500 abitanti, è nota, tra l’altro, per aver dato i natali a un papa, Innnocenzo XII: il cardinale Antonio Pignatelli, nato nel 1615 da Francesco Pignatelli II Marchese di Spinazzola e Porzia Carafa Principessa di Minervino, figlia di Fabrizio Carafa Duca d’Andria e Marzia Carafa dei Pricipi di Stigliano. Fu l’ultimo papa con la barba, infatti dopo di lui s’instaurò l’abitudine alle facce rasate. E grande impegno profuse per stroncare la piaga del nepotismo. Un altro religioso, più modesto come incarico, si distinse in paese il 23 settembre 1943: Padre Ilario fermò i soldati tedeschi in ritirata, che avevano già minato il centro del paese. Spostò con le sue mani le mine, chiamando poi a raccolta cittadini, carabinieri, soldati sbandati, per difendere la cittadina. Padre Ilario Giovine, classe 1915, ha poi retto per decenni la parrocchia San Francesco d’Assisi di Japigia, a Bari.
La strada provinciale 39 scavalca la Murgia di Serra Ficaia, dove verso sera può capitare d’incrociare una volpe che insegna al suo cucciolo a cacciare. La strada scende verso Ruvo di Puglia, col suo splendido centro storico. Diciannove chilometri ci separano da Castel del Monte.
Alla corte di Federico II tra Artù e il Santo Graal
«Vorrei andare a vedere il castello di Federico II». «Niente da fare – ci risponde Che Guevara – deve parcheggiare laggiù, nel parcheggio, poi venire qui col pullman». Che c’entra Che Guevara con l’imperatore? Niente paura. Non è un altro escamotage esoterico-spiritistico. È il soprannome del giovanotto che presidia la strada per Castel del Monte, seduto in tenuta da spiaggia a controllare il maniero immortalato sulla moneta italiana da un centesimo di euro. Fuori stagione s’arriva lassù in auto. In estate, giustamente, no. Il parcheggio è in una spianata posta un chilometro più a valle. Un collega del Che, in cambio di tre euro, offre un ticket che consente di lasciare l’automobile e di usufruire, per andare e tornare, di un pullman, che si ferma ai piedi della rocca e di fronte a un’armatura (finta) degna di Re Artù e Lancillotto.
Bisogna però ammettere che i racconti quasi mitologici intorno a Federico II trovano qualche alibi sia nel reale carisma del sovrano sia nella collocazione di Castel del Monte. Percorrendo la strada che porta fin là, l’ottagono di pietra ben presto appare in fondo al nastro d’asfalto e troneggia solitario, tra i rapaci (cari allo Svevo) che in questa stagione volano numerosi su tutta la Murgia. Una specie di piccolo Olimpo pugliese, che piacque molto al sovrano come punto di osservazione più o meno metaforico, così come pare molto utile agli uomini del servizio antincendio che da quassù dominano l’altopiano, passeggiando tra i turisti. In ogni caso la ragazza che guida i turisti pare miracolosamente immune da suggestioni esoteriche. Alla domanda: «A cosa serviva un castello così strano?», invece di dire – come si legge spesso e si sente pure in tv – che serviva per custodire il Santo Graal, ha risposto: «Aveva uno scopo di rappresentanza politica». Sincera e preparata. Anche perché smitizzare Federico (Jesi 1194 – Fiorentino/ Foggia 1250) è quasi rischioso: è considerato dai pugliesi quasi un patrimonio esclusivo, guai a ricordare che stava da queste parti come altro nel regno del Sud. E poi qui vicino ha una masseria il Maestro Riccardo Muti, molfettese da parte di padre, che dello Svevo è un noto e irriducibile fan.
Un paragrafo a parte lo merita l’allegra combriccola che accoglie i turisti-automobilisti nel parcheggio. Malgrado il caldo pomeridiano non deponga a favore dei nervi calmi, elargiscono gratis sorrisi battute e consigli; meno gratis bevande, gelati e panini, proposti dal banco del bar. Un cartello scritto a mano e posto di fronte alla macchina del caffè si commenta da solo: «Attenzione!!!» (in rosso). Poi: «Rilassati!! Sei in vacanza!!! Il bus navetta parte ogni 10 minuti!! Non stressarti e goditi le vacanze!!! Il centro di accoglienza turistica del Monte vi augura buone vacanze!!!». I villeggianti hanno l’aria soddisfatta, stranieri inclusi. D’altra parte questo è uno dei pochi luoghi della Puglia (con Alberobello) in cui si possono incontrare anche giapponesi e persino cinesi (le prime avanguardie).
Dal colle di Castel del Monte la strada è punta verso Minervino Murge, diecimila abitanti. Il nome deriva dal fatto che forse qui c’era un tempio dedicato aMinerva. Ma la cittadina – graziosa, con un centro storico veramente caratteristico – ha tre caratteristiche curiose. Primo: un faro, alto 32 metri. «Anche se non serve a niente, gira», confida il barista del Bar . In effetti che ci fa un faro in un altopiano, a 420 metri d’altitudine, dove una nave non s’è mai vista? Beh, «è un monumento eretto nel 1932 ad esaltazione del fascismo e dei suoi caduti», si legge nel sito della Pro Loco. In effetti è così ricoperto di scritte e simboli del Ventennio che pure dopo la Liberazione non sono riusciti a trovare la voglia di cancellare tutto. Lo stesso Mussolini offrì diecimila lire per la costruzione, affidata all’architetto Aldo Forcignano. Prima pietra il 28 ottobre 1923. Inaugurazione il 29 giugno 1932, presente il Segretario del Partito fascista, Starace. Fra i trenta caduti pugliesi citati, cinque minervinesi. Su una delle facciate fu scolpita l’epigrafe: «Più che faro nelle tenebre, più che sole a meriggio, splenderà nei secoli, conforto ai fedeli, rampogna ai traditori, la luce del martirio fascista». Nel Dopoguerra fu cancellata, a colpi di scalpello, solo la scritta «fascista». Ora ufficialmente è un monumento a tutti i caduti di Puglia,ma molti fasci littori sono lì, anche perché sarebbe impossibile toglierli senza far crollare tutto. Oggi la lanterna ruotante «irraggia un fascio di luce di modesta intensità che sostituisce quello originario donato dal ministero della Marina Mercantile della potenza di 2 milioni di candele, a suo tempo visibile per un raggio di 80 km».
La seconda curiosità consiste nel fatto che in paese fu girato e ambientato I basilischi (1963), diretto da Lina Wertmuller e premiato al Festival di Locarno. La regista, d’origine pugliese malgrado il cognome, dipinse una realtà ancora attuale: mentre tanti emigrano, ragazzi più o meno agiati della cittadina trascorrono i giorni nell’ozio e nella noia. C’è chi potrebbe uscirne, ma rinuncia. Una commedia sorridente e, allo stesso tempo, amara. Nel maggio 2003, per Tv7, la regista tornò a Minervino. Disse: «Certo che ci sono ancora i basilischi. Però sono in evoluzione. Come in tanti posti e in tanti Sud del mondo. I Sud hanno delle radici antiche, dei vizi antichi, dei difetti antichi, dei pregi antichi». La terza curiosità? A Minervino ci sono laboratori in cui sono confezionati quei capi d’abbigliamento griffatissimi che le griffe ci fanno pagare a peso d’oro altrove.
Da Minervino la strada (fiancheggiata da una superstrada in perenne costruzione) scivola verso Canosa: ogni volta che si costruisce un nuovo edificio emerge qualche vestigia della sua storia, che affonda fino al VII secolo AC. La scoperta dell’ipogeo con la Tomba degli Ori (IV sec. AC), ad esempio, risale appena al 1991 (era già stata scoperta casualmente nel 1928, ma poi era stata ricoperta e dimenticata). Ci lasciamo alle spalle (anche perché le indicazioni sono scarse e poco comprensibili) l’Arco di Traiano e il ponte romano sull’Ofanto (II sec. DC.), per dirigerci verso la vicina Cerignola.
Sulle note di Cavalleria rusticana Cerignola ricorda il suo Mascagni
«Il ristorante è dietro l’isolato. Ma non lascerà mica l’auto lì?». «È all’ombra…». «Sì. Ma si vede che non siete di Cerignola. Rischiate di non trovar più niente». Così il custode di un palazzo non solo si raccomanda più volte di spostare l’auto, ma ci spiega neiminimi dettagli come raggiungere la meta, a non più di 500 metri. Cerignola, 57mila abitanti, ha questo handicap: la fama d’essere una città in cui la criminalità è particolarmente vivace. Un fondo di verità c’è; ed è un problema che – a livello politico e istituzionale – si sta cercando di risolvere. Purtroppo, se si chiede in giro, anche quasi tutti pugliesi associano il nome della città a quello del rischio suddetto. Noi siamo passati per il centro cerignolese, all’ora di pranzo, un po’ perché sapevano che c’è un’osteria con un nome che la dice lunga: «’U Vulesce», che significa in dialetto «la voglia di qualcosa di buono e gustoso». Scelta di gola che potrebbe dirla lunga sulla capacità di attrazione turistica (non crediamo d’essere i soli viandanti affetti da «vulesce»…) che il recupero della tradizioni culinarie può rappresentare anche per località in teoria fuori dai tour consueti. Vorremmo dare un contributo alla causa cerignolese ricordando che l’antica Keraunania deriva il suo nome, forse, da Cerere, la divinità più cara agli agricoltori. Infatti Cerignola è un importante centro agricolo. Si sviluppò ai tempi dei normanni e degli Svevi (Ceriniola), ancor più sotto gli angioini. Tartassata dal terremoto del 1731, si è poi ripresa nel corso dell’Ottocento. E il Duomo «goticheggiante» merita una visita.
Ma Cerignola è interessante anche per i vip cui ha dato i natali o che ha ospitato. Il musicista livornese Pietro Mascagni (1863-1945), ad esempio, vi compose la famosa Cavalleria rusticana. Era un nomade impenitente, giunto per caso a Cerignola nel 1886 con la compagnia Maresca. Il vivace musicista, ventiquattrenne, fu subito stimato: il sindaco gli propose di stabilirsi nella piccola cittadina per dare lezioni private. E Mascagni con la giovane compagna, Lina Carbognani, accettò. Divenne maestro di suono e di canto nella nuova Filarmonica della città e sposò Lina. È lo stesso Mascagni – si legge sul sito www.pietromascagni.com – a raccontarci della vita spensierata a Cerignola: «con meno fama e più fame », con i cenacoli letterari improvvisati a Bari nella bottega di musica e strumenti di Giannini, suo caro amico. Nel 1904 si trasferì definitivamente a Roma. Sul suo pianoforte preferito scrisse: «Coll’aiuto di Dio e di questo pianoforte Pietro Mascagni compose la “Cavalleria Rusticana” a Cerignola nell’anno 1889».
E a Cerignola nacque Giuseppe Di Vittorio (1892-1957), figlio di contadini, padre della Cgil, leader comunista. La sua vita accompagna i grandi processi di trasformazione economica e politica che hanno attraversato l’Italia tra gli anni Dieci e gli anni Cinquanta del Novecento, con il lungo percorso di riscatto sociale del mondo del lavoro. La città, poi, nel 1935 ha visto nascere Pinuccio Tatarella (1935-1999), uno dei padri di Alleanza Nazionale, che è stato vice premier. Né si può dimenticare Nicola Zingarelli (1860-1935), critico, dantista e filologo, l’artefice nel 1917 dell’omonimo Vocabolario (continuamente aggiornato fino a oggi). Un pilastro. Basti pensare che nell’ultimo romanzo di Gabriel Garcìa Márquez, Memoria de mis putas tristes, il protagonista lo cita: serve «per assistermi nell’idioma di miamadre, che ho imparato già in fasce».
Da Cerignola la strada si dirige verso Candela: 38 chilometri lungo la provinciale 98, durante i quali non s’incontra un paese. Se non Borgo Libertà, frazione di Cerignola a ben 16 chilometri da capoluogo. Il Borgo, inaugurato nel 1956 dall’allora ministro dell’Agricoltura Colombo, nacque proprio per popolare questa spianata vastissima di campi agricoli. Appare tuttora un avamposto da film western, complice l’arsura. È dominato dalla bella Torre Alemanna, rocca medievale che fu usata dai Cavalieri teutonici: vincolato nel 1983, il complesso, dal 1988, è oggetto di interventi che lo dovrebbero riportare all’antico splendore. Per ora la torre è transennata e i lavori paiono fermi. Un cartello cadente del 1998, posto dal Comune, riporta «completamente del restauro con destinazione a centro di cultura polivalente» e l’importo dell’investimento, ancora in lire: 920 milioni; i lavori si sarebbero dovuti concludere nel 2000.
Si continua verso Candela lungo la provinciale: sconsigliato restare in riserva qui. Primo, perché non c’è un distributore di benzina durante tutto il percorso; secondo, perché si costeggia l’autostrada, dove i distributori ci sono ma sono inaccessibili. Un vero supplizio di Tantalo in versione automobilistica. Davanti allo svincolo di Candela, finalmente un distributore. Poi via, verso Ascoli Satriano, bella cittadina arroccata su un colle e poco abituata a vedere turisti: ha dato i natali a Michele Placido e, oltre duemila anni prima, ha «ospitato», quando si chiamava Asculum Apulo, la seconda battaglia di Pirro, re dell’Epiro, contro le legioni di Roma (279 AC). Dopo Ascoli s’abbandona il tavoliere riarso per salire verso il verde Subappennino, dove la vita quotidiana – con le donne anziane vestite di nero – ci porta indietro di decenni. Ecco Deliceto, col suo castello. E Bovino, l’antica Vibinum, ricordata da Plinio e Polibio: vi si accampò Annibale nel 217, un anno prima della battaglia di Canne. Sul cocuzzolo il maniero normanno-svevo, dove una targa riporta una bella poesia di Maria Bernardini: «…Bovino ha una torre e un castello/ e, dentro, c’è un pino / antico e contorto. / O forse Bovino è il sogno di un pino che sogna un paese».
Si va verso Accadia, lungo una strada malmessa, tra greggi e pale eoliche. Da Accadia a Panni: 1018 abitanti a 800 metri d’altezza, ai confini con la Campania. L’origine del nome sembra legata a Pan, dio dei boschi, raffigurato sullo stemma municipale. Per raggiungere la tappa finale bisogna scendere fino a valle, dove Panni condivide la stazione ferroviaria, in territorio campano, con Montaguto. Dopo mezz’ora d’attesa al passaggio a livello (un treno merci fermo e troppo lungo…), si risale verso Orsara.
Le terre pugliesi d’oltralpe nel cuore della Capitanata
Incontriamo la famiglia a Orsara di Puglia, 635 metri d’altitudine, 3.229 abitanti, tra boschi dell’Appennino dauno, sul confine campano. Mentre stiamo facendo colazione sotto il porticato del ristorante (con alloggio) di Peppe Zullo, chef e sommelier, uno dei pilastri, non solo sul fronte gastronomico, della comunità. Lui, il padre, di cognome fa Miriello. E da queste parti non stona. Di nome però si chiama Ron; e già qualcosa non torna.
Lei, la madre, di cognome si chiama Agriesti. Però, ci risiamo: di nome, Marlena. Sono con il figlio Beniamino, un adolescente alto alto. Il look ha qualcosa di esotico, molto… americano. Infatti sono statunitensi, per la precisione californiani. Da queste parti per riscoprire le loro radici. Perché Ron – che ha un’azienda di graphic communication a San Diego – vanta bisnonni di Pisticci (Matera), in Basilicata. Mentre il nonno di Marlena è originario di Celle di San Vito, poco più di 297 abitanti, nella valle a fianco.
Può capitare anche questo, vagando «dentro» la Puglia. Orsara, tra i paesi arroccati quassù, è uno dei più tredy. Nel suo piccolo, ha l’aspetto e le aspettative del centro turistico: in queste sere d’estate il piccolo e fresco centro storico viene chiuso, i negozi e le trattorie restano aperte, assieme ai bar, fino a tardi. Nelle due vie del centro si pratica lo struscio. I turisti ci sono. Per giunta d’estate viene organizzata la «Rassegna di jazz d’autore di Orsara», giunta alla XVI edizione. Vanta poi la chiesa medievale dell’Angelo e il Palazzo baronale, sede nel XIII secolo dei cavalieri spagnoli di Calatrava. E c’è pure un forno a paglia che risale al 1526, tuttora funzionante: si chiama «Pane e salute» e, su prenotazione, vi si può cenare (0881/709253).
Ron s’aggira per «Pane salute» raggiante. Ha l’aspetto molto americano, ma è pure assai orgoglioso delle sue radici: parla un buon italo-americano che vorrebbe trasformare in vero italiano; ed è entusiasta di tutto ciò di pittoresco, genuino, italico che gli si para davanti, tanto che sta realizzando un libro sugli ultimi artigiani (veri) della Penisola. La moglie conosce solo qualche parola della lingua dei suoi avi e sorride. Beniamino osserva entrambi i genitori con soddisfazione e pazienza. Il giorno prima del nostro incontro erano andati a visitare Celle di San Vito, dove vivono ancora cinque famiglie Agriesti. E dove hanno incontrato il sindaco Achille Cocuzzi.
«La forza dell’Italia è la capacità di rinascere sempre», dice soddisfatto Ron. A Orsara sono giunti perché, ovvio, lui è appassionato di buona tavola. Così ha trovato il nome di Peppe Zullo sulla guida di Slow Food. E a Orsara non si può avere miglior cicerone che Peppe. Sorprese orsaresi finite? Ma no. Nel cuore di Orsara, ad esempio, c’è una chiesa protestante valdese, edificata nel 1932. «Il delegato di pubblica sicurezza Mariani, inviato…per il mantenimento dell’ordine pubblico, fu colpito con un pugno al volto da una donna, perché scambiato per dimostrante valdese». Era il 13 marzo 1914. Così racconta Maria Adelaide Rinaldi Lupi nella sua tesi di laurea in Teologia, dedicata alla storia della cittadina in cui è stata anche Pastore protestante. Quel giorno a Orsara ci furono scontri, feriti leggeri, alcuni arresti. Nulla di irreparabile: lì è stata sperimentata per molto tempo (oggi se ne valutano i buoni risultati) la possibilità di far convivere, in Italia, cattolici e protestanti. Tuttora Orsara è il cuore della comunità valdese di Puglia, dalla quale sono nate comunità minori a Foggia e Cerignola.
Oggi i valdesi di Orsara sono una quarantina, cui vanno aggiunti una ventina di simpatizzanti; a Foggia sono circa trenta, più altri trenta simpatizzanti. Tutti sotto la guida di un Pastore che si chiama Jean-Félix Kamba Nzolo: è nato in Congo trentotto anni fa, da 18 anni è in Italia, è sposato con una connazionale, ha due figli. E pensare che le prime comunità valdesi in Capitanata risalgono al Quattrocento. Vi giunsero al seguito degli Angioini. Ma nel Cinquecento furono cancellate, spesso con le cattive maniere, dal Sant’Uffizio. Finché il 13 febbraio 1900 alcuni ex emigranti orsaresi, che avevano conosciuto la chiesa protestante negli Usa, fondarono la Chiesa Valdese di Orsara. Così la comunità continua a conservare la propria confessione, la propria tradizione e la propria vivacità.
Anche il paese di Marlena, Celle di San Vito, e la vicina Faeto (799 abitanti), hanno caratteristiche curiose: hanno molto in comune con la Valle d’Aosta, perché vige il bilinguismo e si parla franco-provenzale. Per scoprirlo, dato che le montagne non collaborano, bisogna scendere fino al Troia (sorge sul luogo dell’antica Aecae, distrutta da Annibale nel 216 AC, subito dopo la battaglia di Canne, e poi ridistrutta del 1229 da Federico II; resta comunque affascinante) per risalire le montagne, tra campi di girasoli. Finché ci s’imbatte in un vecchio cartello giallo arrugginito e rovinato da una fucilata a pallini nonché dagli adesivi di un candidato alle scorse elezioni. Vi si legge «Minoranza franco provenzale dell’alta valle del Celone», con tanto di stemma angioino e cartelli bilingui: Faeto diventa «Fait», Celle di San Vito diventa «Cell di Sant Wit». A Celle, come a Faeto, le vie, per capirci, sono chiamate «Rûe». All’ingresso di Faeto si legge: «Bunvnì a Faìt, lu paìj me aut d la Puglj», «Benvenuti a Faet, il paese più alto della Puglia ». Perché? Verso la fine del secolo XIII vi giunse una colonia di provenzali, soldati mercenari di Carlo d’Angiò, reduci da Lucera dopo essersi scontrati con i Saraceni, là assediati. Da Faeto – nota anche per i suoi prosciutti – raggiungiamo, lungo una strada provinciale tortuosa e in gran parte sterrata, l’isolato ma grazioso paese di Roseto Valfortore, «città del miele e del tartufo». Anche da qui partirono molti emigranti: dopo l’Unità d’Italia tanti rosetani andarono a cercare lavoro in Nord America, a tal punto che nel 1912 negli Stati Uniti fu fondato Roseto Pennsylvania. Si risale quindi l’Appennino per ridiscendere verso il tavoliere, attraverso Alberona. Diretti proprio a Lucera, la Luceria saracenorum assediata, oltre ottocento anni fa, dagli antenati dei cellesi e dei faetani.
Lucera «tomba» dei musulmani di Sicilia Monte Sant’Angelo cuore della cristianità
Lucera domina la piana occidentale del Tavoliere. È una bella città, con 35mila abitati. Lo è sempre stata, ricca com’è di monumenti, dall’anfiteatro romano al duomo, al castello angioino. È stata pure importante. Ne sono convinti, i lucerini: sullo stemma municipale c’è un leone con la scritta «SPGL», tanto per far capire ai romani che non hanno il monopolio del più noto «SPQR» (Senatus Populusque Romanorum). D’altra parte è qui che i sanniti rinchiusero i seicento cavalieri romani avuto in ostaggio alle famigerate Forche caudine, nel 321 aC.
Eppure la circostanza storica che sollecita di più la fantasia è quella legata ad un passato di cui non resta più traccia, ma che fece attribuire alla città, in età sveva, il nome di Luceria saracenorum. Dal 1224 al 1300 è stata il più grande centro musulmano d’Italia, per volere di Federico II. Finché Carlo I e soprattutto Carlo II d’Angiò – finita l’era degli Svevi – li massacrarono, distruggendo le moschee e tutto il resto (un po’ per volere del Papa un po’ perché erano sgraditi agli importanti signori cristiani del luogo). Ancora oggi, nel sito internet della comunità islamica ligure, si legge che la moschea di Segrate (Milano), inaugurata nel 1988, «è la prima costruzione definibile dal punto di vista architettonico come moschea (con cupola e minareto) realizzata in Italia, dopo la demolizione della moschea Giami di Lucera dei Saraceni e il massacro di tutta la sua popolazione musulmana».
Quei musulmani erano stati deportati a Lucera dalla Sicilia, tra 1224 e 1246, per ordine di Federico II, che pose termine alla loro ribellione nell’isola, dove vivevano da centinaia di anni. Certo, Federico aveva trascorso l’infanzia a Palermo. I suoi insegnanti erano stati arabi, ne aveva assorbito la cultura. Però nel 1219 Girgenti era divenuta una loro roccaforte. Per l’imperatore la rivolta saracena era un atto di tradimento contro la corona non meno che una minaccia al cristianesimo.
I sopravvissuti furono deportati in Puglia: a Stornara, Girofalco o Castelluccio dei Sauri. E soprattutto a Lucera. Ben presto i musulmani lucerini diventarono fedelissimi degli Svevi, tanto da costituire la guardie del corpo reale. Versarono sangue per loro in Siria, Lombardia, Umbria, Marche, Abruzzi, Lazio. Morto Federico II, suo figlio Manfredi continuò a utilizzare i saraceni. Con gli Angioni non ebbero lo stesso feeling. Ed ebbero la peggio.
Il destino però volle che Federico II, nel 1250, morisse a una decina di chilometri dalla sua Luceria Saracenorum: nella città di Fiorentino, ora nel Comune di Torremaggiore, dove oggi ci sono tra l’altro i ruderi di un edificio religioso e, forse, di una reggia. Arrivarci è arduo: giungendo da Lucera, le rare indicazioni si vedono solo quando, di fatto, si è già fortunosamente arrivati. E, di fronte all’attaccamento dei pugliesi verso Federico II, si rimane un po’ sconcertati per lo stato di abbandono dell’antico centro: a fatica si capisce che è sull’estremo versante occidentale di una collina, detta dello Sterparone. S’intravedono qualche rovina e la colonna donata nel 2000 da Stoccarda, nell’attuale Svevia, per il 750esimo anniversario della scomparsa del sovrano. Per raggiungerla occorre risalire per almeno un chilometro una strada scoscesa, percorribile solo con un fuoristrada o a pedi. Nessun turista che non voglia emulare Indiana Jones si sogna di andarci, tanto meno sotto il sole estivo (quando piove il fango rende la scalata ancor più precaria).
Un destino segnato? Il degrado di Fiorentino iniziò già nel XIII secolo: fu distrutta nel 1255 dalle truppe del Papa Alessandro IV. Dopo il 1300, la totale rovina. Fu asportata una lastra di marmo, usata nell’altare maggiore della Cattedrale di Lucera: si dice fosse stata la mensa di Federico. Per fortuna è notizia di fine luglio il fatto che il mitico «Parco archeologico di Fiorentino» sarebbe in dirittura d’arrivo: a dieci anni dalla presentazione del progetto il Comune sarebbe in grado di appaltarne i lavori, entro agosto (420mila euro, finanziati dalla Regione Puglia). Lo scopo? «Conservazione e restauro dei manufatti esistenti riportati alla luce dagli scavi archeologici; realizzazione di impianti per la fruizione e valorizzazione del sito; costruzione di una strada di accesso, di un parcheggio, di stradine interne e dei servizi igienici». Speriamo. Da Fiorentino la strada porta a San Severo, poi corre verso il Gargano. Risaliamo i tornanti verso Rignano Garganico, a 590 metri d’altitudine: è detto. Da qui si raggiunge San Marco in Lamis, quindi San Giovanni Rotondo, sacro a Padre Pio, santo e beato, e ai credenti. Una benedizione che non ha aiutato la cittadina dal punto di vista urbanistico: la selva di alberghi costruiti ovunque, tra campi spogli e trascurati, rende il paesaggio sgradevole (la penserebbe così anche il frate di Pietrelcina, probabilmente…).
Il centro storico di San Giovanni, qualche chilometro dopo, è invece gradevole e ben tenuto: meriterebbe d’essere conosciuto di più. Da qui la strada sale verso i 796 metri di Monte Sant’Angelo, forse il più affascinante paese del Gargano. Il Santuario di San Michele Arcangelo, uno dei più antichi della cristianità, emoziona quasi da due millenni. Secondo la tradizione, nel 493 il vescovo di Siponto, Moriano, consacrò la prima chiesa, convinto che i barbari fossero stati fermati dall’apparizione dell’Arcangelo in una grotta del monte. È più probabile che il santuario sia sorto nella seconda metà del VI secolo, su una badia brasiliana più antica, per volere del ducato longobardo di Benevento. Di fatto, diventò il santuario nazionale dei Longobardi. L’unica nota stonata? Ai turisti («Quest’anno ancora meno dello scorso anno », dice Gegè Mangano, chef e patron della «Taverna de li Jalantuúmene») è imposto, nel caso indossino abiti troppo sbracciati o sgambati, di coprirsi con orribili teli dai colori improbabili. Abbiamo visto una coppia di enormi villeggianti bardati e infagottati come due mongolfiere. Siamo quasi certi che, senza teli, sarebbero stati meno «scandalosi». Da Monte Sant’Angelo si la strada torna a valle, per poi rivolgersi verso la Foresta Umbra.
Non solo mare: verde e pastori nel Gargano fuori «pacchetto»
L’acqua, quando piove, scende dal bosco, trascinando rami e terra. Qui s’incanala in un terrapieno, verso una vasca: terra e rami si fermano. L’acqua fluisce, pulita, verso una cisterna sotterranea. Lui la raccoglie, per sé e per l’abbeveratoio, usando un antico sistema idraulico: un secchio legato ad un lungo palo, con una grossa pietra fissata all’altro capo. Il signor Paolo ha superato i 67 anni e fa il pastore quassù: ha parecchie capre, quasi trecento. Il suo mezzo di trasporto normale («Questo qui il vostro fuoristrada lo frega», dice, orgoglioso) è un vecchio trattore. Poi ha una Panda, piuttosto provata, con la quale ogni tanto scende a valle. Vive in una casetta fatta di pietre, accanto all’ovile e alle cucce dei suoi due cani.
Nella casetta la luce entra solo dalla porta e per guardare, col suo permesso, bisogna prima abituare gli occhi, abbacinati dal sole, alla penombra. Di notte l’illumina con una lampada ad olio. Dentro ci sono un letto, un tavolo, un fornello, il gancio cui appendere il pentolone con cui lavora il latte per fare ricotta e cacioricotta, una credenza. Paolo sta quasi sempre quassù, ogni tanto viene trovarlo il figlio, che abita a Vieste. Ma per lui là c’è troppo caos. «È poi qui sto bene: guardo il panorama, non mi prendo mai neppure un raffreddore. Cosa mi manca?». Sorride, mentre scende dal trattore con cappellino e canottiera. Ci pare che non voglia farsi fotografare, non insistiamo. Poi se ne va, lasciandoci liberi di guardare il suo regno. Quassù. A seicento metri d’altezza, nei pressi della Foresta Umbra, con una vista mozzafiato che giunge fino a Vieste e al mare.
Quelli che stanno laggiù (i turisti e ormai pure le nuove generazioni locali) non immaginano mica che – a pochi chilometri da villaggi e spiagge – in alternativa al rito delle vacanze si celebra ancora il rito della pastorizia e della vita nella natura. Perché di solito si pensa al Gargano come sinonimo di vacanza di mare (d’altra parte tutta la Puglia subisce un po’ questo torto) mentre pochi sanno che questa montagna coperta di foreste ha una sua vita anche nell’entroterra. Quelli che lo sanno, spesso non hanno voglia di «sacrificare» un paio di giorni del proprio soggiorno per esplorare l’interno, anche se le agenzie turistiche e il Parco nazionale del Gargano promuovono, giustamente, quest’esperienza. Alcuni in bici o in auto raggiungono la vetta, servita da strade asfaltate, dove c’è un laghetto e dove ci sono gli uffici del parco, con recinti in cui vivono daini e mufloni. Sono meno, per ora, gli esploratori del mondo di Paolo e degli altri suoi rari, ormai, compagni di lavoro.
Paolo ci è stato presentato da Pinuccio Fasanella, titolare con la moglie, dell’«Agrifoglio Tour» di Peschici (0884/962721). Da alcuni anni propone, tra l’altro, il «Jeep Safari» nel Parco nazionale del Gargano. Vasto 121.118 ettari, il Parco, presieduto da GiandiegoGatta, tutela una grande varietà di habitat: dalle coste alte e rocciose ai valloni caldi, ricchi di specie rare ed endemiche di piante e animali, dalle faggete centrali alle pinete di pino d’Aleppo, con esemplari d’oltre 500 anni d’età, fino alle splendide varietà di orchidee. La fauna? Ci sono, ad esempio, i caprioli (uno dei rari nuclei autoctoni d’Italia) e varie specie di picchi. La Foresta Umbra è l’ambiente più affascinante. Malgrado le devastazioni e i dissennati disboscamenti degli ultimi tre secoli, ha conservato quasi intatto il suo maestoso e imponente patrimonio. Per alcuni il nome Umbra deriverebbe da antiche popolazioni di Umbri (tribù preistorica del ramo celto), abitanti della foresta, che facevano dannare, con le loro scorrerie, i pastori nomadi; per altri, semplicemente significa «luogo ombroso».
Peppino, con il fuoristrada, ci ha offerto l’opportunità di conoscere i segreti del parco, percorrendo i secolari tratturi, usati un tempo dai pellegrini che andavano a Monte Sant’Angelo: tra frotte di maiali semiselvatici; tracce di volpi, cinghiali, gatti selvatici, tassi, rapaci; e mandrie di vacche podaliche. Queste – sul punto di estinguersi, poi poste sotto tutela – sono più piccole di quelle ma il loro quel latte è eccezionale, tanto che Slow Food ha tra i suoi «presidi» il prelibato caciocavallo podolico (sarà dal 16 al 19 settembre a Bra, in Piemonte, in occasione di «Cheese 2005»). Le escursioni posso durare da un giorno a una settimana, con pernottamenti e tappe nelle masserie (come la Masseria Sgarrazza, risalente al 1860, dove abbiamo fatto una gradevolissima tappa). «Il promontorio è così vario che riesce sempre a stupirmi per la sua bellezza aspra e selvaggia, anche se sono nato qui. Spesso da solo, a piedi, mi avventuro in questi boschi. Un’esperienza unica», dice Peppino. Imbocchiamo il sentiero di Tacca del Lupo, tra agrifogli, macchia mediterranea e pini d’Aleppo.
Vi s’incontrano i «cutini», caratteristiche vasche realizzate in pietra per la raccolta dell’acqua piovana. Sarebbe bello se, ad esempio, il Parco trasformasse in veri rifugi le vecchie case forestali restaurate e poi mai utilizzate. È un mondo che sarebbe piaciuto a Dino Buzzati (1906-1972), lo schivo scrittore bellunese, giornalista al Corriere della Sera, che in romanzi e racconti raccontò la magia delle Dolomiti. Così per raccontare la magia delGargano meno noto, con i suoi boschi che sembrano fuggiti quaggiù dalle Alpi, prenderemo in prestito le parole che egli usò in una nota a Il segreto del bosco vecchio (1935). Scrisse Buzzati: «In certe notti serene, con la luna grande, si fa festa nei boschi. È impossibile stabilire precisamente quando, e non ci sono sintomi appariscenti che ne diano preavviso. Lo si capisce da qualcosa di speciale che in quelle occasioni c’è nell’atmosfera. Molti uomini, la maggioranza anzi, non se ne accorgono mai. Altri invece l’avvertono subito. Non c’è niente da insegnare in proposito. È questione di sensibilità: alcuni la posseggono di natura; altri non l’avranno mai, e passeranno impassibili, in quelle notti fortunate, lungo le tenebrose foreste, senza neppur sospettare ciò che là dentro succede». E nel cuore magico della Foresta Umbra finisce il nostro lungo viaggio «dentro la Puglia».
* Questo itinerario e’ stato pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno Puglia nell’ agosto 2005. Potete leggere altri scritti di Marco Brando nel suo Blog personale www.professionereporter.splinder.com
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