di Pablo Xon –
Qua tutti si lamentano del caldo, ma non sanno nemmeno cosa sia, il caldo! Nemmeno io lo sapevo, finche non sono stato nel sertao. Il sertao non è solo il luogo più arido e secco del mondo intero, ma anche il più caldo che si possa immaginare. Per quanto vi sforziate di pensare ad una terra desertica, cotta e corrugata dal sole, sovrastata da un cielo talmente limpido da sembrare incapace di offuscare il minimo raggio di sole, il sertao sarà sempre lì: più secco è più arido. Io l’ho visto. Ho vissuto là per un’estate, quando il sole è così caldo da trasformare la terra in una piana vetrificata, da carbonizzare le piante e qualsiasi animale abbastanza sciocco da farsi trovare lontano dall’ombra nelle ore centrali del giorno. Sono stato lì tutta l’estate, si doveva lavorare. Dopo due settimane già non ne potevo più. Impossibile lavarsi, non c’è acqua, impossibile uscire dai paesi, una spianata arida dove il sole non dà scampo. Una terra gialla e rossa, una linea nera dei monti lontani, a nord, e sopra il cielo tanto terso da non sembrare neanche aria, ma una lastra di cristallo schiantata lì, in mezzo al nulla. Nel sertao non esiste il tramonto, non scende la notte. La notte precipita e ti schiaccia in un attimo. Sei lì in piedi, col sole che ti cuoce, e d’un tratto è buio, con le pietre che scricchiolano per lo sbalzo di temperatura.
E poi arriva il freddo, la notte gelida che ti fa odiare ancor di più il giorno caldo. Di lavorare neanche parlarne, chi ci aveva mandato lì non c’era mai stato, altrimenti avrebbe risparmiato i soldi. Si passavano le giornate al bar. La taberna, l’osteria, l’unica, poco fuori dal centro del paese, aggrappata ad un blocco di roccia. Un grosso sasso, poco più alto di un nostro condominio, ma che nella spianata spiccava a tal punto da meritarsi l’appellativo di “monte”. La taberna stava attaccata lì sotto, alla ricerca di un minimo d’ombra che non basta mai. E lì trascorrevano i giorni del villaggio, con solo con due compagne: la puzza e la birra. La puzza di decine di uomini, chi lavora col caldo? Chi si lava senz’acqua? La puzza della birra che usciva già tiepida dalle brocche per diventare calda nel giro di pochi, pochissimi, minuti. Neanche il tempo di berla.
Nessuno, eccetto qualche ubriacone, resisteva dentro l’osteria per più di qualche minuto. L’odore ti spingeva fuori. Diventava solido, ondeggiava, ti costringeva ad uscire per respirare; appena fuori della porta gli uomini inspiravano profondamente, come dopo una lunga apnea, per essere subito sbattuti indietro dal calore del sole, che come un calcio nei polmoni ti scaraventava di nuovo dentro, intontito, a cercare un’altra birra e un po’ d’ombra. Era un continuo andare e venire. Entra bevi esci respira. Entra bevi esci respira. Col caldo e l’alcool che ti piegavano le gambe, finché non eri abbastanza ubriaco da non sentire più la puzza, perché ormai ne eri parte. La puzza del sudore non lavato a cui si aggiungeva il rancido dell’alcool economico che evapora dalla pelle e l’odore acido dell’orina. Chi ha mai visto un bagno, nel sertao? A farla sotto il sole non arriva a terra, evapora per strada.
Un pomeriggio eravamo lì, in attesa della sera, quando dalla stradina corse giù uno dei figli della Nina. Non so quale figlio, ne ha tanti e sembrano tutti uguali, ognuno la copia precisa del fratello maggiore l’anno prima. Arrivava di corsa, urlando come uno scalmanato, cercando di richiamare l’attenzione di qualcuno di noi, presi nel perenne movimento tra il banco del bar e la porta. Ci riuscì presto, un po’ perché nessuno aveva di meglio da fare che ascoltare un bambino che strepitava, un po’ perché una parola ci colpì: temporale. “Arriva il temporale!”, gridava.
Nel giro di due secondi su tutta l’osteria era sceso un silenzio funebre, nel giro di altri cinque eravamo tutti in strada. “Dove?”, chiedevamo, “Da dove arriva il temporale?”. Allora il piccolo, con aria seria e fiera, con tutti i nostri sguardi addosso, tentando di riprendersi e nascondere il fiatone della corsa, alzò un braccio per indicare il nord. Neanche il tempo di abbassarlo e noi eravamo già in fuga, di corsa per i vicoli stretti verso la piazza centrale, la piazza “del mercado”.
E lì abbiamo visto le nubi arrivare. Nubi tetre. Talmente scure da sembrare dei fori nel cielo, a mostrare le tenebre dello spazio al di là. E lampi che le illuminavano, tuoni che le scuotevano, come se fossero enormi dirigibili che portassero una guerra nella pancia. Finalmente arriva la pioggia! Finalmente! A questo pensavamo tutti, all’unisono, lì in piedi sotto il sole sempre più caldo. Uno di quei momenti in cui i pensieri sono così limpidi da essere più comprensibili delle parole. Finalmente, dopo mesi di arsura, settimane dopo settimane di aridità infernale. E le nubi si avvicinavano sempre di più, sempre più veloci.
Fu quando furono a pochi chilometri di distanza che vedemmo lo strano fenomeno: sotto le nubi si vedeva la pioggia cadere, e poi uno strato bianco, come di spuma del mare, che ribolliva sopra al terreno. Il tempo di vederlo, di pensarci, di capire, e ormai era già troppo tardi. Le nuvole erano arrivate. Ma non la pioggia. Le nuvole erano sopra di noi, lasciando cadere tonnellate d’acqua. Una pioggia fitta che però non ci bagnava. No, era troppo caldo. Le gocce si riscaldavano cadendo nell’aria torrida e lentamente, ma inesorabilmente, evaporavano, formando pochi metri sopra le nostre teste uno strato di vapore biancastro ribollente che risaliva nel corpo principale della nuvola.
E così come erano arrivate le nubi ci superarono e si allontanarono. Lasciandoci lì sotto il sole, caldo come non mai. Asciutti. Nel secco polveroso di una terra ormai troppo stanca anche per gemere. Fu allora che ci raggiunse il barbiere del paese, un vecchio alcolizzato che non ci aveva seguito nella corsa per raggiungere la piazza. “L’ho sempre detto che quando si ha sete l’acqua non va bene. Ci vuole il vino”, ci disse con un tono sarcastico.
E così tornammo all’osteria, a sperare nel prossimo temporale. Da allora ho saputo cos’è il caldo.
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