Coppa Davis, Italia-Cile

di Diana Pasetti – 
In fondo era solo tennis!
Solo tennis? No, non era tennis, né tanto meno venivano giocate delle partite di tennis, io, riuscivo a vedere solo un formale. incrociarsi di racchette Un ultimo incontro, “una passeggiata”, da parte dei giocatori italiani, che avrebbero poi, battendo i cileni, potuto aggiudicarsi la vittoria finale. Stringere finalmente tra le mani, una coppa tanto importante quale è la Coppa Davis, e il poterlo fare davanti agli occhi dei telespettatori di mezzo mondo.
L’incontro aveva luogo nel famigerato Stadio di Santiago del Cile, trasformato per l’occasione in un campo internazionale di tennis. Ecco ciò che anch’io stavo guardando in televisione: la finale di Coppa Davis, la più ambita nella sua specialità. Conoscevo così bene i nostri giocatori che distolsi quasi subito, da loro, la mia attenzione per rivolgerla verso i spettatori presenti che giudicai subito dei piccoli borghesi, dei tifosi ignoranti, dei volta bandiera e volta faccia. Delle persone sempre disponibili verso il miglior offerente.
Il vastissimo stadio era stato, per l’occasione, addobbato con le bandiere di tutti i paesi iscritti alla competizione. Lo abbellivano inoltre, enormi fioriere ornate dalle piante più ricercate. Eppure, ai miei occhi, nemmeno i colori più vivi e allegri riuscivano a cancellare i ricordi allucinanti di ciò che era accaduto proprio lì, in quello stesso stadio, solo pochi mesi prima, qualche anno forse.
Nemmeno i profumi più intensi sarebbero riusciti ad annullare il tanfo lasciato sulle gradinate da corpi martoriati, maciullati per un tempo tanto lungo e dalla crudeltà più pura.
E come se niente fosse, adesso “i nostri leoni” italiani, si apprestavano a giocare l’ultima partita del campionato proprio in quel luogo contro i “topolini cileni”, non certo a titolo personale ma in rappresentanza del nostro paese.
I nostri ragazzi avevano combattuto duramente negli incontri precedenti giungendo con ampio merito alla finale. Lo stesso non si poteva dire dei loro attuali avversari, giunti alla fine anch’essi soltanto perché quasi nessun altro aveva voluto incontrarli, quali rappresentanti di una nazione oppressa. I nostri, avevano eliminato, di volta in volta, altri giganti della racchetta, talvolta più forti di loro individualmente, ma la nostra, era, una squadra compatta, formata da amici veri, affiatati tra loro, combattivi e motivati. Un vero “ team “ aveva rappresentato fin qui l’ Italia. Ma adesso non li avrei più seguiti, non potevo assistere a tale nuova vergogna io, sportiva credente e praticante, nemmeno da tanto lontano, comodamente seduta davanti ad uno schermo televisivo.
Spensi così il monitor, per restarmene immobile davanti ad uno schermo vuoto e riempirlo subito dopo, a modo mio, con le immagini della mente, immagini interiori calde e dolorose, arricchite da pensieri belli e teneri, rivolte verso un viaggio iniziato piacevolmente per poi terminare nel tormento con il delinearsi terribile degli avvenimenti di un recente passato.
Ci trovavamo in Argentina, verso la fine di un mese d’agosto, giunti solo da un paio di giorni, mio marito ed io, e già mostravamo segni d’insofferenza. Eravamo ospiti in casa d’amici che ci avevano accolto più che calorosamente al nostro arrivo, concedendoci allora, solo poco tempo per rifocillarci dopo un viaggio interminabile attraverso due contenti. Questo,per non farci perdere del tempo, per poterci mostrare il più possibile della loro capitale.
Buenos Aires però non riusciva a risvegliare granché il nostro interesse. E’ una città formata da una popolazione troppo recente, che non è riuscita ancora ad amalgamarsi, a costruirsi nel nuovo continente una nuova identità con una propria storia, una propria cultura. Le opere d’arte sono irrilevanti. Tutto troppo nuovo. La città ci appariva come un imbuto contenente delle persone che lì aveva trovato rifugio, quando a casa propria, nella vecchia Europa, regnava il caos. Ci sembrava che la popolazione fosse formata da persone ancora non ambientate nonostante il trascorrere dei loro anni lì. Appariva così ovvio che i vari membri dei vari paesi di provenienza fossero restati uniti solo tra loro, isolandosi dagli altri. Non si erano ancora amalgamati in una sola nazione. Al più forte quindi la libera presa del potere…
Non eravamo tanto contenti, Walter ed io, di essere lì e già parlavamo di ripartire, quando il nostro abilissimo amico ci offrì una nuova opportunità di approfondire la conoscenza del suo nuovo paese. Voleva a tutti i costi farci ricordare quel viaggio. Si offrì dunque, con tutta l’intraprendenza di cui era capace, di guidarci attraverso un’estensione del paese davvero ragguardevole, dove avremmo potuto incontrare i discendenti dei nativi originari. Ci propose di trascorrere i giorni di vacanza che ancora si aveva a disposizione, improvvisando un lungo viaggio in automobile: Buenos Aires- Santiago del Cile.
I suoi occhi adesso,brillavano d’entusiasmo, descrivendo, l’improvvisa partenza, e i nostri, contagiati, divennero subito raggianti. I volti di tutti noi, mostravano ora gioia ed entusiasmo.
“Si parte davvero?” chiedemmo in coro Walter ed io.
Solo cinque minuti dopo i preparativi ebbero inizio. Antonio si era messo su un pulpito organizzativo mentre sua moglie Clara, era già sparita in cucina a preparare cibarie e vettovaglie in quantità. Furono ore di lavoro collettivo dunque, per rendere la nostra vacanza piacevole e per di più offerta con una generosità senza limiti.
L’indomani mattina, la lunga macchina americana d’Antonio era stracolma d’ approvvigionamenti: pezzi di ricambio per l’auto, taniche colme di benzina, cibi d’ogni sorta e tante coperte.
“Nella pampa la temperatura scende di molto e le notti saranno fredde”… Nel nostro paese, l’Italia, una partenza del genere avrebbe quantomeno sorpreso chiunque, e fatto anche ridere. Ma il territorio che avremmo dovuto attraversare era ben più esteso di tutta la nostra penisola e avremmo dovuto affrontare gran parte del viaggio contando solo su noi stessi.
“Ore e ore da trascorrere insieme, per non avere più segreti tra noi” scherzò Antonio.
Simpaticissimo Antonio, uomo sulla cinquantina con lo spirito vispo e la vivacità di un fanciullo. Sua moglie Clara, al contrario aveva un carattere calmo e tranquillo. Cercava persino di mimetizzarsi, contenta com’era solo di far parte integrante del viaggio, senza cercare di scomodarsi a parlare molto. Antonio, l’aveva scelta con cura, come seconda compagnia della sua vita, per dare una nuova mamma al figlio adolescente, nel caso in cui lui sarebbe venuto a mancare prematuramente. Walter ed io invece, lontani ancora dalla maturità, eravamo due kamikaze di confusione, d’intraprendenza e di brio. Possedevamo entrambi una curiosità sconfinata per il mondo che ci circondava in tutta l’ampiezza di ricchezza naturale ed umana. E il viaggio ebbe inizio!
Stavamo lasciando Baires volentieri, aspettandoci qualcosa di meglio, un sentire la vita vera pulsare.
Man mano che ci si allontanava dalla capitale, l’allegria cresceva tra noi. Nascevano battute su battute come uno scoppiettare di scintille su brace accesa, specialmente tra Antonio e me. Lui parlava solo il castellano ed io usavo un italiano intramezzato da frasi romanesche… Antonio era giunto in Argentina molti anni prima proveniente dalla Spagna, dove aveva partecipato e combattuto come volontario alla guerra civile. Miracolosamente sfuggito alle persecuzioni del generale Franco era riuscito ad emigrare con la prima moglie ed un bambino appena nato, per il nuovo mondo. Lei scomparve alcuni mesi dopo il loro arrivo, e per Antonio seguirono mesi duri per lui ma riuscì a venirne fuori impiantando una fabbrica di speciali indumenti per vestire tutti i militari che lavoravano al polo. Adesso, con la nuova moglie italiana aveva trovato una sua serenità, eppure non sempre riusciva a nascondere completamente la sua paura per una nuova dittatura.
La nostra auto correva veloce adesso su un unico rettilineo. Davanti si presentava solo una lunga striscia d’asfalto proiettata verso un orizzonte senza fine.
“Non si usano le frecce qui!“ notai. Baires era una capitale lontana ormai e forse non era mai esistita nel nostro nuovo modo di pensare. Adesso si vedevano dei prati ai lati della carreggiata, poi eccoli trasformarsi in praterie. Delle sterminate praterie si estendevano per chilometri. Erano di color verde intenso, poi bruno, quindi rame, e di nuovo verde cupo…ed infine ecco la pampa, brulla, selvaggia cosparsa di cactus sempre più grandi fino a diventare giganteschi. I miei sonori: “ oh, ooh, oooh! “ ritmavano ormai con l’armonia sempre uguale del motore, mentre tenevo il viso appiccicato al finestrino. Poi abbassavo il vetro e mi sporgevo con tutto il busto, offrendo l’intera faccia al vento.
Ogni tanto vedevo qualcosa d’interessante e allora la mia preghiera diventava assillante:
“Fermati, Antonio, fermati!“ e lui rallentava la corsa veloce dell’auto per poi farla completamente, e questo sempre con un sorriso. Dopo aver percorso un numero considerevole di chilometri, ci apparve sempre più vicino, un piccolo centro abitato. Certamente era stato messo lì dal buon Dio per darci la possibilità di trovare, forse, un misero pagliericcio al riparo, su cui trascorrere ciò che restava della notte. L’incontrare delle persone dopo tanto deserto, altri esseri umani come noi, mi sorprese e mi salì spontanea la domanda: “Da dove saranno mai saltati fuori?”
Erano incuriositi anche loro dato che ci venivano incontro,una volta fermata l’auto, prima solo per ispezionarci in silenzio e poi per porci delle timide domande. Era gente semplice e premurosa che ben presto ci offrì quel poco che aveva, come l’ospitalità intorno ad un fuoco acceso all’aperto,davanti alle loro baracche, una ciotola di zuppa calda, un sorriso amichevole. Grati noi ci univamo a loro, intorno al fuoco sedendoci a gambe incrociate sulla nuda terra, e avvolgendoci intorno alle coperte che ci eravamo portati da casa. Iniziarono allora le domande più dirette, volevano sapere come si viveva nella capitale da Antonio e Clara e appreso che noi invece, Walter ed io eravamo dei stranieri, chiedevano quanto lontano fosse, da loro il nostro paese. Erano degli esseri molto isolati dal resto del mondo, e penso non si rendessero conto di quanta diversità potesse esistere tra il loro modo di esistere e quello di noi viaggiatori nella normalità della nostra vita. Poi prima di accettare la disponibilità di una stanzetta dove ci saremmo potuti stendere noi quattro assieme, alla meglio, ringraziavamo per l’umile pasto ricevuto, come se avessimo appena consumato, la nostra ultima cena.
La luce di un nuovo giorno ci avvolse e, rapidamente, ci trovò pronti a riprendere il viaggio, affrontando ancora lo stesso panorama del giorno prima: praterie estese, cactus, bovini e cavalli e qualche gaucho solitario qua e là in una pampa sempre più desolata. Eppure vi avrei sempre trovato qualche cosa di nuovo con qualche buona scusa per far fermare l’auto, magari solo per abbracciare una palma.
Lontanissimi, uno dall’altro dei piccoli centri abitati, sembravano attendere il nostro passaggio. Minuscoli agglomerati di case che pur avevano un nome: Rosario, Rio Quarto, San Raphael…San Louis…e non so più quale altro nome di santo protettore… e si che di protezione quei poveri cristi, abitanti quei luoghi ne avevano bisogno!
Passarono così tre o quattro giorni con innumerevoli fermate onde permetterci di curiosare a piacimento l’ambiente tanto ostile, perderci tra i mille odori della terra, delle piante selvatiche, sorprenderci al passare veloce vicino ai nostri piedi di qualche animaletto sconosciuto, intenerirci ad un fiore che mi pareva sempre meravigliosamente bello e raro nella sua solitudine. Giravamo intorno ad un cactus tenendoci per mano come in un girotondo, e cercavamo d’indovinarne le misure della sua circonferenza. Scommettevamo sulla sua altezza per perderci così in un tempo che pareva essersi immobilizzato solo per noi.
Poi, all’improvviso, un miraggio. un sogno sempre più nitido, più bello si lasciava avvicinare. Sapevamo che l’avremmo incontrata sulla via, ma ormai non l’aspettavamo più, presi com’eravamo dal salire e scendere da una macchina, il cui interno era sempre più confuso: MENDOSA.
Clara, gorgheggiò, risvegliata per incanto dal suo torpore.
Dei sentieri andavano formandosi nascendo dal nulla. Ai lati dei sentieri, prima qualche rara fattoria e poi due insieme e quindi interi agglomerati di costruzioni, molto simili a quelle di tanti paesi europei. Delle strane tubature si facevano ora largo sul terreno, ai lati della strada maestra dirigendosi verso le fattorie in distanza, verso un nulla, che nulla non era, come scoprimmo. Ora costeggiavamo un nascere di nuovi vigneti, che man mano si estendevano unendosi ad altri già esistenti, robusti e produttivi, mentre sotto di loro,. le tubature s’ingarbugliavano, salivano persino, sorrette da pali di cemento, ai lati delle piantagioni viticole, formando quasi una rete rialzata.
Erano tante le cose da vedere simultaneamente che posposi la curiosità di sapere a cosa servivano quelle sinistre tubature…
La nostra auto accelerava, impaziente anch’essa di un giusto riposo.Ci trovammo così circondati dai vigneti, tanti che ci pareva essere tornati in Italia, ma a guardar bene, la loro estensione qui era cosi vasta che pareva aver divorato parte della pampa. Non poteva essere l’Italia. Tutto appariva così esteso! Le piante troppo prosperose e ricche di fogliame. Avremmo dovuto fermarci per vedere i grappoli pendere prosperosi, nascosti com’erano da tanto verde, e ricordarci di essere all’inizio di un settembre davvero glorioso.
Uno spettacolo davvero, ma cosa rappresentavano quelle tubature che parevano perseguitarci?
“Sembra la pomp – line dei deserti arabi che trasporta al suo interno il petrolio dai pozzi alle raffinerie“ dissi.
Antonio si mise a ridere. Anche Clara rise, e raramente lo faceva, certamente dalla gioia, intravedendo una pausa distensiva al nostro irrequieto vagabondare.
“Non sono pomp – lines, come le chiami tu” rispose il nostro amico-guida “però hanno la loro stessa funzione. Attraverso la rete che vedete, si nasconde un ricercatissimo sistema di collegamento sotterraneo e aereo. All’interno dei tubi vi sono dei tappeti trascinatori che trasportano i grappoli d’uva direttamente dai vigneti alle fattorie, che, dopo la lavorazione, dirigeranno il mosto e infine il vino dal frantoio all’impianto d’imbottigliamento“: “Quest’America però! Noi piantiamo il seme con il suo gene e poi l’emigrato ingigantisce tutto in un nuovo paese! Sarà poi un buon vino? “ “Ottimo! Qui nascono i miglior vini che puo’ avere un’Italia o una Francia: dal chianti al Pinot, dal Brut agli spumanti. Lo champagne è eccellente! “ Perbacco, c’era davvero di che meravigliarsi. Eravamo giunti in una regione macroscopica, che poteva benissimo essere italiana o francese, e questo dopo aver percorso centinaia di chilometri attraverso una pampa assolata…
Mendoza! Che nome dolce! Che bella cittadina. Così ricca di viali alberati, lungo i quali, erano allineate delle panchine. C’erano aiole fiorite ovunque, e le sue case, basse, tutte abbellite con dei murales, dalle figure agresti o che rappresentavano paesaggi solari. La frutta e le verdure erano vendute in quantità lungo le strade. Al centro di Mendoza,un po’ ovunque, troneggiava numerosi i monumenti, con delle figure allegoriche e la classica scultura commemorativa ai caduti. La cattedrale non poteva certo mancare e due, erano le sue famose università. Un richiamo per gli studenti, provenienti da ogni parte dell’Argentina.
Pensare che l’analfabetismo, nell’America meridionale è ancora tanto, troppo diffuso. Poi vi erano numerose chiese, librerie e persino dei musei… Quale emozione giungere all’improvviso, in un santuario innalzato alla sapienza, da noi viandanti, che avevamo trascorso troppi giorni a bivaccare, nei luoghi più disparati della Pampa., con la compagnia di soli gaucho e delle loro famiglie.
I gaucho mi ricordavano, adesso, delle stelle cadute in un luogo qualsiasi dopo aver perso il proprio cammino.
Mendoza! Un cartello indicava che si trovava a 757 metri sopra il livello del mare. Il mare? Mi pareva così lontano il tempo in cui l’avevo visto per l’ultima volta, mentre in questa stessa regione avevano come dimora le Ande. Stentavo a crederci: le cime più alte del globo, dopo quelle asiatiche, raggruppate tutte insieme, qui, proprio qui e fra poche ore le avremmo potute vedere.
Nell’attesa di proseguire il viaggio, continuare a vivere questi giorni d’ emozione in emozione, ci accingemmo a riposare un poco, dopo esserci dati una lavata civile finalmente, fatto un bagno caldo e infilato dei vestiti freschi di bucato rimasti troppo a lungo sepolti in un angolino del portabagagli.
Scegliemmo un albergo dai terrazzi merlettati e ornati da vasi di fiori. Spalancai le finestre della “nostra” camera, lasciandovi entrare l’ennesimo sorprendente tramonto autunnale. (finalmente soli?)
Una temperatura mite ci spinse poi verso la dolcezza di un’altra serata ricca d’amicizia e d’intesa.
Eccoci di nuovo riuniti dunque, noi quattro amici, intorno ad un tavolo, questa volta, dove avremmo potuto cenare come degli esseri civili, usando delle posate, dopo aver scelto il menù.
L’allegria non tardò a sommergerci ancora, come aveva fatto durante tutto il tempo del nostro stare insieme. Frequenti continuavano ad essere le risate tra noi, come accadeva solo tra esseri passionali quali sono le popolazioni latine.
Facemmo nuovamente tardi e quando decidemmo di separarci per la notte fu ancora Antonio ad ordinarci il prossimo percorso di marcia “Tra due ore ci troveremo all’auto, pronti a ripartire” “Due ore? Proprio adesso che potevamo riposare, guardarci intorno, riordinare le impressioni assorbite?”protestammo in coro Walter, Clara ed io.
“Due ore! “il tono del capo non ammetteva repliche“ Dobbiamo arrivare ancora al buio sulle Ande. Viverla pienamente questa notte tra la natura, morire con lei e rinascere nell’alba, in mezzo alle montagne!
Antonio pareva un giovanotto avventuroso sebbene,invece di un uomo un po’ attempato.In questo viaggio, certamente era il più intraprendente di noi, e così generoso nell’offrire tutto se stesso, che non osammo protestare. Il suo entusiasmo aveva ormai superato di molto ogni nostra attesa, e si accompagnava così bene con la nostra insuperabile voglia di conoscere, andare e, così, avanti…tutti insieme compatti, e avanti ancora! La sete di conoscenza, era più forte dell’affaticamento.
Lasciammo così Mendoza ancora addormentata intuendo soltanto, nel nostro allontanarci, l’esistenza di una vita colta e civile seppur circondata da chilometri e chilometri di deserto tra praterie e montagne. Strada facendo il rilievo stradale tendeva ad alzarsi. Il paesaggio diveniva nuovamente aspro. Ora dei coni vulcanici, asciutti, arridi si lasciavano intravedere sotto la flebile luce della luna. Divenivano sempre più numerosi e le stelle parevano raggrupparsi intorno a loro, lasciando al buio il resto del cielo.
Il motore dell’auto pareva assopito e si muoveva senza rumore quasi. Noi tutti eravamo in silenzio, protesi ad ascoltare ogni rumore esterno scaturito forse dalla magia che ci circondava. Si intuivano così delle strane presenze.Delle ombre si muovevano furtive poco lontane dal nostro passare ora lento, nascosto quasi. E nella totale silenziosità si udivano dei vagiti, si potevano percepire dei tiepidi aliti, attraverso i finestrini abbassati, con lo scivolare silenzioso dell’auto.
Erano degli animali, creature note e sconosciute di cui incrociavamo gli occhi accesi come lampadine.
Antonio rallentò ancora, e le bestiole si fermavano quasi davanti a noi adesso, per spostarsi poi di lato, essere sorpassate e seguirci furtive. Erano attratte dai fari. Percepivano, anch’essi, una presenza estranea al loro mondo.
Una volpe si piazzò attenta proprio di fronte agli abbaglianti che subito divennero ferme luci di posizione per non ferire i suoi occhi, per non spaventarla.Ci stava sfidando con la folta coda dritta lungo il dorso. Curiosa e sagace proteggeva con il corpo due cuccioli appena visibili dietro di lei. Loro, per niente impauriti, pronti ad un nuovo gioco, alzavano entrambi le zampette anteriori toccando così la lamiera fredda, e quando, molto lentamente, riprendemmo la via, l’intera famigliola ci segui per un breve tratto, la mamma davanti seguita dai suoi piccini…
E venne l’alba! Il fuoco inondava la terra per sollevarsi e poi dividersi in mille lingue intramezzate da un chiarore nascente.! Eccole le montagne…il miracolo supremo. Potevamo vederne una punta, lasciandoci andare esclamazione d’entusiasmo, e poi un’altra ed un’altra ancora.
Le Ande! Un turbinio d’emozione fortissima esplodeva dentro tutti noi, come fuoco d’artificio. In me bruciava tanto da fare male.
Commossa piangevo adesso, senza freno e senza ritegno. Avrei potuto farne a meno? Ci si stava parando davanti il Paradiso con tutto il suo glorioso chiarore! Una specialissima mattinata, per noi, scompose le lingue di fuoco, mostrandoci generosamente il paesaggio nella sua totalità. La più immensa delle meraviglie si stavano schierando una ad una di fianco all’altra, solo per noi.
OJOS DEL SALADO – PISSIS – CERRO DEL TORO -CERRO MERCEDARIO
Erano raggruppate insieme in un’apoteosi d’altitudine. Tutti sui 6.000 metri d’altitudine e poi…
…poi eccola, emergere tra le bellissime, la splendida, l’incomparabile, l’ unica: ACONCAGUA!
Dominava l’intera terra con i suoi 6.959 metri d’immensità.
Già sentivo il suo sussurrare melodioso, in un cielo divenuto azzurro pallido, e intuivo il suo continuo dialogare con le consorelle e con le anime vicine a Dio.
La nostra auto si era bloccata di colpo al suo comparire. Non ebbi bisogno di esclamare: “Antonio Fermati!” poiché eravamo già tutti scesi, frettolosamente da un abitacolo divenuto ormai troppo stretto.
Sì, si! Eravamo immersi nell’aurora, come si può essere nell’acqua dell’ oceano e: ci lasciavamo inebriare a volontà dall’aria fresca e frizzante. Ci abbracciammo tutti ora esternando con impeto una gioia esaltante.
Poi… dopo lunghi istanti di silenzio, soli con noi stessi, noi donne, osservammo i nostri uomini guardarsi tra loro, sorridersi, e poi come avvolti da una complice intesa, iniziare insieme una lenta corsa, per accelerarla poi e lasciarsi andare, attraverso i campi qui coperti di neve leggera, incontro ai monti, giù per dirupi, vergini di passi forse, felici come lo sanno essere solo i ragazzi. Li seguimmo con lo sguardo fino a sorprenderli vicini l’uno all’altro, immobili e affiancati. Ci stavano voltando le spalle, nella classica posizione eretta per poi iniziare entrambi a pisciare. Pisciavano alla natura, al silenzio, al cielo, alle vette e lasciare infine l’impronta primordiale del maschio sulla terra. Risalirono poi soddisfatti,come possono esserlo forse solo coloro che hanno compiuto un rito sacro.
Eravamo seduti in terra adesso ad ammirare con più calma, lo spettacolo. In lontananza, ai piedi delle montagne, si stendeva una valle deserta su cui poggiavano percorrendola a perdita d’occhio due paia di binari solitari. Ad intervalli, dei lunghi ponti di metallo li ricoprivano. Erano tunnel di lamiera, protezioni artificiali costruite per proteggere i treni e i suoi passeggeri in caso di necessità.
“Un’unica via ferroviaria collega il Cile con l’Argentina e viceversa” disse Antonio “E passa sopra quei binari laggiù. D’inverno, si sa sempre quando il treno lascia una stazione, ma solo approssimativamente la data del suo arrivo alla fermata successiva. Spesso nel percorso, il convoglio s’imbatte in tempeste di neve e deve fermarsi con il precipitare delle valanghe. perciò si ferma, con tutti il suo carico, sotto ì ricoveri di fortuna e aspetta paziente che le tormente finiscano, o l’arrivo di soccorsi o alla peggio il disgelo” e rise annunciando l’ultima eventualità “Per questo i viaggiatori portano sempre con loro grandi quantità di cibo e d’acqua.” Oh Cristo! Accadevano cose del genere da quelle parti?
Risalimmo in auto, ubriachi d’aria troppo pura per i nostri polmoni inquinati riprendendo una via che ci avrebbe condotto in un Cile non troppo lontano ormai.
La strada adesso si era tramutata a poco più di un viottolo. Stavamo affrontando un passo difficilmente valicabile fino al dover attraversare un lungo primitivo ponte di legno,sotto cui un fiume arrabbiato e minaccioso, alzava dei vortici d’acqua con rumori sinistri. Clara si fece il segno della croce!
Fu grazie a lei forse che qualcuno ci protesse fino a condurci sani e salvi dall’altra parte, dove ci accolse l’enorme statua innalzata ad un eroe della libertà cilena. A ripensarci, se ci fossimo fermati ad ascoltarlo forse avrebbe avuto qualcosa d’importante da dirci allora. Fummo invece distratti da un vecchio accovacciato ai suoi piedi. Pareva dormisse ma appena sentì il rumore dell’auto balzò in piedi come un gatto grintoso per correrci incontro.
“Senior, senior, tiene un periodico?” esclamò rivolto ad Antonio e facendo entrare tutta la sua testa all’interno del finestrino lasciato aperto. Antonio, fermata ormai la macchina, frugò tra i sedili per trovarvi un paio di quotidiani comperati a Baires prima della nostra partenza e glieli porse. Mai viso si mostrò cosi’ grato.
“Gratias. Hasta dos meses que no tengo noticias!” due mesi senza notizie. E mentre il vecchio, ignorandoci ormai si era tuffato in una concentrata lettura noi n’approfittammo per sgranchirci le gambe, Alle nostre spalle il ponte di legno, ormai valicato ci appariva meno pericoloso. Antonio voleva mostrarci qualcosa. Ed eccoci nuovamente in difficoltà, dato che lui ci costrinse a seguirlo costeggiando un fiume ancora arrabbiato. Solo allora notai che l’acqua era biancastra e lattiginosa, inoltre emanava tepore. Senz ’altro nelle vicinanze dovevano esserci delle saune naturali. Ed ecco Antonio in un pericoloso equilibrio su se stesso, con la sua catenina a cui era appeso il suo santo protettore in mano alla ricerca di un punto dove l’ avrebbe potuta immergere. Fu difficile ma ci riuscì, restò fermo così per alcuni minuti mentre noi tutti lo trattenevamo per un lembo d’abito. Ed una volta estratta, la medaglietta era diventata bianca ed il santo, pietrificato…
“Se adesso cadessimo tutti dentro…” notai lugubre ad alta voce. Guardai ancora una volta indietro dalla parte Argentina,mentre noi già ci trovavamo in terra cilena. Il ponte “De Los Incas” n’era strato il confine. Un ponte tanto fragile quanto sognato in passato da chi cercava in altra nazione la libertà…mentre adesso,a nostra insaputa ancora, la storia si stava ripetendo ancor più angosciante per migliaia di persone. “ …e se cadessimo dentro…” mi sentii ripetere, mentre forse poco lontano erano già nascoste nella boscaglia delle persone pronte ad affrontare anche i gorghi terribili di quell’acqua bollente pur di raggiungere la terra da noi appena lasciata.
Poco più avanti un cartello annunciava che ci trovavamo alla frontiera. San Martin de Los Andes era un raggruppamento di povere baracche di legno. Due barriere separavano il breve tratto di un viale non asfaltato nato, come tante altre strade che avevamo incontrato sul nostro cammino, semplice traccia posata su immenso spazio.
Tra le due barriere, una terra di nessuno.
Molti mesi più tardi avrei appreso che in una delle capanne di quel comprensorio, Pablo Neruda aveva scritto su una parete,prima di una partenza frettolosa verso un primo esilio: “A presto patria mia. Me ne vado ma ti porto con me”. In quel momento fu la mia salvezza non averlo saputo, perché certamente n’avrei chiesto notizia.
Numerosi militari affollavano ora i lati opposti del viale, lungo le baracche. Forse erano compagni d’infanzia fra loro, erano parenti oppure erano stati amici. stati amici. Ma adesso si respirava una strana atmosfera parevano già chiaramente nemici tra loro.
Lo comprendemmo allargando lo sguardo sul piccolo centro abitato. Stavano circolando numerosi mezzi da guerra impazziti: carri armati, jeep, cingolati. Alcuni uomini indossavano tute mimetiche sui loro corpi infuriati. Nessuno era privo di un’arma, foss’anche a tracolla. Ci trovavamo in pieno assetto di guerra altro che frontiera.
Pochi secondi bastarono ad Antonio per fiutare e comprendere che ci stavamo trovando in una situazione d’emergenza. Un’emergenza nascente e pericolosa.
Molti anni addietro, Antonio, era stato messo al muro, insieme a tanti altri partigiani, durante la guerra civile in Spagna, sua terra d’origine. Le mani gli furono legate dietro la schiena, e si era trovato tremante per la paura, in fila con gli altri, le spalle contro un muro. Un plotone d’esecuzione eseguì un comando superiore e sparò raffiche di mitra contro dei poveri corpi. Gli occhi d’Antonio incontrarono, allora, l’azzurro intenso del cielo dove si persero prima di chiudersi, in quella mattinata primaverile, Non si rese conto di essere caduto in terra, come tutti,rimanendo illeso per sua fortuna. Il suo corpo rimase immobile e seppure riprese i sensi, continuò a fingersi morto. Il cielo lo avvolse nel suo manto allora nascondendolo. Da allora i suoi occhi assunsero il colore blu cobalto,
Alla frontiera con il Cile, quella mattina, il cielo si mostrava altrettanto glorioso nonostante le sensazioni di malessere che mi salivano lungo la schiena. Antonio prese me e Walter sotto braccio sospingendoci ad un lato discreto di un misero marciapiede, mentre Clara osservava sconcertata i doganieri mettere sottosopra tutte le provviste rimaste in macchina. Pochi passi, davanti a noi la barra d’ingresso per Cile era già stata alzata, mentre alle nostre spalle era già stata abbassata. Non si vedevano altri pellegrini in quel ristretto spazio di nessuno. Antonio continuava a tenerci stretti e a sussurrare appena percettibile: “E’ pericoloso proseguire. Qualcosa può esplodere da un momento all’altro. Sono certo che qualcosa sta accadendo nella capitale. Non andremo a Santiago quindi…dietro front, alla svelta. Ritorniamo a Baires. C’è un aeroporto internazionale li, in Cile non ancora, quindi per voi sarà più facile ripartire. Qui rischiamo di restare imbottigliati!”
Non osammo replicare, ma dentro di me, lo chiamai: vecchio, codardo e tutti gli epiteti offensivi che una giovane testarda può dare ad un uomo d’ esperienza. Furono pensieri brutti e riprovevoli e non sono mai riuscita a vergognarmene abbastanza. In quel momento lui era il capo spedizione inoltre era caduto talmente in apprensione che non cercammo nemmeno di dissuaderlo., pur pensando che forse si trattava solo di un addestramento, di una messa in scena, ma se poi avesse avuto veramente ragione?
Ci fermammo così in quel posto di frontiera solo un poco. Il tempo di rifocillarci in una taverna strapiena di divise. Antonio ci fece ancora cenno di non discutere, ed esageratamente noi lo prendemmo sul serio, comportandoci da turisti spensierati davanti ad un tazzone di caffè fumante e a delle invitanti fette di pane casereccio coperte di “dulce de leche”, latte dolce. E nonostante tutto, fu la più squisita colazione della mia vita. Ero al caldo, circondata da picchi maestosi che continuavano a confabulare tra loro mentre l’Aconcagua ci sovrastava tutti suggerendo forse in nostro favore,qualcosa agli Dei…
Tutto sarebbe potuto accadere d’ora in avanti, su questa nostra difficile terra, ma le Vette, resteranno sempre intatte e miracolose a guardarci, se ne avranno voglia!
Resteranno integre nella loro maestosità, per mostrarsi alla gente a venire, per raccontare loro dolci e tristi storie, se solo questi avranno il tempo e la pace, dentro, per sedersi ai loro piedi ad ascoltare.
Non credo di aver compreso allora, distratta dai miei pensieri, la pericolosità della situazione che ci stava sommergendo. Sarebbe bastata una parola sbagliata, una sola,sarebbe bastato un gesto violento per mettere in moto un meccanismo già tanto fragile e assurdo anche verso dei turisti per caso.
Risalimmo in auto quindi facendo dietro front, direzione Argentina, accompagnati dal borbottio di Clara alla quale i doganieri, avevano rovinato l’ultimo dolce rimasto cercando chissà cosa.
Fummo scortati a lungo, questa volta, per tutto il percorso inverso verso Mendoza, da un lungo corteo di convogli militari cileni. Non intendevano impressionarci forse, ma Antonio smise di scherzare, Clara si assopì nervosa, e noi cercavamo di fare del nostro meglio per non aggravare la situazione.
Giungemmo a Mendoza dopo molte ore, per tirare infine un lungo respiro, quando il lugubre convoglio si staccò finalmente da noi, prendendo una strada diversa dalla nostra. Soltanto a Mendoza infatti convergevano vie diverse sempre dritte e solitarie dirette verso altri orizzonti. Noi, senza fermarci, ci dirigemmo nuovamente verso la Pampa, i rifugi di fortuna e sostando solo il tempo strettamente necessario per rifocillarci un poco. Antonio aveva fretta di ritornare a casa sua e la distanza era enorme, inoltre, non avevamo con noi una radio che ci avrebbe potuto permettere di ricevere una notizia. Una mancanza imperdonabile l’averla dimenticata…
I due uomini si alternavano così alla guida. Il tempo per uno di loro di allungare un poco le gambe e poi di nuovo instancabile avanti e ancora avanti… Clara dormicchiava più del solito ed io scrivevo i miei sogni, come potevo, su un notes traballante sulle ginocchia.
Walter era al volante quando in lontananza gli parve di vedere un ostacolo sulla carreggiata, probabilmente degli uomini…
“Antonio, svegliati! Sarà meglio che guidi tu. Io non ho la patente internazionale. Vedo qualcuno davanti a noi…”
Con la prontezza del solito gatto, il nostro amico s’irrigidì sul suo sedile.
“Calma! E’ solo una pattuglia di controllo. Rallenta Walter e, soprattutto, rimani tranquillo. Adesso io passo al tuo posto e tu al mio senza fermare l’ auto, darebbe nell’occhio.”
I due uomini si scavalcarono, scambiandosi i comandi e le posizioni. L’ apprensione li trasformava in agili gazzelle, e tutto questo movimento terminò giusto in tempo per fermarsi proprio davanti ad una pattuglia di militari dai mitra spianati. ANCORA?
“Raccomando a tutti la massima calma. Non innervosiamoli. Questi hanno più paura di noi ed un colpo fa presto a partire, perciò, signore, se chiederanno nostri documenti, porgete loro le vostre borse senza aprirle” poi aggiunse tra sé “Sta accadendo qualcosa… Qualche cosa di grave…” Fu con il più smagliante dei sorrisi quindi che si appostò al lato della carreggiata per poi farci scendere a turno, dopo di lui. “…Con il passo felpato di una ballerina!” mi avrebbe confidato più tardi Clara.“
“Cercando di non inciampare come sempre faccio quando sono nervosa, e cadere tra le braccia di un energumeno in divisa” le confidai a mia volta. Ma Intanto? Ebbene intanto…
“Buenas tarde. Que passa?” chiedeva Antonio con fare tranquillo.“Mis amigo soy turistas. Italianos!” mentre Walter ed io notavamo delle uniformi mimetiche, coprire dei corpi sdraiati, sotto una jeep parcheggiata davanti alla nostra auto. Erano corpi appiattiti in terra, pancia in sotto, mitragliatrici pronte ad aprire il fuoco contro i “nostri” corpi.
Oh, mammaaa!
Ci chiesero i documenti e, noi donne, porgemmo loro le nostre borse. Li cercassero loro, e lo fecero con solerzia mentre altri militari perquisivano di nuovo la nostra macchina.
La rimanenza della torta di Clara finì sull’asfalto questa volta, mentre le nostre pance furono tenute a bada da mitra aggiuntivi. Su di noi un’intera pattuglia, ed erano soldati Argentini! Che cosa stava accadendo?
Il tempo trascorreva lento e interminabile finché non ci concessero il permesso di proseguire… Ma che diavolo di paese era mai quello! Un viaggiatore non poteva procedere tranquillamente per la sua strada, senza trovarsi contro delle armi spianate…Fortunatamente il mio angelo custode e l ’occhiataccia d’Antonio mi sconsigliarono di esprimere una qualsiasi opinione in riguardo.
Come Dio volle, eravamo nuovamente tra noi e in movimento. Buenos Aires non doveva essere ormai più tanto lontana. In ogni modo fino al suo apparire non ci furono che monosillabi tra noi.
Antonio aprì, quasi in trans., la porta della sua abitazione, situata in un tranquillo quartiere di Baires. Accese la luce e barcollò, piegandosi un poco sulle ginocchia…Temetti che stesse per svenire, mentre c’indicò la nostra stanza e con il poco fiato che ancora aveva disse: “Sarà meglio che voi torniate in Italia. Domani stesso…Vi accompagnerò all’ aeroporto.”
Non ci rimase altro che abbracciarlo. Abbracciare forte questo nostro coraggioso amico, per poi buttarci su un letto lindo e ospitale. Baires… ancora una notte!
Mi vennero allora in mente gli “Inti Illimani”, un complesso canoro formato da cinque giovani cileni molto popolare da noi in Italia. Si erano stabiliti, da qualche tempo, in Europa quei ragazzi .Oh la loro musica! Così forte, patriottica e nello stesso tempo ricercata, dolce e tanto delicata. Usavano accompagnare le loro voci con strani strumenti: il charango, formato dal guscio d’armadillo; il quenà, strumento a fiato tramandato di generazione in generazione, e le chitarre naturalmente, di grandezze diverse. Con i soli strumenti imitavano perfettamente gli utensili usati dagli operai per i loro lavori nelle fabbriche, le seghe intente a tagliare il legname nelle segherie. Le parole su motivi musicali spesso inediti erano struggenti. Parlavano delle lotte che erano avvenute, anni addietro,nelle miniere di zinco o nei giacimenti di rame…e il ritmo saliva in un crescendo da mozzare il fiato, inneggiando alla libertà, al sogno d’uguaglianza tra la loro gente…
In Italia cantavano da qualche tempo nelle piazze, negli anfiteatri e mai iluoghi erano abbastanza ampi da contenere l’enorme folla di pacifisti che al loro fianco cercavano di sostenere la lotta ed un comune ideale.E ancora non sapevano ciò sarebbe accaduto ancora solo nei prossimi giorni a venire di tutti noi.
E con la loro musica nella mente, le immagini della volpe ipnotizzata dai fari della nostra auto, suoi volpacchiotti, mi addormentai…
L’indomani, accompagnati da Antonio e tutta la sua famiglia riunita per i saluti finali, compreso un neonato ciucciante il latte al seno di una giovane madre, raggiungemmo l’aeroporto d’Ezeiza!
Fu nuovamente un tumulto ad accoglierci. Una folla eccitata e nervosa c’ impediva di passare, fino a sommergerci nell’atrio aeroportuale. Una moltitudine umana cercava di partire come noi. C’erano donne che piangevano, ragazzini che urlavano, uomini che spingevano i loro cari verso una sicurezza tutta europea. C’erano ovunque sparse valigie, cartoni, borse, vasini, passeggini e tutto ciò che possa essere d’utilità e trasportabile in un viaggio che si stava presentando caotico e impossibile.
“Non ce la faremo mai.” dissi “e come potremmo senza prenotazione? Guarda quei bambini Antonio! Lascia partire loro. Noi siamo al sicuro con te. Siamo in vacanza per ora , poi fra qualche giorno partiremo.Di cosa hai paura?” Walter taceva, sapeva troppo bene quanto il nostro amico avesse ragione. Antonio si staccò dal nostro fianco per sparire tra la folla. Seguendolo però, con lo sguardo lo vidi gettare sprezzante una busta, semiaperta contente del denaro, tanto denaro sul bancone della compagnia aerea. Vidi anche un impiegato prendere la busta ed aggiungere dei nomi sulla lista dei passeggeri in partenza. I nostri nomi!
Caro, caro Antonio. Fu davvero struggente lasciarlo e provare, per la prima volta, un gran timore per lui.
Al momento dell’imbarco, nella confusione di una folla impazzita, un fagotto di bambina mi fu posato tra le braccia e tra le mani di Walter i suoi documenti.
“Almeno lei! Si salvi almeno lei!”.
Era la più piccola di un numeroso gruppo famigliare che non aveva trovato posto a bordo. Avevano ottenuto un solo biglietto. Altri parenti, avrebbero preso in consegna la piccola a Roma, ci dissero dei visi sconvolti. Così strinsi delicatamente quella faccina contro il mio viso, sentii il tepore del suo corpicino che si stava aggrappando a me, e con lei in tutta fretta c’imbarcammo.
A bordo della carlinga erano state aggiunte molte file di sedili. Ci trovavamo quindi tutti stretti come sardine in uno spazio veramente minimo. Gli arti s’intorpidirono quasi immediatamente, I crampi mi perseguitarono a lungo, ma non osai lamentarmi.
Continuavo a stringere la bimba tra le braccia, cullandola e pensando alla violenza che già stava subendo con la separazione dai suoi genitori. Era un abuso gratuito ed indotto un’ingiustizia che avrebbe raggiunto livelli inimmaginabili in terra cilena prima, in quella argentina poi. Ma per ora stavamo dirigendoci verso la sicurezza, una sicurezza chiamata Italia.
Eravamo ancora in volo, quando il presidente del Cile Salvador Allende, veniva ucciso nel palazzo presidenziale della Moneda… Era il 13 settembre del 1973.
Nuovamente a casa, all’aeroporto di Fiumicino, i doganieri ci chiesero se avevamo avuto una piacevole vacanza…
Da noi, gli Inti Illimani, ormai esuli politici continuarono a cantare negli stadi sempre più stracolmi di persone. Cantavano “El pueblo unido jamas serà vencido” Un popolo unito non potrà essere vinto! Lo urlavano adesso ad enormi folle sempre più partecipi. I loro pugni sempre serrati, alti verso il cielo, verso le cime perennemente innevate dei loro monti così lontani…e per noi così vicini. Con questo loro gesto dal palco, alzavano anche i lembi dei poncho rossi, come il sangue che colava ormai a fiumi sulla loro patria sofferente.
In Cile, migliaia erano diventate le deportazioni di massa, uomini, donne bambini venivano rinchiusi nello stadio di Santiago. Infinite e crudeli le torture, i morti non si contavano più…Victor Jarra, tra di loro. Un altro giovane, che aveva cantato, accompagnandosi con la chitarra. Aveva cantato l’amore, il lavoro, la libertà…Gli spaccarono poi la bocca con il calcio di un fucile nello stadio di Santiago: “Così non potrai più cantare…”
Gli spezzarono le mani con spranghe di ferro nello stadio di Santiago: “Così non potrai più suonare…”
Infine lo uccisero, così non avrebbe più composto musica, nemmeno con il solo suo cuore nello stadio di Santiago.
A Baires, poi, centinaia erano diventati i desaparecidos, gli scomparsi. Scomparivano tutti i giorni, tutte le notti, a tutte le ore. Scomparvero giovani, meno giovani, bambini, persone. Scomparivano gli studenti insieme ai loro professori dalle università nella dolce Mendoza…
Forse ormai saranno diventati secchi anche i tubi nei quali scivolava tanto buon vino…
…e Antonio che non scriveva più!
Riaccendo la televisione, giusto in tempo per vedere i nostri ragazzi abbracciare la coppa Davis, avvinghiati insieme. Corrono poi intorno al campo….in quello stadio… e li guardo, mio malgrado, mentre esultano per la vittoria più infamante che uno sportivo possa accettare, che un uomo vero possa mai sopportare.
Vedo anche degli ufficiali in divisa schierati sul palco d’onore mentre rendono omaggio persino ai propri atleti, i topolini, giunti alla finale senza gioco e certamente senza onore.
Lentamente mi avvicino al piccolo schermo, e nella solitudine della casa e tristezza del mio cuore, sputo …
…lo faccio su delle facce feroci, su degli occhiali neri, sui dei baffetti truci, con il pianto dentro e tanta rabbia addosso, e infine sputo, perché no, anche sulla nostra bandiera.

COPPA DAVIS: Una volta l’anno I migliori giocatori di tennis d’ogni nazione sono suddivisi in squadre e giocano in rappresentanza del loro paese.

BAIRES: Diminutivo di Buenos Aires



STORIA: Dopo la morte del presidente Allende, suicida secondo l’ufficialità. Il generale Pinochet s’impadronì del potere alla guida di una giunta militare, e iniziò una dura repressione in tutto il Cile. Il poeta Pablo Neruda morì 12 giorni dopo il suo amico presidente In Argentina seguirono anni duri e difficili. Morto Peron, ritornato presidente, sua moglie Isabelle occupò il suo posto. Dietro di lei, militari che s’impadronirono del potere con il golpe nel marzo del 1976. Raphael Videla fu allora proclamato capo dello stato e seguì un regime duro ed apprensivo.

ANTONIO: Morì di cancro prima di vedere lo scempio nel suo nuovo paese. Chiese a Clara che gli fosse applicata l’eutanasia. Fu accontentato…

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