Corsica e Nuvole

di Pierluigi Cortesi –

On the road again – and together! Dopo un anno sabbatico (in cui A., cioè Alberto, non mi ha accompagnato in nessun viaggio di più giorni), si riforma la “strana coppia”  dei due ciclisti bracaloni-fai-da-te. Come nel 2003 con la Lunigiana, anche quest’anno, invece dei raid attraverso l’Italia o uno stato estero, si è finito con lo scegliere la soluzione dei percorsi a struttura “stellare”, cioè facendo base fissa in una località e da lì muovendoci a raggiera per esplorare i dintorni.

La scelta, per una inusitata convergenza di proposte, cade subito sulla Corsica, che A. già conosce per averla visitata nel secolo scorso (allorché, imberbe giovinetto, recòvvisi con li maggiori sui), mentre per me è una scoperta assoluta.
Per evitare i bollori agostani (ed evitar di sacrificare le ferie delle rispettive mogli), si fissa la partenza agli inizi di settembre, che promette temperature un po’ più basse e maggior ventilazione, pur se accompagnata da qualche probabile pioggia e da giornate più brevi; inoltre dovrebbero risultare ridotti il traffico, il flusso turistico e, di conseguenza, il costo degli alberghi o la difficoltà a trovare alloggio.
Non disponendo di un pedalò adeguato, dovremo raggiungere tramite traghetto Bastia e da qui, in bici, Corte, dove faremo base per le nostre escursioni giornaliere, tra le verdi valli e gli aspri poggi dell’isola, che sappiamo essere numerosi, ma non particolarmente impegnativi.

La bici pronta per la partenza

Il viaggio
Lunedì 5 Settembre

Livorno, sotto casa. Rendez-vous in garage ore 8,30.
Montaggio borse A. e caricamento bagagli.
Partenza da casa ore 9,10.
Ritorno per prendere il cellulare; affannosa ricerca, prima di realizzare che il telefonino è già nel marsupio.
Ripartenza ore 9,25.
Ritorno per prendere ganci per il bagaglio di A.
Riripartenza ore 9,30.
Stop a metà via Labriola: A. incontra un amico e lo ragguaglia sulla congiuntura planetaria con un rapido e sapido dialogo sui massimi sistemi; nell’attesa io giro in tondo con la bici in via Guerrazzi per 3,5 km complessivi.
Ririripartenza definitiva per il porto ore 9,45.
Arrivo a razzo al Terminal 2000, in tempo per vedere Moby-Come-Si-Chiama salpata da 30 secondi.
Attimi di muto smarrimento prima di capire che è una Moby che va in Sardegna.
Arrivo davanti alla “nostra”. Moby. Il controllore d’imbarco, romano de Ladispoli, a vederci arrivare trafelati e stracarichi di bagagli crede di sollevarci il morale, apostrofandoci con battute in vernacolo obbrobriosamente pseudo-livornese e per di più pronunciate con accento romanesco. Fidente e ridente come sempre, A. prende le battute come un’offesa e ci vuole del bello e del buono per rabbonirlo. Entriamo nella nave e legate le bici saliamo sul ponte. Appena in tempo: si salpa con qualche minuto di anticipo.
Rapida ispezione della nave; nonostante la chiassosa presenza di qualche decina di italioti “turisti per caso”; il tutto può andare, ma le quotazioni della Moby crollano clamorosamente, quando A. scopre che all’edicola di bordo sono sprovvisti dell’ “Unità” e che oltretutto non sono nemmeno disposti a fargliela recapitare da un semplice commando di giornalai eli-trasportati. Il fatto che io mi sia portato dietro “La Repubblica”, non gli addolcisce il boccone, anzi. Provo a offrirgliela, ma lui non riesce a digerirla e non legge oltre la testata e le manchettes, manco si trattasse del “Secolo d’Italia”; del resto è notorio che l’antico vizio della frammentazione e della contrapposizione alligna a sinistra assai più che a destra.

Pianificazione del viaggio: mostro ad A. depliants, mappe, cartine e le tabelle che in uno slancio di programmazione notturna ho preparato con Excel, in previsione di un periplo della Corsica, almeno della sua parte settentrionale. A. mi lascia sciorinare, parlare, illustrare, proporre, motivare, poi: “Ottimo, benissimo, interessante… ma che ne diresti di lasciar perdere la costa e fare l’interno?” Cosa vuol dire l’affiatamento! Bocciato il mare si decide per la montagna e con pari entusiasmo si stabilisce di puntare verso l’interno, al centro dell’ isola e così, facendo capo a Corte, percorrere tutti gli itinerari che “a raggiera” da lì conducono sui monti vicini.



Perdiamo di vista la costa toscana e dopo un paio d’ore ci lasciamo alle spalle anche Capraia. Tempo bello, mare calmo, brezza piacevole e sole che pizzica sulla pelle. Sarà certamente una bella giornata.
Infatti, con Bastia ormai in vista, la costa corsa – soprattutto in direzione Nord – è coperta da nubi spesse e scure. “Che ce frega?” Mica andiamo più verso Capo Corso, noi punteremo a Sud! Ah Ah.
Un boccone, giusto prima dello sbarco, per me, niente per A. che ha straviziato la sera prima. Siamo a terra verso le 14 e 30.
Rapida quanto infruttuosa ricerca della sede della Moby a Bastia (per rassicurarci su orari e date del ritorno a Livorno) e via verso un mitico e selvaggio Sud. Per ora di selvaggio c’è solo il traffico: in un vorticare di auto, schizofrenico e rumoroso da far impallidire anche un autista partenopeo, cerchiamo di uscire da Bastia.
Prima salita per raggiungere la zona della Cittadella, nella parte alta della città; dribblo un pullman in sosta in terza fila, schivo un furgoncino che sorpassa azzardatamene un camion dei traslochi e mi infilo tra pedoni che camminano in mezzo di strada, moto zigzaganti e auto parcheggiate di traverso; poi mi volto verso A., per vedere se ha avuto uguale fortuna. È sparito. Non riesco a scorgerlo nel brulichio generale, per cui, a malincuore, giro la bici e, stavolta a piedi, rifaccio il percorso in discesa, chiamando ogni tanto “Albertoooo!”. Lo cerco col telefonino, ma deve averlo spento. E ora? Devo sembrare un bimbo smarrito, perché un vecchietto, evidentemente buon osservatore, nonché impietosito dal mio dramma, mi indica un po’ a gesti un po’ in italo-corso un negozio sulla strada. Difatti, di lì a poco, ne esce rannuvolato A., che nemmeno lì è riuscito a trovare l’ “Unità”. Ricomposta la strana coppia, si riparte.
Saliti nella parte alta di Bastia, si ridiscende in direzione Sud, verso Montesoro in un flusso di; traffico sostenuto, ma meno caotico e più incolonnato. Quindi si entra nella nazionale N193, che si divide subito in due corsie, fiancheggiate a tratti da stradine esterne parallele. Molte auto, nel sorpassarci, ci suonano ripetutamente il clacson: forse la N193 è una superstrada vietata al traffico ciclistico? Per prudenza, comunque, ci teniamo (perfino A.!) sul lato destro della carreggiata.
A sinistra il mare è scomparso, per dar luogo a una piana occupata da coltivazioni con rade abitazioni e una cortina di alberi sullo sfondo; ai due lati della strada, invece, è tutto un susseguirsi di capannoni e costruzioni varie, indice di un’attività artigianale piuttosto intensa. I nomi delle località, delle strade, delle ditte, anche se inserite in un contesto linguistico francese, testimoniano chiaramente l’impronta della dominazione pisano-genovese dell’isola. Sullo sfondo, a destra, verdeggiano le montagne, non molto alte in questa zona, ma i paesini arroccati sulle loro pendici dànno l’impressione che le strade siano piuttosto ardue da affrontare in salita. Mi ritengo fortunato a non dover esordire in terra corsa valicando il Col de Teghime, che le guide definiscono impegnativo nonostante i suoi 530 m. “soltanto” (d’altra parte anche la salita di Volterra, che raggiunge la stessa quota, non è una bazzecola), tanto più che in quella direzione si stanno sviluppando delle nubi poco promettenti.
Un’ora dopo, a poco più di 20 km da Bastia, a Casamozza, cambiamo direzione: anziché verso Sud in direzione Aleria, pieghiamo a Ovest verso Ponte Leccia e L’Ile Rousse, rimanendo peraltro sulla N193. Strada ampia, ma meno trafficata, con qualche “mangia e bevi” a interrompere la monotonia del percorso.
L’aumento delle nuvole ha raffrescato l’aria -del resto l’andatura non è stata certo affaticante- e le possibilità di pioggia, sottolineate da brontolii sempre più frequenti e vicini, sembrano meno remote; ad ogni buon conto nella borsa anteriore ho pronte le cuffie da bagno (con cui riparare il marsupio e la borsa stessa), i guanti trasparenti COOP (per il telefonino), le buste da surgelatore (per le scarpe, in caso di pioggia forte) e naturalmente, nella borsa posteriore, la gialla mantellona cinese, già sperimentata sul Grossglockner e sul Monginevro.
Nessuna bicicletta, con o senza bagagli, da corsa o MTB, si incontra per la via; in compenso ancora qualche auto incrociandoci ci fa segno di colpi di clacson. L’unica spiegazione possibile (confortata anche da altre testimonianze successive) è che non di disapprovazione per qualche eventuale scorrettezza si tratti, ma di saluto o ammirazione nei confronti di due disgraziati curvi sui pedali e carichi di bagagli.
Le riflessioni vengono interrotte dalle prime gocce, che in pochi minuti si trasformano in un rovescio, con tanto di raffiche di vento, tuoni, lampi, grandine e pioggia a catinelle. Il vento laterale e gli spruzzi delle auto di passaggio sono contrastati con mediocre successo dalle mantelle; perciò, appena avvistiamo un bar-pub ai bordi della strada, ci rifugiamo sotto il suo porticato o meglio un incavo nella parete che ospita la porta di servizio per uno spazio di appena 2 m2, che dobbiamo dividere con le bici e due bidoni per la spazzatura, con relativo corredo di mosche. L’attesa che l’acquazzone finisca dura oltre un’ora, ma se vogliamo arrivare prima del tramonto a Corte (che dista solo una trentina di km, ma tra montagne ancora ignote per noi), non possiamo attendere troppo. On the road again, dunque; del resto la pioggerella residua si trasforma prima in un’ acquerugiola, poi in umidità diffusa, che rendono più fresca, quasi pungente, l’aria.
Lungo la strada, che scorre parallela al fiume Golo, si notano i segni del nubifragio: pozze, fiumi di fango, fronde e rami sull’asfalto, piccole frane. Sorpassiamo una lunga colonna di auto a passo d’uomo, in testa alla quale membri della polizia stradale e dell’equivalente del nostro ANAS fanno del loro meglio per liberare il traffico da uno smottamento di terra. Il temporale non è ancora terminato, si può dire, e già si sta efficientemente provvedendo a rimediarne i danni; il confronto con l’Italia, le sue lentezze e burocrazie è inevitabile: non è la Corsica o la Francia a rendersi differente da noi, ma l’Italia ad essere sempre più lontana dall’Europa; è risaputo che noi Italiani, me compreso, siamo esterofili e ipercritici nei confronti del nostro Paese, (a patto di non cambiare gattopardescamente nulla in concreto, s’intende), ma che qualche ciuffo d’erba nel giardino del vicino sia più verde che nel nostro, è una verità incontestabile che dovrebbe indurci a pretendere un po’ di più dal nostro giardiniere di turno.
La N193 prosegue, forse con qualche restringimento e salita in più, pur mantenendosi sempre pedalabilissima; in A. la stanchezza (dovuta alla mancanza di allenamento, alla limitata alimentazione e soprattutto all’età avanzata: in fondo ha solo due anni meno di me) comincia in qualche modo ad affiorare, ma soprattutto comincia ad affiorare il timore di impiegare più tempo del previsto per raggiungere Corte; il sole è scomparso dietro ai monti e ci chiediamo se non sarebbe cosa ragionevole, originale e tutt’altro che disdicevole per l’etica ciclistica, imbarcarci con le bici sul caratteristico trenino di due vagoni, a scartamento ridotto, che collega Bastia con Corte. Consideriamo la possibilità, la giudichiamo assennata, ci diciamo “Beh, vediamo…” “Fra un po’, magari…”, ma poi non ne facciamo di nulla.
A Ponte Leccia, piccolo centro noto soprattutto per il suo antico ponte costruito dai Genovesi, altro cambio di direzione, nuovamente verso Sud. Il cielo è ancora chiaro, ma la sera si avvicina; dovremmo accelerare il passo, però A. ha raggiunto il limite delle sue risorse e la velocità media si abbassa a 20 km/h circa. Oltretutto, la strada, nonostante qualche tratto in discesa, prende a salire. Decidiamo di andare ciascuno secondo il passo che le proprie gambe consentono: io che tutto sommato mi sento in forze (in fondo ho pedalato per una cinquantina circa di Km, meno lungo e meno duro di uno dei soliti giri vicino a Livorno) e stimolato dal fresco serale, faccio uno o due km alla mia andatura, poi torno indietro alle spalle di A. e lo raggiungo e così di seguito. Oppure mi fermo presso qualche albero di fichi o cespuglio di more a reintegrare le calorie consumate.
Gli ultimi km sono uno stillicidio: le energie di A. hanno ormai raggiunto la zona rossa e non riesce ad andare oltre i 10 km/h, anche perché ora la strada presenta salite più lunghe e pronunciate. Sulla mia cartina mi sembra di intravedere dei paesini lungo la N193, Caporalinu, Soveria, Bistugliu; forse ci sarà la possibilità di fermarsi lì a passare la notte. D’accordo con A., parto in avanscoperta, con la consegna di tornare indietro solo se avrò trovato qualcosa; l’impresa ha un che di mitico (che so? Eurialo e Niso, o le vele nere di Egeo), ma bastano poche centinaia di pedalate a riportarmi per terra: il buio ormai incombente e l’approssimazione della cartina mi hanno tratto in inganno; si tratta di centri abitati posti fra i poggi che costeggiano la strada, ma a distanza di qualche km , in salita oltretutto, e comunque troppo piccoli, per sperare di trovarvi alloggio.
Finalmente su un valico, presso il colle di San Quilico, trovo una stazione di servizio: entro trafelato e al gestore chiedo; sì, hanno una stanza a due letti a una trentina di euro; quasi quasi la fisso subito, poi, mentre il gestore va a preparare la camera, chiedo qualche minuto di tempo e ritorno indietro alla ricerca di A., pedalando a tutta velocità. Lo trovo a solo un km distanza (si vede che quando io sono lontano riesce ad andare più veloce) e, quando raggiungiamo la stazione di servizio, vediamo nella vallata sottostante, davanti a noi, le luci di Corte. Si discute perciò se, per un paio di km, oltretutto in discesa, vale la pena fermarci su un poggio fuori città (altrimenti la nostra intensa vita notturna, vuoi mettere?) e si decide perciò di proseguire per Corte. Nel passare davanti alla stazione, dove probabilmente il gestore è fuori dalla porta per capire che fine ho fatto, mi faccio piccino piccino e sfreccio via per non farmi vedere, ma col buio che fa non ce n’è bisogno.
Raggiungiamo Corte in pochi minuti e ci sentiamo in salvo ed euforici, ma al primo albergo abbiamo la sorpresa di sentirci rispondere che è tutto completo: in effetti è appena scesa da un pullman una marea di turisti stranamente abbigliati (shorts, maglietta, ciabatte). Domandiamo ad un bar; ci indicano due hotel: H. de la Poste e H de la Paix: completo anche lì. Ci facciamo dare l’elenco completo di tutti gli alberghi di Corte e iniziamo la Via Crucis: nella maggior parte non c’è nemmeno bisogno di chiedere: all’ingresso è attaccato il cartello “Complet”. Domando da cosa dipenda questo incredibile afflusso di turisti; un negoziante, un po’ imbarazzato, mi spiega che quando piove i campeggiatori dei numerosi camping della zona si rifugiano negli alberghi cittadini grazie a una serie di pullman messi a disposizione dai camping stessi, per poi tornare al camping, appena il tempo migliora. L’euforia dell’arrivo a Corte è ormai svanita. Ci resta un ultimo tentativo, ma l’hotel si trova un po’ fuori città, molto più in basso rispetto al centro, per cui se la nostra ricerca non avrà successo dovremo rifare tutto il percorso verso la stazione di servizio, superando un dislivello ancora maggiore; e ci viene il dubbio se non sia meglio dirigersi subito verso la stazione di servizio. Poi si decide di tentare ugualmente la sorte. Raggiungiamo finalmente l’albergo, lo Cher Hotel.
Ci è andata bene: c’è rimasta una camera, o meglio una suite con un matrimoniale e due letti singoli, ma ce la daranno al prezzo di una doppia: 49 € + 5 € per la colazione. Inoltre l’albergo offre anche la possibilità di un pasto a menù unico, purché non si arrivi troppo tardi; di sicuro – ci diciamo – ci sarà la famosa soupe d’oignons. Respiro di sollievo, acquolina in bocca e affare fatto Dopo una rapida doccia (io 5’ e A. 45’) si va a cena. Per fortuna ci hanno aspettato. L’unico problema è che, a parte il dessert, la cena è tutta a base di carne: il primo è costituita da una zuppiera colma in cui una ventina di maccheroni sono annegati in due kg di ragù, il secondo da due vassoi di specialità corse: affettati di tipo diverso tutti accomunati dalla caratteristica della “solidità” a prova di molare. Siamo vegetariani, è vero, ma la sopravvivenza è sopravvivenza: dopo aver pronunciato una gesuitica prece animalista (“caro maiale, mors tua, vita mea e poi te sei già morto, mica ti s’è ammazzato noi…”), ci abbuffiamo, facendo il pieno di proteine animali e di vino.
Dopocena digestivo, con passeggiata di 2 km in salita fino alla cittadella di Corte. Le parti si sono invertite: io, appesantito anche dal vino, ho le gambe di legno e arranco con passo così rigido e malfermo che sembro Pinocchio, A. saltella allegro e pimpante che pare il Grillo Parlante.
Al ritorno in camera, però, si infila subito a letto e “Buona N… Ronf, Ronf, Ronf”, mentre io mi siedo a tavolino per riordinare fogli, carte e cartine, nonché stendere appunti sulle vicende quotidiane.
Mi ridesta alle 3 di notte un gran mal di collo: senza accorgermene mi sono addormentato a sedere con la penna in mano.

Martedì 6 Settembre

Ore 8 risveglio penoso: testa ronzante, occhio velato e membra impastate; la cosa migliore è precipitarsi a prendersi un caffè e fare una robusta colazione. La colazione è, in effetti, robusta, non particolarmente varia, ma abbondante (anche perché ci siamo piazzati “casualmente” al tavolo proprio accanto al buffet); il caffè, invece, è la prevedibilissima brodaglia scura che all’estero spacciano per caffè, ma è bollente e un po’ di caffeina deve pur contenerla, perché quando, dopo un’ora, ci alziamo da tavola, mi sento pronto ad affrontare le asperità della giornata. Ai tavoli vicino al nostro ci sono poche persone (sono le 9; è troppo presto?), ma improvvisamente la sala si rianima: un gruppo di sette-otto ciclisti attempati, con lardo straripante e mogli ciarliere al seguito, si mette a fare colazione, ma se la sbrigano in una mezz’oretta (devono essere dei principianti), dopodichè alla spicciolata inforcano le bici e si preparano alla partenza, mentre la componente femminile del gruppo sale su un paio di pulmini, per raggiungerli al picnic con i bagagli (almeno un paio di valigie a testa), i fagotti della merenda e le seggioline a sdraio da scampagnata aziendale. Io e A., veri, spartani, cultori del pedale, ci guardiamo negli occhi e sorridiamo con benevola commiserazione di tanta rilassatezza di costumi da basso impero.
Rapidamente, verso le 10 e 15 appena, siamo pronti anche noi: le bici alleggerite di gran parte dei bagagli schizzano verso il bivio per Venaco, paesino tra i monti, segnalato a 600 m., e per Vivario (640 m.), dove la strada si biforca verso Ovest per Ajaccio o verso Sud per Portovecchio. Ma noi lasceremo ad un’altra vacanza ciclistica queste mete, troppo lontane da raggiungere nel tempo che abbiamo a disposizione e incompatibili con i percorsi a raggiera che ci siamo prefissati quest’anno. Chiedo ad A. di pianificare percorso, kilometraggio e tempi, ma mi risponde che è meglio andare secondo quanto le gambe ci suggeriscono volta per volta. Indicativamente, perciò, da Vivario potremmo tornare indietro: saranno una cinquantina di km in tutto, però fra le montagne; anche se sulla carta il dislivello tra Corte e questi paesini supera appena i 200 m., sappiamo benissimo, per esperienza consolidata come questi dati siano ingannevoli e, dietro i continui saliscendi, nascondano spesso dislivelli assai maggiori e impegnativi. Se mai, avendone il tempo e la voglia, il pomeriggio potremo salire lungo le celebri Gorges de la Restonica.
La salita si rivela subito onestamente faticosa, ma la giornata è inondata di sole, il traffico moderato e il paesaggio vario; si sale senza fretta avendo modo di osservare l’ambiente: nonostante già lo sapessimo, è stupefacente constatare la varietà della flora: annegate nel verde, in mezzo ai rovi o sotto un fico o all’ombra di un pino, si alternano piante di croco, orchidee, cisto, felci e mille altre che io non conosco, ma che ad A. risultano familiari, tanto che le saluta una per una chiamandole per nome. Anche per questo procediamo lentamente, ma è un’ esperienza di slow-bike tutt’altro che sgradevole anche per uno come me che ama la velocità, la fatica bruta, le lunghe distanze e la gara col tempo. D’altra parte l’annosa esperienza di cicloviaggi con A. mi ha ormai vaccinato nei confronti delle crisi d’ansia dovute alle sue proverbiali duemila telefonate quotidiane, ai diecimila scatti fotografici (di immagini o video che poi non riuscirò mai a vedere) o alle semplici contemplazioni estatiche di una fila di formiche o delle rughe di un tronco. Anzi sono io che scorgo nell’originale profilo dei rilievi vicino a Venaco la somiglianza con la testa coricata di un pellerossa e mi soffermo a fotografarla e a indicarla ad Alberto, facendone nascere una lunga dissertazione sulle geometrie “inventate” dalla natura.

La bici pronta per la partenza

Raggiungiamo S. Pietro in Venaco a 723 m. (non risultavano sulla cartina!) e, col Colle Bella Granajo, termina la salita e per un km si procede in pari. Qui la vegetazione è ancor più incredibile: in un Eden verde, reso ancor più vivace dagli spruzzi delle numerose cascatelle, si mescolano il fico al castagno, il noce al melo, le more alle felci, e. ignorando evidentemente quei limiti di altitudine, di esposizione, di umidità, che da noi condizionano abitualmente gli insediamenti di queste piante, sembrano voler mandare agli umani un messaggio di coesistenza e di tolleranza dall’interno del regno vegetale.
Di colpo la strada discende ripida a mozzafiato, fino a Venaco, poi fino al ponte sul fiume Vecchiu; quindi da lì risale nuovamente fino a Vivario. Ci spingiamo sul colle sovrastante il paesino, a 800 m, punto di confluenza di crinali diversi; da qui si gode un ampio panorama sulle gole e le vallate sottostanti, tra le quali si snoda la ferrovia Corte-Ajaccio, entrando ed uscendo continuamente in stretti tunnel. Durante una pausa contemplativa (eufemismo che sta a indicare una sosta per riprendere fiato), A. attacca discorso con una fiorentina che ha abitato a Livorno (naturalmente A. individua delle conoscenze comuni) e ora vive a Montespertoli. Durante la chiacchierata, il bimbo di 2-3 anni le demolisce sistematicamente l’auto, ballando sul cofano, saltando sul tettuccio, esercitandosi al tiro alla fune con l’antenna, ma lei, da montessoriana convinta, lascia fare. Al momento dei saluti lei e A. si scambiano i numeri dei cellulari (io no, perché non ricordo il mio, figuriamoci quelli degli altri) ed infine al momento del commiato riceviamo in dono una sorta di calzone fritto a base di zucca; viatico molto gradito, anche perché si avvicina l’ora del pranzo e la colazione del mattino è ormai solo un lontano ricordo.
Consultazione della cartina e delibera sul da farsi: abbiamo percorso 22 km in quasi un’ora e mezzo e siamo ragionevolmente in forze; anziché tornare per la stessa strada, considerando anche la lunga e soprattutto dura salita che ci attenderebbe fino al Col Bella Granajo, potremmo trasformare il percorso da lineare ad anello: basta superare un colle vicino, scendere a Ghisoni, pranzare e, dopo le spettacolari gole dell’ Inzecca, risalirefino a Vezzani e da lì ridiscendere fino alla N200, la Aleria-Corte. Si allungherebbe la strada di qualche km, ma si eviterebbero salite dure e la noia di tratti già percorsi. A. acconsente e al primo bivio lasciamo la strada diretta ad Ajaccio per prendere a sinistra verso il Col de la Sorba.
Il primo tratto sale, ma in misura tale da darci modo di far della facile ironia sul nome del colle e di guardare il paesaggio, con l’ampia vallata sottostante dominata da alte conifere; poi la strada, già stretta, si restringe ulteriormente, fino a diventare poco più di una mulattiera, in cui due macchine si incrocerebbero a fatica. Anche il paesaggio si fa più impervio, il sole sparisce dietro una fitta coltre di nubi e la temperatura scende bruscamente, anche perché si leva un vento capace di dissipare fin troppo facilmente il calore prodotto dalle nostre schiene curve. Breve sosta per infilarsi qualcosa di impermeabile: prima impalpabile, poi sottile, infine più consistente e decisa, inizia a cadere una pioggerella gelida. Il burbanzoso A. parla sempre meno; trova comunque il modo di commuoversi alla vista di alcuni asfodeli tenerelli ai margini della strada. Io accelero un po’ per riscaldarmi (anche stavolta mi sono dimenticato di portare qualcosa più della solita canottiera) e, aspettando di essere raggiunto da A., esamino a fondo la cartina, scoprendo solo ora che il tanto irriso Col de la Sorba oltrepassa i 1300 m. WOW! La solita euforia che mi prende ogni volta che supero quota 1000, mi mette allegria e m’infonde nuova energia, nonostante che, dal punto in cui mi trovo, il passo si intraveda, o meglio si intuisca, ancora più in alto e soprattutto coperto da nebbia e sovrastato da nubi livide e tuonanti.
Finalmente, dopo quasi 10 km di salita in oltre 3/4 d’ora per superare 700 m. di dislivello (ovvero 900 m. per 13 km e in 1 ora e 1/4), la cima è raggiunta. La soddisfazione è tanta, ma la visibilità poca a causa della pioggia fitta e sottile, ma soprattutto della nebbia, che impedisce di vedere oltre qualche metro.
Sostare lì al freddo è impossibile, perciò decidiamo di ripartire poco dopo, dopo aver acceso le luci (si fa per dire!). La strada in discesa presenta le stesse caratteristiche di ripidezza e tortuosità della salita, ma la percorriamo a velocità ridottissima a causa del fondo viscido e inaffidabile per la presenza di foglie e detriti, oltre all’ acqua. Ogni tanto, poi, devo fermarmi per coprirmi meglio con la mantella e perché le dita semicongelate hanno perso sensibilità e mi creano dei problemi nel frenare. Impietositi due forestali sulla loro camionetta mi danno strada. Solo sul finire della discesa il ritorno del sole e la quota più bassa restituiscono un po’ di tepore, la strada si asciuga e il percorso si normalizza. Ma siamo ormai arrivati a Ghisoni. Davanti al primo –e unico- ristorante del posto impieghiamo cinque minuti per legare accuratamente le bici e uno per sentirci dire che per pranzare è troppo tardi (in effetti a guardare l’orologio mi accorgo che sono le 15,30). Perciò niente da fare e via di nuovo.
La camionetta della forestale ci sorpassa. La strada è ora abbastanza larga e scende, ma procede abbastanza diritta e senza eccessiva pendenza, costeggiando il fiume Orbu, incassato nel Defilé de Strette prima e in quello de l’Inzecca, poi. Il paesaggio è nuovamente cambiato: sono sparite le conifere, sostituite da rade latifoglie e, sorprendentemente, nonostante la quota non sia poi così bassa, da macchia di tipo mediterraneo. Infatti riesco ad integrare con fichi e more le barrette energetiche e le banane liofilizzate che mi sono portato dietro e a risolvere in qualche modo il languore da stomaco semivuoto. La parte più bassa della gola, fino al letto del fiume biancheggiante di massi, è prevalentemente rocciosa, a tratti quasi spoglia. Presso un’ansa del fiume ci fermiamo incuriositi vicino ai resti rugginosi e disarticolati di un paranco, o forse una pompa, e scendiamo ad esaminarli; poi, più che l’onor potè il digiuno: io per una reale astinenza da cibo, A., per una immaginaria astinenza da bagni di mare, entrambi dimentichi di ogni decoro ci gettiamo rispettivamente l’uno in un cespuglio di more succulente e l’altro in una pozza d’acqua verde smeraldo e limpidissima.
Appena A. è uscito, asciugato e rivestito, ripartiamo. Mi preoccupa però il tempo, non quello meteo –o non tanto quello- ma piuttosto il fatto che sono quasi le 17 e siamo ancora lontani: è chiaro a questo punto che siamo stati incauti a non programmare prima le tappe e i tempi e quindi rischiamo di arrivare più tardi del previsto.
Durante la sosta ho individuato sulla carta una possibile alternativa che permetterebbe di accorciare il ritorno di una ventina di km. Ne parlo con A. e, appena raggiunto il bivio a 200 m. slm, tagliamo per il colle Bocca di Cardu (che sul momento, in assenza di segnaletica battezziamo “Col des Bracalones”); questo, dopo una salita iniziale abbastanza modesta ci permette di raggiungere la strada che porta fino a Vezzani, sugli 800 m.
Il percorso è duro e A. accusa ormai apertamente la stanchezza e, anche se non vuole ammetterlo, il digiuno. Per non raffreddare i muscoli, ripeto la tattica della sera precedente e procedo avanti-indietro “a organetto”. Ma anch’io comincio a perdere i colpi: all’imbrunire, interpretando male un cartello ad un bivio dopo Vezzani, conduco A. in una discesa rompicollo in direzione di Aleria, anziché di Corte. Sono quasi 4 i km fatti per errore, ma gli altri 4 per risalire indietro sono pesanti e bruciano le poche riserve d’energia di A. Anche se ci aspettano 13 km di discesa praticamente ininterrotta, non sono sufficienti a ripristinare le sue forze.
Raggiunta, finalmente la N200 che in una quindicina di km ci porterà all’albergo, si procede quasi a passo d’uomo; anzi a metà strada, quando pedalare è diventato una vera e propria sofferenza, oltretutto poco produttiva, A. scende dalla bici e facciamo uno o due km a piedi, nel buio che è ormai calato definitivamente, stando ben attenti a non farci investire dalle auto che sfrecciano, mentre tuoni, lampi e qualche goccia minacciano di rincarare la dose.
L’ingresso a Corte non è quello di due Cesari trionfanti, ma di due milites ingloriosi scampati a una disfatta sanguinosa, tanto che, anziché imboccare la strada giusta, tiriamo diritto per il centro, salendo fino alla cittadella e aggiungendo altri km a quelli già fatti. Al termine della giornata risulterà un totale di oltre 110 km con 6 ore e 1/4 di pedalate e quasi 2200 m di salite.
Doccia, prima A. poi io, come da tradizione; quando esco lo trovo sdraiato sul letto, già vestito, ma anche già addormentato. Sono quasi le 10 di sera quando finalmente scendiamo per la cena. Dopo rapida indagine, scoperto che il menù è il medesimo della sera precedente, solo con gli insaccati un po’ più stagionati, decidiamo di cenare a Corte e di puntare a una calda, brodosa, saporita, fumante soupe d’oignons. Data l’ora propongo ad A. di raggiungere il centro in bici, per fare prima, ma lui mi guarda torvo e non favella. Arrivati in piazza Pasquale Paoli sotto uno stillicidio di gocce, ci dirigiamo verso l’unico ristorante ancora aperto o in cui il personale non stia già smobilitando e chiediamo la nostra zuppa di cipolle. Ci guardano un po’ male, come se avessimo chiesto salsicce e rostinciana a Teheran e propongono il menu fisso del giorno: per 16 € ci promette una zuppa alla corsa (ci va benone anche quella), un fiadone (una sorta di calzone fritto, con formaggio di capra) del formaggio e un dolce locale, a cui facciamo aggiungere un mezzo litro di vino. La zuppa è veramente buona, perciò, quando l’abbiamo terminata, chiediamo (cioè A. chiede con alate parole, io mi limito ad annuire con sapienti cenni del capo) se è possibile averne un altro po’, magari al posto del formaggio. Dopo aver nicchiato un po’, la ragazza addetta al nostro tavolo – l’unico ormai in cui ci siano degli avventori – ci dice che la sostituzione non è possibile, ma, se vogliamo, ci può portare quello che è rimasto della zuppa. Così è; facciamo fuori anche il formaggio, che si rivela migliore delle previsioni, e infine i dolci corsi. Secondo le più collaudate tecniche di slow-food, A. riesce a tirare tardi fino quasi a mezzanotte e solo quando vediamo la ragazza e gli altri camerieri crollare di sonno, chi appoggiato a uno stipite, chi ciondoloni su una sedia, ci decidiamo a chiedere il conto, che però si rivela quasi doppio rispetto ai 32 € preventivati: il bis delle zuppe ci è costato quasi quanto l’intera cena: probabilmente avranno voluto farci pagare così le ore di straordinario. Ma c’è poco da recriminare: abbiamo cenato, tutto sommato, piuttosto bene, abbondantemente e fuori orario. Non ci resta che scendere all’albergo e goderci un meritatissimo riposo dopo una giornata campale e prima di un’altra, probabilmente, non meno impegnativa.
Ho il timore di non riuscire a prendere sonno per la mancanza di un libro da leggere. Mai preoccupazione si rivelerà più infondata.

Mercoledì 7 Settembre

La mattina si apre con l’aurora dalle dita di rosa che fruga nella camera semibuia da dietro le persiane. In realtà l’alba è lontana di qualche ora: sono le 8 passate e fuori splende un bel sole; finalmente, dopo due giorni di tempo brutto o incerto.
Ci fiondiamo a colazione, dopo aver stabilito di affrettarci per non sprecare minuti preziosi e in meno di tre ore siamo pronti ai nastri di partenza. Tra il gargarozzo e l’osso sacro siamo riusciti a stipare quante più cibarie possibili; per soprammercato, poi, nel marsupio ho infilato un paio di mini-panini che strabuzzano marmellata.
Per oggi è prevista la salita al Col de Vergio, altezza 1477 m., quasi come il passo dell’Abetone, ma sicuramente più gentile, almeno stando a quanto sono riuscito a decifrare da una carta al 25.000 appesa su una parete dell’albergo. Ad ogni modo l’esperienza mi ha insegnato a diffidare del presunto facile; quindi dalla prima pedalata mi riprometto di non forzare e di tenere un’andatura moderata e costante.
Dopo un paio di km, oltrepassata Corte siamo al bivio per Calacuccia-Col de Vergio. La salita si impenna subito e bruscamente, ma riesco a tener fede ai miei buoni propositi e senza fiatone mi accingo a scalare il primo colle, Bocca d’Ominanda. Il panorama è diverso da quello dei giorni precedenti: le colline alte, ma non aspre, assolate, con pochi alberi e vegetazione di tipo mediterraneo, ricordano un po’ la Lucania o la Sicilia: fichi d’india ancora acerbi costeggiano la strada, ma sono soprattutto i fichi e le more a catturare un’attenzione più che interessata. Preferisco accelerare con piccoli stacchi ogni 500-1000 m. e fare incetta di frutti, finché A. non mi raggiunge.
Così svolazzando di fico in fico, si raggiunge il passo a quota 654 m.; subito dopo la strada si getta in una discesa che a prima vista pare ripidissima e incute timore, in vista della risalita da affrontare al ritorno. Dopo 7 km la discesa si arresta; siamo a Ponte Castirla, oltre 300 m. più in basso. Qui inizia la lunga lenta salita che porterà a Calacuccia e da qui al Col de Vergio.
La strada asfaltata, ma stretta e piena di curve, si snoda seguendo a mezza costa il Golo, il quale più che un fiume sembra un torrentello, incassato quasi soffocato tra pareti calcaree sempre più strette e ripide. Ancora una volta il paesaggio è mutato: domina il bianco delle rocce che fiancheggiano la strada o che costituiscono il letto del fiume, anche il “tetto” di questo singolare ambiente è bianco: il cielo si è prima velato, poi coperto di nuvole e, tanto per cambiare, promette un “brindisi” sulle nostre teste. Il muro di roccia a destra offre varie cavità e anfratti in cui potersi riparare se il tempo volge al peggio; ma per fortuna, a parte qualche goccia sparsa, non accade nulla..
Poche centinaia di metri prima di Calacuccia si avvista la barriera artificiale di una diga che raccoglie le acque di un lago artificiale; ma, come mi dice anche A., non vale la pena visitarlo. Piuttosto, azzardo io, si potrebbe cercare un posto dove mangiare un boccone a Calacuccia. Intanto mi avvio in avanscoperta, mentre A. se la prende con calma.

La bici pronta per la partenza

Raggiungo Calacuccia, senza riuscire a individuare una piazza o comunque il centro, dove fermarci. Mi attardo in una stradina laterale e poi, ritornato sulla via principale, mi metto ad aspettare A. subito fuori dal paese. trascorrono uno, due, cinque minuti; mi siedo. Passano altri minuti, ma A. non si vede. Mi sorge il dubbio che mi abbia superato in un momento di distrazione e che quindi sia davanti a me di un quarto d’ora o mezzora.
Mi getto a capofitto all’inseguimento; poi prevale la razionalità: non può avermi oltrepassato e poi mi avrebbe aspettato ai margini del paese; meglio chiamarlo al cellulare. Non risponde. Provo col suo secondo numero. Non risponde nemmeno a questo. Gli mando un paio di accorati messaggi stile “Cuori infranti”, zeppi di Dove sei? Fatti vivo! Ti aspetto… e intanto mi arrovello in calcoli mentali degni del sadismo di quei problemi che parlavano di vasche da bagno con rubinetti che gocciolavano e scarichi che perdevano: Se lui mi precede di 20’ e va a una velocità (teoricamente) costante di 15 km/h, dopo quanti km e quanto tempo lo potrò raggiungere, se tengo una media di 28 km/h per i primi 7 km più pianeggianti e di 22 nei successivi? Il calcolo sarebbe stato arduo disponendo di penna, carta e calcolatrice e comodamente seduto alla scrivania, figuriamoci in piedi stanco e sudato, lì sul bordo di una strada.
Fatto sta che, a metà di una divisione a sei cifre, me lo vedo sbucare con la sua tranquilla andatura caracollante: all’ultimo momento aveva deciso di fare una deviazione alla diga per vedere com’era (o non aveva detto che non valeva la pena)?
Si riparte, ma la diversa andatura e –diciamo la verità- la presenza di un’altra serie di fichi e di viti di uva fragola sul bordo della strada (ormai, persa la speranza di pasti regolari a metà giornata, sto sperimentando corsi accelerati di sopravvivenza) mi fanno procedere a stantuffo, specialmente quando la strada prende a salire in modo più deciso. Raggiungo una coppia di francesi in bici e li affianco con la speranza di fare assieme un tratto di strada a normale velocità. Sono i primi cicloturisti che incontro in Corsica, viaggiano su due mountain bike; lo strano è che quella più carica è quella della ragazza, che perciò va a velocità inferiore a quella del compagno, con la conseguenza che anche la loro è un’andatura a elastico; inoltre sono molto silenziosi; perciò alla loro prima sosta li lascio per procedere oltre per conto mio e al mio passo. All’improvviso, da un vicino recinto sbucano fuori due o tre maialini che si mettono tranquillamente a grufolare sul bordo della strada, talora attraversandola per gioco. Mentre aspetto A., mi metto a conversare con uno di loro, che incuriosito dai miei grugniti mi si avvicina e mi risponde. Non so esattamente cosa gli ho detto in maialese, ma lo vedo particolarmente interessato. Per non deludere la sua attesa, tiro fuori dalla borsa l’ultimo grappolo di uva fragola e ce lo dividiamo fraternamente. Quando è finito, mi rivolge un grugnito di ringraziamento o di saluto, non capisco bene, (eh, l’importanza di conoscere le lingue) e poi trotterella via, proprio mentre sopraggiunge A.
Raggiungiamo uno spiazzo aperto, dal quale fra gli alberi scorgiamo la valle del Golo e le montagne boscose che la delimitano, ombreggiandola con le loro cime, tutte superiori ai 1000 m. Anche noi dovremmo essere a quell’altitudine, come suggeriscono anche la vegetazione di abeti o betulle e l’aria più frizzantina.
Ancora pochi km, i più duri, e abbiamo raggiunto il passo del Col de Vergio a 1477 m. dopo 49 km di salita, peraltro pedalabilissima.
Ci godiamo il meritato riposo con una pausa atletica ed estetica: dopo il passo la strada scende ripida verso il Desert des Agriates e L’Ile Rousse ed il panorama è davvero notevole, come pure quello retrospettivo sulla strada già percorsa. Mentre A. esplora qua e là alla ricerca di non so quale fiore raro (asfodelo? arnica? orchidea?), io passeggio sul pianoro e attacco discorso con una coppia di cicloturisti, ceki stavolta, che si sono imbarcati come noi da Livorno e ora si stanno facendo il giro della Corsica. La chiacchierata si protrae per una decina di minuti, poi appena loro ripartono, il vento che soffia costante e insolitamente fresco, il sole velato e lo stomaco nuovamente vuoto mi convincono a sedermi al riparo di un tabellone su una zolla erbosa; solo che la zolla erbosa è costituita da un cespuglio spinoso, fornito di aculei piccoli piccoli, ma puntuti puntuti, che non si limitano a traforare delicatamente il fondo dei calzoncini, ma, oltrepassata l’imbottitura, nell’arco di tre millesimi di secondo mi lasciano un grazioso souvenir, in una parte che in genere non si suole esibire al mondo.
La discesa sarebbe piacevolissima, se non fosse per il freddo piuttosto intenso; la vallata è ormai completamente in ombra ed il vento, sommato alla velocità della bici, provoca irrefrenabili brividi di freddo, che rendono precari la frenata e il controllo della bicicletta in curva, mentre le unghie delle dita si colorano di un viola delicato. Mi fermo per indossare la mantella, ma nonostante gli sforzi per farla aderire al corpo, questa non cessa di sventolare e lascia insinuare raffiche gelide a contatto con la pelle. Mi fermo più volte, poi provo a pedalare frenando contemporaneamente e in effetti il freddo diminuisce; d’altra parte dopo Calacuccia l’altitudine è scesa sotto i 500 m e il sole ha ripreso a illuminare la stretta vallata del Golo: in una pozza del fiume, addirittura, due ragazzi senza costume fanno il bagno.
Dopo un lungo duello con una Mercedes, che riesce a passare solo quando le curve si fanno più rade, si arriva a Ponte Castirla, dove ci concediamo una mezz’ora di sosta sdraiati sulla spalletta del ponte. Alla fontana rifornimento d’acqua, ma è marroncina e maleodorante.
I 7 km di risalita sul colle d’Ominanda sono meno gravosi di quello che sembravano durante la discesa del mattino e in mezz’ora il passo è superato; ora restano solo gli ultimi km di discesa verso Corte, ma non ci saranno più salite. La giornata ciclistica è praticamente conclusa, per oggi con 106 km pedalati in 5 h e 30’ alla media di circa 20 km/h.
Mentre aspetto A. che si è fermato a esaminare qualche sventurato animale o pianta, inganno il tempo mangiando more e tracciando dentro di me il bilancio complessivo della giornata; il resoconto si rivela subito altamente positivo: nonostante il percorso impegnativo, non siamo particolarmente stanchi – A. non si lamenta nemmeno, anzi è di buon umore – il percorso è stato piacevole, il paesaggio, al solito, vario e attraente, nonché generoso in more, uva e fichi (almeno per me, visto che A. non ha toccato cibo per tutto il giorno) ed infine il cielo si è mantenuto sereno… il tempo appena di dirlo ed ecco che da un nuvolone isolato cadono le prime gocce; ma sono avvisaglie che per una volta non si concretizzano in pioggia vera e propria.
Raggiungiamo tranquillamente l’albergo e, dopo esserci lavati e rivestiti con gli abiti della domenica scendiamo per la cena, addirittura in anticipo, per una volta. Anche se la speranza della mitica zuppa di cipolle si è ormai affievolita, abbiamo deciso di cenare in albergo: non è pensabile che per tre sere di seguito servano lo stesso menu a base di solette da scarpe camuffate da insaccati. La previsione si rivela giusta solo per metà: niente salumi, ma anche niente cena; il mercoledì sera il cuoco è di riposo. Perciò fuori di nuovo e via a Corte. Snobbiamo senza esitazioni il ristorante della sera precedente e poco lontano ne troviamo uno che mantiene realmente la duplice promessa dei prezzi contenuti e del cibo saporito, tra cui l’immancabile zuppa corsa. Il vino non è male, ma in pratica lo bevo tutto io, poiché A. non si sente in vena di libagioni. Che covi qualcosa? Non ha nemmeno fatto le solite 150 telefonate…
Tornati in camera ho appena il tempo di cucire alla meglio gli strappi fatti dai pruni sui pantaloncini, prima di crollare nel sonno.

Giovedì 8 Settembre

Mi sveglio con la sensazione di aver dormito come un sasso, nonostante il caldo, con l’unica vaga sensazione di qualcuno che nottetempo abbia rovistato in un armadio. In effetti, volgendomi verso A., lo vedo rintanato sotto quattro coperte. Anche a tavola, anziché sbafare pane e brioches, burro e marmellata, muesli e caffellatte, si limita a qualche sobrio boccone e a un po’ di succo di frutta. Per evitare che l’intera troupe cuciniera dell’albergo ne rimanga turbata, cerco di compensare io le sue defaillances alimentari con un adeguato rifornimento di viveri (tanto ho bell’e capito che i pranzi in Corsica sono un’ usanza disdicevole), ma sono sinceramente preoccupato. Anche il suo umore sembra terra terra: non se la prende nemmeno con le auto che gli passano a portata di moccolo; in più alla partenza lo trovo intabarrato con un pullover sotto un cardigan e un giaccone impermeabile sopra a tutto, mentre io dopo dieci minuti sono già a “torsolo nudolo”.
A differenza di ieri, la giornata non promette granché: durante la notte è piovuto –tanto per cambiare- e il cielo è tutto grigio-cenere, umido e chiuso da nuvole basse che preannunciano un altro esodo di turisti dai camping.
Il percorso che abbiamo stabilito oggi prevede un giro ad anello in senso orario di una settantina di km, che, evitando il più possibile strade trafficate, si addentri fra le colline a nordest di Corte, per scendere poi verso sud e rientrare in città da sudest. In realtà, nel timore che non ci siano abbastanza salite, decidiamo di aggiungere alla partenza il tratto iniziale del percorso di ieri e quindi ripetiamo la salita al colle d’Ominanda.
Nonostante le nuvole, o forse proprio per questo, l’aria è piuttosto afosa e saliamo a “organetto”, ognuno alla propria velocità: A. a passo lento e costante, io a scatti veloci e frequenti soste, per “fare meno fatica”, gli dico per stuzzicarlo, ma nemmeno questa frase scuote A. dal suo torpore: in altri momenti sarebbe stata un’occasione imperdibile per intavolare una bella discussione ai limiti dello scontro fisico sui massimi sistemi dell’ ars pedalatoria e sulle tre leggi della termodinamica. Quando, discesi rapidamente a Ponte Castirla, pieghiamo verso Francardo, A. ha un sussulto di vitalità nello scorgere dei bulloni lungo una scarpatella al di sotto della linea ferroviaria: per fare un sopralluogo, si ferma, risale la china e si ferma in mezzo ai binari per esaminarne diligentemente dadi, bulloni e traversine. La sosta si protrae misteriosamente così a lungo che faccio fatica a ricacciare la perfida fantasia di un trenino che irrompa da dietro la curva a tutta velocità.
Dopo Francardo e un brevissimo tratto sulla N193, ci addentriamo nella zona collinare in direzione S. Lorenzo; la strada è stretta, ma piacevolmente deserta e sale e scende in una piacevole altalena. A infastidirci, ma non più di tanto, interviene una sottilissima pioggerella, che ogni volta si interrompe automaticamente, appena mi fermo per mettere la mantella. Piuttosto, è A. che raggiunge il momento di crisi più acuta da mal di stomaco, tanto da fermarsi e prendere in considerazione l’idea di tornare indietro, ma poi la sua tempra di lottatore ha il sopravvento e si riprende la strada, lui a denti stretti e bocca chiusa, io invece ben aperta per riempirla di uva: lungo la strada abbondano viti inselvatichite dagli acini piccoli, ma saporitissimi. Io, tolto il casco, lo colmo di uva che metro dopo metro, acino dopo acino, faccio fuori, ingannando il tempo e le asperità della salita. La strada, infatti, ha preso ad arrampicarsi con decisione su per colli boscosi e umidi, fino a raggiungere i 600 m. Ci concediamo una sosta prima di S. Lorenzo, presso una casa disabitata al momento, posta all’incontro della strada con un torrente. Linneo, subito rinfrancato dalla vista di tante piante e fiori, parte in perlustrazione. Io nell’attesa mi leggo tutta una serie di cartelli che parlano della reintroduzione e salvaguardia di una specie locale di trote semi-estinta per l’immissione nella zona di esemplari australiani; poi vado alla ricerca del botanico sperduto nella verzura. Lo trovo accoccolato presso una riva del ruscello che studia certe piantine: avuta la conferma che si tratta di menta (“piperita” aggiungo, per darmi importanza, ma l’ipotesi è scaturita solo dalla somiglianza dell’odore con quello dell’omonimo chewingum), ne espianto un paio di esemplari che, esposti come trofeo in una busta sul retro della bici, porterò a Livorno per provare a trapiantarli.
A S. Lorenzo trovo finalmente una fontana di acqua freschissima e invitante, per cui chiedo a degli indigeni in ozio su una panchina vicina se è potabile e uno con la faccia di M. Poirot mi risponde ridendo che però il Pastis è meglio.
Tra finte discese e vere salite, curva dopo curva, si sale fino a Caricasi, a circa 800 m. L’aria si è fatta pungente, ma è gradevole, almeno fino a quando non le si mescola l’odore delle porcilaie che costeggiano la strada. Poi, d’un tratto, le tracce olfattive dei maiali scompaiono per far posto a quelle ben visibili depositate per terra dai bovini che vengono lasciati liberi di percorrere queste strade per niente trafficate (l’unico mezzo che abbiamo incontrato finora è un camioncino che rifornisce di gasolio i paesini abbarbicati sui rilievi). La via è punteggiata da una sequenza impressionante di “torte” marrone scuro di varia grandezza. Propongo ad A. di cambiare il nome della strada da “route des vins” a “route des merdes”. È necessario fare lo slalom per non finire sopra quelle “Sacher” che la pioggia ha reso ancor più scivolose. Ma lo spettacolo più incredibile mi si para davanti qualche km dopo, quando, dietro una curva immersa in una fitta vegetazione che mantiene l’ambiente in una innaturale e silenziosa semioscurità, trovo la strada sbarrata da una ventina di mucche e vitelli completamente sdraiati sull’asfalto; mi guardano con occhio torbo e assonnato, quasi aspettando che sia io ad andarmene. Batto le mani, grido “Oh! Oh” e quelle, niente. Si decidono a levarsi e a spostarsi con andatura indolente unicamente quando chiamo a gran voce A. che è rimasto qualche centinaio di metri più indietro. Potenza evocatrice della figura di A., capace di terrorizzare mandrie bovine oltre a quelle umane motorizzate!. Solo allora quel silenzio incantato viene rotto dal loro sbuffare e dalla loro massa che si solleva e trascina pesantemente sul terreno e poi nel bosco, un attimo prima che sopraggiunga A.
Dopo Carticasi la strada si impenna fino a raggiungere i 1000 m., poi si getta a precipizio stretta, tortuosa e ripidissima in una discesa mozzafiato, che la pioggia, ora battente e fredda, ha reso davvero pericolosa e ci costringe ancora una volta a procedere con la massima prudenza, fino a raggiungere Bustanicu Suttanu.
A. sembra stare un po’ meglio, ma non parla molto, anzi non parla per niente, perciò cerco altrove qualche interlocutore. Durante una delle mie galoppate in avanscoperta, trovo un gregge di pecore e capre curiosamente assiepate in fila ordinata lungo la staccionata del loro recinto, probabilmente in attesa di cibo o del pastore che le porti fuori. Mi seguono con lo sguardo come gli spettatori di una partita a tennis; allora, per non deluderle, mi lancio in un fitto dialogo in lingua ovina. Ai miei “bee, bee…” rispondono con un coro di “mee, mee…” con tanto di canto e controcanto.
Il cielo è sempre bigio e piovigginoso, ma il paesaggio è cambiato: alla stradina ripida e chiusa dagli alberi si è sostituita una strada più ampia e soprattutto più ariosa, che bordeggia con moderata pendenza colline brulle e tondeggianti. Tutt’intorno altri poggi, più o meno verdeggianti e sullo sfondo montagne cinerine e sfumate per la distanza; quasi nessuna traccia di presenza umana, a parte qualche gregge. Poi si ritorna nella civiltà (si fa per dire) a Sermano: caratteristica frazione in stile vagamente abruzzese (con all’uscita un generoso albero di susine piccole, ma saporite) di 80 anime: il bello della cartina è che di ognuno di questi centri riporta anche l’entità della popolazione in migliaia; a Sermano, capoluogo di “canton”, ne attribuisce appunto 0,08; accanto a qualche altro toponimo viene registrato solo lo 0,01 (in pratica una o due famiglie), mentre per trovarne uno con almeno 0,1, cioè 100 abitanti, bisogna andare fuori zona. Del resto, la stessa Corte viene accreditata di un modesto 6,3.
Raggiungiamo il fondo valle al tramonto e a Feo ci immettiamo sulla D14. Arrivati al bivio successivo, dobbiamo scegliere se raggiungere Corte prendendo per la nazionale N200, più diretta e pianeggiante, o proseguire sulla parallela via collinare, più panoramica e meno trafficata. A sciogliere ogni dubbio e ogni indugio sono i lampi e i tuoni che da sud ovest si stanno approssimando minacciosi. La dichiarazione di guerra, peraltro unilaterale, ci viene mossa pochi minuti dopo con un’avvisaglia di goccioloni formato ciliegia a cui fa seguito in breve una pioggia fitta e intensa, contro la quale la mia mantella e il giaccone di A. offrono un riparo solo parziale. La strada è la stessa già percorsa due giorni addietro, i km sono solo 5 e in pendenza quasi nulla, ma sembra volerci un’eternità, prima che possiamo raggiungere Corte, discretamente bagnati e infangati.
In albergo il piatto della doccia si fa marrone per le incrostazioni di melma che l’acqua si porta via, ma quando usciamo dalla stanza per la cena siamo freschi e rosei come due porcellini di latte. Non ci fermiamo neppure per vedere cosa offre la cucina dell’albergo e ci dirigiamo senz’altro verso la cittadella. La strada è lucida di pioggia e sotto i due ponti che attraversiamo la Restonica e il Tavignano scorrono fragorosi e gonfi d’acqua, ma non piove quasi più e il cielo presenta ampi squarci di sereno da cui sbucano le stelle.
Scegliamo stavolta un altro ristorante, proprio sotto la Rocca: è ampio, in ottima posizione, con un vasto giardino e padiglioni, ma i prezzi sono contenuti e il menù del giorno è vario (immancabile, ovviamente la “soupe corse”) e di livello superiore a quello dei giorni precedenti: ovviamente l’abbiamo scoperto solo l’ultima sera, così come solo ora abbiamo capito che un conto sono le specialità della cucina continentale e un altro quelle della cucina corsa, che ci tiene a distinguersi da quella francese, per cui la “soupe d’oignons” è destinata a rimanere un miraggio.
Prima di tornare all’albergo ci concediamo una passeggiata fino alla rocca, ora adibita a museo e a teatro all’aperto. Le sedie di plastica sono ancora colme dell’acqua del nubifragio serale, ma una volta asciugate vanno benissimo per sedersi, chiacchierare (A.) e schiacciare un pisolino (io).
Il rientro avviene sotto le stelle di un cielo limpido completamente sgombro da nubi e benaugurante per l’ultima prova di domani: il rientro a Bastia e, di qui, a Livorno. In camera controllo itinerario e distanze effettuate (oggi 71 km in 3 h e 40’ a meno di 20 km/h) e da effettuare; quindi preparo i bagagli e, in previsione della lunga pedalata sotto il sole di domattina, metto in fondo a tutto gli indumenti inutili (k-way, mantella, buste di plastica, magliette, panni sporchi ecc.).

Venerdì 9 Settembre

All’alba, nel dormiveglia, avverto uno sciacquio insistente; sarà A. che fa la doccia… e mi riaddormento; mezz’ora o un’ora dopo mi risveglia lo stesso rumore di fondo: ancora la doccia? Va bene aver accumulato polvere e fango per quattro giorni, ma insomma… Poi a fugare il dormiveglia e i dubbi, sopraggiunge un tuono, seguito da una lunga serie di rimbombi e da uno scroscio fragoroso. Altro che doccia, è un nubifragio in piena regola. Anche oggi acqua?! Bagagli tutti da rifare Prima di partire dedico una buona mezz’ora a una bardatura speciale della bici, che viene impermeabilizzata almeno nelle sue parti più esposte.
Dopo aver pagato il conto (49 € x 4 giorni la camera + 5 € x 4 la colazione = 216 € in tutto), lasciamo l’albergo con una valutazione complessiva più che sufficiente e, sotto una pioggerella leggera, ci dirigiamo a Corte per comprare qualche souvenir.
Acquisto innanzitutto una carta stradale dettagliata della Corsica: i veri viaggiatori mica le comprano prima di partire, che diamine! ma solo dopo, per verificare da bravi esploratori se contengono errori. Dopo ponderata riflessione e ricerca, per non appesantire troppo il già gravoso fardello, decido di portare a moglie e figlie qualcosa di poco costoso (è il pensiero che conta) e soprattutto leggero: compro perciò rispettivamente tre cartoline a colori con su scritte le ricette della cucina corsa (secondo il sano principio oraziano del “miscere utile dulci”) e una coppia di caprette corse di peluche leggerissime e scontatissime; poi, già che ci sono mi viene in mente di prendere qualcosa anche per il capofamiglia, per non dare adito a ingiustizie o parzialità: un barattolo di marmellata di mirto, uno di frutti di bosco, uno di cedro e agrumi corsi, uno di non meglio identificati frutti rossi, due buste di biscotti locali e un barattolone di miele di macchia mediterranea. Per la verità, questi acquisti mi aggravano di qualche kg il carico, ma sicuramente mi alleggeriscono molto il portafoglio.
Usciti da Corte, sulla N193 inizia l’ascensione al Colle di San Quilico, che all’andata era stato associato a tanta sofferenza. In realtà pedaliamo in salita in scioltezza e senza problemi, anche A. che sembra del tutto ristabilito dal malessere di ieri; a ribadire la sensazione di benessere contribuisce anche il ristabilirsi del tempo: ha ormai smesso di piovere, l’aria è fresca e stimolante e il sole fa capolino tra le nubi.
Il percorso verso Ponte Leccia, poi, si snoda in discesa rapido e agevole, circondandoci con un paesaggio ampio, luminoso e riposante; a metà strada incontriamo due cicloturisti di Cuneo, che stanno puntando anche loro su Bastia, e viaggiamo perciò in gruppo, salvo qualche sosta dovuta alla presenza di more e soprattutto di fichi (io e A., immemore dei suoi disturbi precedenti, facciamo a gara a rimpinzarci sotto un gigantesco albero di fichi maturi e succulenti). Guardando la cartina, decidiamo di raggiungere Bastia passando dalla litoranea, anziché dalla superstrada trafficata dell’andata.
In meno di due ore (contro le tre dell’andata), arriviamo in vista della costa a Casamozza, e al bivio tra Aleria e Bastia prendiamo a Nord; ma saltiamo l’imbocco per Biguglia e la litoranea e ci ritroviamo sulla superstrada, proprio mentre il cielo si rannuvola con una rapidità e intensità impressionanti. All’incrocio successivo i due cuneesi decidono di tentare ugualmente di raggiungere la costa a costo di una deviazione, mentre noi optiamo per la via più diretta e rapida; perciò, dopo averli salutati, continuiamo a diritto, per sfuggire al temporale in arrivo, alla massima velocità possibile, che in realtà si riduce a una media assai modesta, dato che A. impiega un bel po’ di tempo per le sue telefonate kilometriche. Ma probabilmente, anche correndo come dannati, non avremmo potuto evitare l’acquazzone, che inevitabile si rovescia su di noi a pochi km ormai da Bastia, per concludere degnamente sotto l’acqua un viaggio che sotto l’acqua era cominciato.
Raggiungo un ciclista locale su Mtb e gli chiedo informazioni sul percorso per vedere se è possibile raggiungere Bastia evitando la lunga salita di Montesoro; lui mi spiega che la via migliore adesso è quella (brevissima e pianeggiante) del tunnel sotto la Cittadella, che si è allagato a causa del nubifragio ed è perciò interdetto alla circolazione automobilistica. Quindi, approfittando del fatto che A. ha di nuovo rallentato, parto in perlustrazione, per verificare la fattibilità del percorso.
Raggiungo il tunnel, al cui imbocco trovo anche un paio di cicloturisti nordeuropei, ma il problema allagamento deve essere stato risolto, perché le auto vi passano tranquillamente, mentre è pienamente tornato in vigore il divieto per ciclomotori e biciclette. Del resto, la galleria si prospetta lunga e tortuosa (o almeno dall’imboccatura non si intravede l’uscita) oltre che probabilmente satura dei gas di scarico delle auto Dopo aver contemplato (e fortunatamente scartato) anche l’ipotesi di raggiungere dall’esterno, bici in spalla, la base della fortezza su una lunga scalinata, per vedere se c’è qualche apertura che permetta di entrare nella fortezza e da lì nella città, decido di tornare indietro ad avvisare A. e passare dalla parte alta della città. Ripercorro la strada già fatta passando da una scorciatoia, ma di A. nemmeno l’ombra. Raggiunto il punto più alto della cittadella, inizio a scendere verso il porto e quindi costeggio le banchine, scrutando a destra e sinistra, nella speranza di vederlo sbucare da qualche parte; l’ansia è determinata dal fatto che manca meno di un’ora alla partenza e dobbiamo ancora fare i biglietti (speriamo che non ci siano brutte sorprese per i posti a bordo), senza peraltro sapere dove si trovi la sede della Moby. Ed ecco che contemporaneamente scorgo le insegne della Moby Lines e A. che arriva trotterellando con aria spensierata: lui che, anche negli spazi più aperti delle colline livornesi, è claustrofobico nei confronti dei mezzi a motore e allergico ai tubi di scappamento delle auto pure quando sono a motore spento, ha scelto il lungo (circa 2 km!) percorso sotterraneo, trafficato e gasato del tunnel. Mah!
Imbarcatici e sistemate le bici nella stiva, raggiungiamo il salone per trovare da sedere, però le poltroncine sono tutte occupate; finalmente scoviamo un paio di posti inspiegabilmente liberi; ma in breve arriviamo a comprenderne il motivo: siamo vicino al gabbione dei giochi dove una ventina di marmocchi dai 10 anni in giù si addestrano su una specie di percorso di sopravvivenza, correndo, saltando, tirandosi palline di plastica colorata, infilandosi le dita negli occhi, provando su qualche malcapitata compagna mosse a metà tra il wrestling e il kamasutra, ma soprattutto gridando come degli ossessi, mentre i genitori delle vittime accettano rassegnati la legge del più forte e quelli dei più violenti guardano compiaciuti i propri figli. A. pare un tantino turbato dalla vivacità dei pargoletti; a me, a cui la sordità precoce e l’esperienza professionale hanno regalato una stoica consuetudine e l’ atarassia del saggio, riesce mantenere una relativa imperturbabilità, tutt’al più con qualche vaga rievocazione nostalgica dei tempi in cui i bambini, se starnutivano troppo rumorosamente in pubblico, venivano gentilmente redarguiti a ceffoni dagli adulti, e, magari, fustigati e scorticati diligentemente.
Quando con un sofisticato training autogeno siamo riusciti a ridurre l’urlio generale in un mantra di sottofondo, siamo equidistanti dalla costa toscana come da quella corsa, ma ecco che ci arriva vicino una tizia dello Sri-Lanka che a bruciapelo ci chiede: “Ma quanto qui sta profondo il mare? Ma se nave affonda, si affoga? Ma a voi abisso di mare non vi fa paura?” Toccamenti generali, specie quando, in vista di Capraia, la catastrofologa riprende: “Ma se viene tsunami? Mai terremoto e maremoto qui?”
È con piacere che un paio d’ore dopo tocchiamo terra. Il cielo, avuta ormai la certezza che il nostro viaggio è finito, si è definitivamente rasserenato e si illanguidisce in un tramonto altamente bucolico e simbolico. Come tutte le avventure portate a termine, anche questa, coi suoi quasi 500 km percorsi in 22 ore e un dislivello globale pari a 5800 m., lascia un senso di appagata sazietà e prospetta un lungo intervallo prima della prossima impresa. Le ultime centinaia di metri fino al punto di partenza, avvengono su una strada resa deserta dall’ora di cena e silenziosa dalle ultime cogitabonde pedalate. Dopo un rapido scarico dei bagagli, il rastrellamento di mappe, cartine e sacri foglietti e la raccolta di marmellate, mieli, peluche e piantine di menta, in garage, un abbraccio conclude il rito dell’addio, che altro non è se non un arrivederci.

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