Asia

Non ci ferma neanche Celestino

di Mauro Morelli –
Ci sarebbero state tutte le premesse per mandare tutto a monte: dopo aver superato le difficoltà per conciliare i tempi tra il nostro volo di ritorno, a causa delle scarse disponibilità di posti sugli aerei da Bangkok a Roma, e la successiva partenza di Valentina, negli ultimi quattro giorni antecedenti la partenza ci siamo visti venire addosso una serie di problemi di salute che sembravano dovessero invitarci a restare a casa. Grazia, subito dopo aver preso l’iniezione di richiamo del vaccino antitetanico, ha cominciato ad avvertire un gonfiore unito ad un indurimento del braccio; subito dal medico che ha prescritto adeguato antibiotico; migliora il gonfiore ma subentra una infiammazione che ora dopo ora si estende a tutto il corpo: sospendere antibiotico e prendere antistaminico. Per quanto mi riguarda, il venerdì (la partenza era stabilita per il successivo martedì) comincio a sentire un certo dolore alla schiena: non ci do molto peso, ma con il passare delle ore sento che il dolore aumenta: sotto con antidolorifici. Domenica sto meglio, e lunedì quasi bene; Grazia ha finalmente fermato l’infiammazione ormai in via di diminuzione. Lunedì pomeriggio, doccia e taglio capelli: mi alzo dallo sgabello e…un tremendo dolor di vita mi costringe ad andare subito a letto. Siamo incerti se telefonare ad Alberto ed Ornella per informarli della impossibilità per noi di mettersi in viaggio in quelle condizioni, ma il fatto che noi abbiamo anche il loro biglietto aereo, con il rischio che non ci vengano rimborsati trattandosi di biglietti a tariffa agevolata, ci fa rimandare tutto alla mattina successiva; notte agitata, penso al problema dei bagagli, allora decido di rinunciare a portare il fornetto a Chiara e di partire ugualmente. Al mattino del 10 febbraio, quando mi alzo, ho un forte dolore che mi impedisce di camminare diritto e soprattutto di chinarmi per prendere i bagagli e tantomeno trasportarli e caricarli sul treno.
Ormai è deciso, si parte! Sfidando così tutti gli avvertimenti: Grazia non ha il coraggio di accennare a questo problema – vedi Celestino – ma senz’altro lo pensa. Con l’aiuto di qualche provvidenziale passeggero riusciamo ad arrivare, con i nostri pesanti bagagli, all’aeroporto di Fiumicino. Come d’abitudine arriviamo con largo anticipo e, tra un Voltaren e una bustina di Aulin, attendiamo pazientemente l’arrivo di Alberto e Ornella. Le operazioni di check-in, imbarco e decollo si svolgono regolarmente così come il volo da Roma a Bangkok che ha una durata di poco inferiore alle 10 ore: in tutto questo tempo vediamo un paio di films, leggiamo, smaniamo in anguste poltrone e infine gustiamo una buona cenetta e una abbondante colazione all’inglese prima di atterrare in Thailandia. Breve attesa e nuovo decollo per Yangon, dove atterriamo dopo poco più di un’ora, non senza aver gustato un altro pranzetto allietato da una orchidea per le nostre signore, gentilmente offerta dalla Thai Airways. Atterraggio morbido, formalità doganali abbastanza lunghe e finalmente vediamo Soe che ci sta aspettando all’interno dell’aeroporto e, in lontananza, la nostra Chiara in perfetta tenuta birmana.
Grandi abbracci e grande confusione: all’uscita dell’aeroporto siamo circondati da molti ragazzi birmani, evidentemente tutti del gruppo di Soe, che ci tolgono le valigie di mano per caricarle su un’auto, mentre noi quattro insieme a Chiara e Soe, saliamo sulla famosa jeep Mitsubishi Pajero, recente acquisto della Myanma Smile Land: e così inizia il nostro viaggio sulle strade birmane. L’impressione di Yangon, ritornandoci dopo poco più di due anni, è positiva, anche se non possiamo dire di osservare grandi cambiamenti. Ci fa una buona impressione la bella strada, divisa da un filare di alberi ben tenuti, che conduce verso il centro della città, ma per il resto vediamo le solite cose: bus carichi fino all’inverosimile, qualche grande palazzo in costruzione con impalcature rigorosamente fatte di canne di bambù anche alle grandi altezze, gli uomini che indossano ancora il longyi, tutte le scritte ancora in caratteri birmani salvo alcuni cartelloni pubblicitari -peraltro in quantità ridotta rispetto a due anni fa -, traffico intenso ma senza esagerare, macchine ancora con guida a destra nonostante che la circolazione stradale sia anch’essa a destra (unico paese in tutto il sud-est asiatico) e infine il solito stupendo cielo azzurro che ci auguriamo possa accompagnarci, come l’altra volta, per l’intera durata della nostra permanenza in questo paese. Noto solo la mancanza dei caratteristici mini pick-up che, con pochissimi kyat, ti trasportavano velocemente da una parte all’altra di Yangon: pazienza!

NEL MITICO SUD-EST ASIATICO
Arriviamo così al Guest Care Hotel, situato in Dhamma Zedi Road, una arteria centrale che collega Inya Road a U Wisara Road, due delle strade principali di Yangon. La costruzione è recente e si trova all’interno di un giardino. L’impressione è ottima e anche le camere che ci vengono assegnate risultano di nostro completo gradimento: niente a che vedere con l’albergo ove dormimmo in occasione del nostro precedente viaggio.
Doccia ristoratrice, sistemazione bagagli, Voltaren e….via alla riscoperta della capitale del Myanmar, con il desiderio di non limitarla alla sola visita della Shwedagon Pagoda. Prima di arrivare alla pagoda facciamo una sosta all’ufficio immigrazione dove Chiara deve svolgere una pratica per il proseguimento del suo soggiorno in Myanmar. Grazia, che ha voluto accompagnare Chiara all’interno del palazzo, esce sconvolta da ciò che ha veduto: immondizia nei cortili, corridoi e uffici del palazzo, organizzazione neppure lontanamente paragonabile a quella di un ufficio italiano, corruzione latente, persone che mangiano e forse vivono negli uffici aperti al pubblico: anche questa è Birmania! Noi attendiamo fuori, seduti su una panchina ad osservare le persone: Alberto ed Ornella non dicono niente, ma dalle loro espressioni capisco che sono scioccati dalla sporcizia che c’è per le strade, dalle persone che viaggiano aggrappate a fatiscenti camioncini senza il minimo rispetto della sicurezza; spero solo che riescano a superare questo momento e possano apprezzare i lati belli di questo mondo tanto diverso dal nostro. Di nuovo in macchina alla volta della principale attrattiva turistica di Yangon: la Shwedagon Pagoda. La fondazione di questa pagoda, una delle più venerate di tutto il sud-est asiatico, risale ad un paio di secoli prima di Cristo, ma l’aspetto attuale decorre dalla seconda metà del XVIII secolo. La leggenda vuole che in questa pagoda siano custoditi ben otto capelli donati dal Buddha durante la sua vita terrena. Il complesso della pagoda è costituita da una grande piattaforma costruita su un colle alto 60 metri situato nel centro della città; si accede alla piattaforma mediante quattro grandi scalinate, coperte, corrispondenti ai quattro punti cardinali, e fiancheggiate da negozi che vendono oggetti di culto e souvenir. Sulla piattaforma, a forma rettangolare di oltre 1000 metri quadri e interamente pavimentata con lucide mattonelle colorate, sorgono ben 64 edifici religiosi, tutti costruiti e distribuiti senza un disegno organico e in stili e materiali diversi, insieme a centinaia di piccole edicole con immagini sacre, il tutto in una affascinante fantasmagoria di colori, di forme, di suoni e di profumi. Poi, al centro, si innalza il simbolo della città, la stupenda, enorme cupola dorata di quasi 100 metri di altezza e 500 metri di circonferenza alla base, visibile da tutti i punti della città , costruita su tre terrazze ottagonali digradanti appoggiate su un piedistallo quadrato alto 6 metri. Inutile dire che un occidentale che mette per la prima volta piede in un complesso del genere, resta, a dir poco, completamente sconcertato dallo spettacolo che gli si apre davanti, abituato come è alle sue chiese cristiane, con la loro atmosfera rispettosa, silenziosa, buia e spesso austera: anche la più sfolgorante chiesa gotica o barocca sembra austera se confrontata con gli edifici e le immagini buddhiste. Poi, piano piano, comincia a riprendersi e a osservare la variopinta folla di fedeli, tutti rigorosamente a piedi nudi, che incessantemente passeggia in senso orario attorno alla cupola e tra quella miriade di immagini ed edifici, senza mostrare alcun timore reverenziale ma pur sempre con un contegno di luminosa dignità e serenità.
Abituati alla visita turistica delle nostre chiese vorremmo anche qui capire e conoscere il significato di ogni immagine, di ogni scena, di ogni edificio, ricercarne il periodo di costruzione o le qualità artistiche, ma poi capiamo che la chiave di lettura deve essere diversa perché il bello qui è immergersi nel mare delle costruzioni, delle cose, dei colori, dei materiali, dei suoni in una completa e armoniosa combinazione con le persone, ed ecco: cesti ricolmi di banane, cocomeri e papaje, impossibili orologi moderni in plastica e metallo appesi intorno a immagini sacre come ex-voto, fumanti bastoncini di incenso, centinaia di immagini di Buddha seduti, reclinati, in piedi, con le mani in diverse posizioni, ognuna delle quali con il suo preciso significato, immagini di nat, una specie di spiriti che risalgono all’animismo pre-buddhista e che sono tuttora tenuti buoni dai birmani con offerte, famiglie intere di fedeli seduti sul pavimento di un tempietto, sotto decine di altre immagini di Buddha, che pregano, meditano, mangiano e bevono, un gruppo di ragazze birmane che appena ci vedono ci chiedono una foto con loro, fedeli che pregano l’immagine corrispondente al loro giorno di nascita annaffiandola ripetutamente con pentolini pieni d’acqua in segno di rispetto e di omaggio, campane di varie forme e dimensioni appese ad altezza d’uomo che è di buon augurio suonare con un bastone che troviamo lì vicino…e così via. Facciamo un intero giro intorno alla cupola dorata, curiosando nell’interno di alcuni edifici, fotografandoci ai piedi del Bodhi Tree, nato da un seme dell’Albero della Saggezza sotto il quale Gautama Buddha raggiunse l’illuminazione, e poi usciamo scendendo per la grande scala.
Prima di andare a casa di Chiara e Soe facciamo una sosta al Bogyoke Aug San Market: quasi duemila negozietti, uno accanto all’altro, all’interno di un grandissimo edificio, che vendono di tutto, dagli oggetti di uso quotidiano ai gioielli, dai tessuti ai generi alimentari, dai prodotti dell’artigianato alle insostituibili ciabattine infradito. Gran movimento anche fuori del mercato con altre decine di negozi e venditori ambulanti; piacevole e caratteristico il gruppo di contadini che , seduti per terra lungo le scale e un ponte sulla ferrovia, espongono i loro modesti ma coloratissimi prodotti alimentari. Resistiamo alla tentazione di addentare una succosa fetta di cocomero, ma ci facciamo sedurre da un grosso pompelmo, l’unico frutto che ci azzardiamo a mangiare in quanto da sbucciare! Ornella ed Alberto per il momento rinunciano anche al pompelmo, nonostante il gran caldo, riservandosi di mangiarlo solo dopo che lo avranno lavato con l’amuchina che si sono portata da casa: che differenza da quello che succederà nei giorni successivi! Attraversiamo la città in jeep fino alla casa di Chiara e Soe, situata in un quartiere abbastanza popolare nella periferia di Yangon. Vi arriviamo quando ormai è già buio. E’ un palazzo di quattro piani, con balconi, uno spiazzo sterrato davanti, alcuni alberi. L’appartamento, situato al secondo piano, è formato da un ingresso-soggiorno, camera da letto, piccola cucina e bagno. Nel soggiorno una intera parete ricoperta di fotografie dei vari tours guidati da Soe; in camera un letto con baldacchino ricoperto da una zanzariera. Ci rinfreschiamo con una bibita ghiacciata e facciamo il piano del tour cercando di conciliare le esigenze di Alberto e Ornella, per la prima volta nel paese, con le nostre, ormai veterani.
Per la prima cena non badiamo a spese e andiamo in un bel ristorante vicino ad un lago artificiale nel centro della città, dove ci accostiamo con buoni risultati alla cucina birmana: riso, spaghetti saltati con verdure, gamberi fritti, accompagnati da un piacevole spettacolo di danze e musiche birmane. Nonostante il cambiamento di fuso e il lungo viaggio aereo sulle spalle stiamo tutti bene; comunque dopo aver cenato ce ne andiamo volentieri a letto: domani inizia il vero viaggio.

IL PRIMO IMPATTO CON LE STRADE BIRMANE

Giovedì 12 febbraio, dopo una discreta dormita nonostante una litania continua che ci ha cullato per tutta la notte, partiamo di buon mattino: la jeep è carica di valigie, zaini, taniche di benzina e ruote di scorta; Soe deve faticare per legare il tutto sul portabagagli. All’interno della jeep ci sono quattro posti comodi più due strapuntini: per il momento Grazia e Chiara debbono sacrificarsi perché io, a causa del mal di schiena ancora forte, vengo fatto accomodare al posto d’onore accanto al guidatore. Chiara e Soe hanno provveduto al cambio della valuta e ognuno di noi è ora in possesso di un ingombrante rotolo di banconote birmane, i kiat, pronuncia ciat, ognuno dei quali ci è venuto a costare poco meno di 8 lire italiane.
La giornata è interamente dedicata al trasferimento da Yangon fino a Pyay (ex Prome), città situata a 289 Km. a nord della capitale, di scarso interesse turistico, ma tappa intermedia praticamente obbligatoria per poter raggiungere Bagan. Alla periferia di Yangon facciamo una sosta per rifornimento di benzina: c’è una lunga fila di auto e camion in paziente attesa perché allo scarsissimo numero di distributori esistenti nel paese va aggiunto il problema del razionamento della benzina: è consentito un solo rifornimento al giorno nello stesso distributore e per quantità variabili in base alla disponibilità del distributore stesso, ma comunque mai sufficienti a riempire un serbatoio. Finalmente arriviamo alla pompa e ci vengono assegnati ben sette galloni; Soe è contento e così finalmente ci avviamo verso nord.
E’ una bellissima giornata con un cielo azzurro privo di nubi e fa molto caldo; il morale è alle stelle. Lasciata Yangon percorriamo una specie di strada a pagamento sufficientemente larga per farci transitare almeno due mezzi e abbastanza, ma mai troppo, liscia per evitarmi eccessive scosse alla schiena. Guardiamo fuori dal finestrino e ci convinciamo sempre di più di essere in un mondo tanto diverso dal nostro : vorremmo imprimerci nella mente tutte le cose che vediamo, ma non è una cosa facile, perché sono tante. Attraversiamo piccoli villaggi di capanne fatte da una struttura di semplici canne di bambù e da pareti costituite da foglie di palma intrecciate; le capanne sono rialzate dal terreno, tipo palafitta, per poter uscire indenni dalle forte piogge monsoniche e alluvioni che flagellano il paese da giugno ad ottobre. Ora siamo a febbraio e quindi sono diversi mesi che non piove: la vegetazione è ancora rigogliosa ma non ha più quel colore verde brillante e quell’intensità che ci dicono avere alla fine della stagione delle piogge. Spesso all’ingresso della capanna, dalla più modesta e povera a quella che si distingue dalle altre per un seppur modesto recinto, si nota un otre di terracotta, poggiato su un piedistallo, con una tazza accanto: è il contenitore dell’acqua “potabile” e chiunque ne abbia bisogno può servirsene. La strada asfaltata è fiancheggiata da entrambi i lati da una banchina sterrata sufficientemente larga per farci passare i carri trainati da due zebù dalla caratteristica gobba che vanno o tornano dal lavoro dei campi, o file di altri zebù, a volte di una magrezza spaventosa, guidate verso magri pascoli da bambini scalzi. Notevole il movimento di biciclette e di pedoni, soprattutto in prossimità di qualche centro abitato. Soe continua a guidare senza problemi aiutato da una strada che si rivelerà come la più confortevole di tutto il viaggio. Attraversiamo risaie più o meno verdi visitate da bianchi ibis, vediamo banani carichi di frutti e soprattutto restiamo affascinati dalla bellezza di un albero altissimo, con poche foglie, ma con i rami pieni di stupendi fiori di un colore tra il rosso e l’arancione: se ho capito bene Soe mi dice che si chiama l’albero dei fiori di carta; ne vediamo diversi lungo la strada sperando di avere prima o poi l’occasione per poterlo fotografare: certo non possiamo chiedere a Soe di fermarsi ogni momento, anche se a volte ne varrebbe veramente la pena. Come quando vediamo passare un treno con vagoni per passeggeri stivati sino all’inverosimile e altri vagoni scoperti pieni di merce sulla quale naturalmente stavano placidamente seduti altri viaggiatori: la voglia di questa foto ci resterà per tutto il viaggio. Vediamo alcune tombe in pietra collocate ai margini di qualche campo: i buddhisti non usano seppellire i loro morti e allora ne deduciamo che deve trattarsi di morti musulmani. Finalmente giungiamo in un piccolo centro abitato : una serie di modeste botteghe situate sui due lati della strada e in una di queste entriamo e ci sediamo per mangiare; in considerazione della modestia del locale e della sua atavica mancanza di pulizie, Grazia ed io temiamo che Alberto e Ornella possano dar segni di disagio al pensiero di dover mangiare li: e invece tutti contenti e soddisfatti ordiniamo e mangiamo, tutti quanti, nessuno escluso: il ghiaccio è rotto e da ora in poi niente più ci fermerà o quasi. Ci sono pochi avventori che naturalmente ci guardano. Viene una ragazzina con un vassoio pieno di uccellini arrostiti: si mette timidamente da una parte senza chiederci niente, aspetta e basta. Compriamo qualche uccellino per farla contenta. Le facciamo una foto con la promessa di fargliene avere una copia tramite Chiara non appena avrà occasione di tornarci con altri turisti. Al termine del pranzo andiamo a curiosare fino alla zona cucina del ristorante: c’è una vecchia donna appollaiata su uno sgabello, che sta fumando avidamente un grosso sigaro, indifferente ai nostri scatti fotografici; sopra un fuoco di legna e carbone stanno facendo saltare nell’olio un misto di verdure dentro una grossa e annerita padella dalla caratteristica forma conica; tre bambine sospendono il lavaggio dei piatti e ci guardano sorridendo, curiose e contente della nostra presenza e del nostro interesse; dopo la zona cucina si esce all’aria aperta, dove tra banani e ortaggi, una piccola capanna rialzata con una scaletta per salirvi si fa chiaramente identificare per il gabinetto. Torniamo al tavolo: Ornella è già entusiasta, Alberto, che non ci ha seguiti, un po’ meno. Ci beviamo un buon caffè lungo e di nuovo in macchina verso Pyay. Nuovi villaggi, carri trainati da zebù, autobus rigorosamente carichi fino all’inverosimile, ciclisti singoli e con sidecar. Ogni abitazione che dà sulla strada ha il suo piccolo negozietto dove espone buste di caramelle, frutta, semi salati e quant’altro. Spesso tra la strada e le abitazioni scorre un modesto corso d’acqua: tre donne, accucciate alla tipica maniera birmana e cioè sui piedi ben piantati per terra, stanno lavando i loro panni sbattendoli contro una pietra. La strada è costeggiata da un rado filare di piantine di alberi di teak: forse sarà a causa delle ormai lontane piogge, ma nel vederne lo stato attuale non siamo propensi a sperare in una loro crescita rigogliosa. Pochi gli animali da cortile; alcuni cani, di una magrezza impressionante, abbaiano al nostro passaggio.
Finalmente arriviamo a Pyay e ci sistemiamo al Sweet Golden Land Motel, un piacevole villaggio di bungalow in mezzo al verde, un po’ distante dalla città. Una buona doccia e prima di cena andiamo a visitare la città quando ormai sta scendendo la sera. Lasciamo l’auto nei pressi dell’unico punto interessante costituito dalla Shwesandaw Paya, uno dei luoghi di pellegrinaggio più sacri del paese. Questa pagoda è costruita su una piccola altura e per visitarla c’è l’alternativa tra una scalinata coperta e un ascensore: optiamo per questa seconda scelta e al prezzo di 5 kiat ci troviamo, naturalmente scalzi, stipati in una cabina di ascensore insieme a una dozzina di pellegrini birmani. La pagoda ricorda molto, in piccolo, quella di Yangon e quindi ci limitiamo ad un breve giro intorno allo stupa centrale, soffermandosi solo a vedere da una terrazza una gigantesca statua di Buddha seduto, immersa tra gli alberi e illuminata da potenti fari. Torniamo da basso sempre in ascensore, curiosiamo tra i negozi di souvenir mentre un simpaticissimo bambino di 5/6 anni, con due occhi furbi e vispi, si attacca a noi e non ci molla fintanto che non gli avremo dato quello che voleva e cioè qualche kiat. E’ buio, siamo stanchi e torniamo in albergo dove, prima di andarcene a letto, consumiamo una buona cena. Io ho sempre un forte mal di schiena e Ornella comincia ad avvertire un dolore al piede sinistro. Speriamo bene.

QUALCHE PROBLEMA ALLA JEEP

Oggi, venerdì 13 febbraio, ci aspetta la seconda parte del lungo trasferimento per la prima meta importante del tour, il tratto Pyay-Bagan, 395 chilometri di strada birmana. Quindi sveglia e partenza di buon’ora. Prima però mi faccio fare da un amico di Soe un provvidenziale massaggio alla schiena a base di unguento di tigre completato con l’applicazione di un, dicono, miracoloso cerotto. Anche oggi comunque mi viene concesso il posto più comodo.
La prima parte del percorso si svolge lungo il mitico Ayeyarwady river, il più lungo fiume del Myanmar, 2250 chilometri, di cui ben 1600 navigabili, che, passando per Mandalay, attraversa in lungo tutto il paese andando a sfociare nel mar delle Andamane ad ovest di Yangon. Poco dopo aver lasciato Pyay vediamo il New Bridge, ponte di recente costruzione per agevolare il viaggio verso il mare, che insieme a quello di Mandalay, costituisce la totalità dei ponti sull’Ayeyarwady! La strada si rivela sempre più sconnessa e io devo lavorare molto di braccia per tentare di attutire i colpi alla schiena. Attraversiamo villaggi ancora più poveri di quelli visti ieri, mentre il paesaggio si fa più arido. Facciamo una sosta lungo la strada per immergere lo sguardo nelle placide acque dell’Ayeyarwady in un punto ove esiste un servizio di traghetto tra una sponda e l’altra: stanno traghettando qualche dozzina di sacchi di riso, sacchi che poi vengono portati a spalla fin sulla strada. Il traghetto è costituito da un grosso chiattone mosso da un’elica applicata alla fine di un lungo bastone che sorregge il motore e nello stesso tempo fa da timone. Noi osserviamo la scena, mentre un gruppetto di birmani che evidentemente sta aspettando un mezzo di trasporto, ci guarda divertito, pieno di dignitosa curiosità: una cosa è certa, mai ci capiterà di osservare negli occhi di queste persone e di tutte quelle che incontreremo nei prossimi giorni una punta di invidia. Riprendiamo il viaggio e attraversiamo piantagioni di canna da zucchero e di cotone: vediamo molto bene i bianchi batuffoli attaccati alle piante. Man mano che andiamo verso nord il paesaggio comincia a variare: ora dominano altissime palme da cocco, utilizzato per la produzione dello zucchero e di un liquore bevuto dai birmani che vogliono ubriacarsi. Vediamo Soe che dà segni di preoccupazione: c’è qualcosa che non va nel motore. Facciamo una sosta in un piccolo agglomerato di 4 o 5 capanne di bambù lungo la strada e mentre Chiara e Soe tentano di scoprire il problema del motore, noi, macchina fotografica alla mano, ci avviciniamo ai pochi abitanti che già ci stanno osservando. Ci sono soltanto un paio di donne con qualche bambino. Cerchiamo di familiarizzare con una mamma che tiene un bambino in collo; riusciamo ad ottenere il permesso di entrare nella sua capanna: saliamo la scala di bambù, cercando di mantenere un rispettoso contegno anche se ci sentiamo un po’ a disagio per la nostra situazione di turisti che entrano a curiosare in un mondo tanto diverso. La capanna è costituita da due vani separati da una stuoia; camminiamo scalzi e leggermente curvi sul pavimento fatto di foglie di palma intrecciata ; le due stanze sono praticamente prive di mobili se si eccettua una modesta branda; vedo però due casse di un apparecchio stereo e alcune immagini alle pareti: immagini sacre insieme ad un poster di un qualche divo birmano; la parete che dà sulla strada è interamente aperta come una finestra. La donna ci lascia curiosare, osservandoci: purtroppo non possiamo parlare di niente, è difficile anche farsi capire a gesti. Ornella riesce a farsi regalare un piccolo zebù grossolanamente intagliato nel legno. Torniamo da basso e notiamo che nello spazio sotto la capanna ci sono escrementi di animale: evidentemente è il posto dove passano la notte alcune caprette domestiche. Soe è riuscito a riparare il guasto alla jeep: purtroppo nell’ultimo rifornimento di carburante ci hanno dato un tipo di benzina con impurità e quindi fintanto che non l’avremo consumata, saremo costretti a fermarci spesso per pulire il filtro. Riprendiamo il viaggio in un paesaggio simile alla savana, con pochissimi villaggi; la strada è scarsamente trafficata, ma in compenso è stretta e terribilmente sconnessa. Facciamo una sosta per visitare un grande recinto dove, alla presenza di qualche centinaio di persone, si sta svolgendo un interessante e movimentato mercato del bestiame, in modo particolare di giovani zebù e piccoli maialini.
Finalmente facciamo la sosta per il pranzo in una cittadina abbastanza movimentata lungo la strada, Magwe. Mangiamo all’aperto, sotto una fresca tettoia di palma, dei buonissimi gamberoni e un curry di porco. Soe incontra un suo collega che con l’altra auto sta tornando verso Yangon insieme a due ragazze trentine. Beviamo qualcosa tutti insieme, ci scambiamo qualche notizia (queste ragazze si lamentano della scarsa economicità della Birmania soprattutto rispetto alla vicina Thailandia) e poi riprendiamo il viaggio in direzione opposta: ci restano ancora circa 250 chilometri prima di arrivare a Bagan. Il paesaggio è arido, poco abitato. Piantagioni di cotone. Uomini, donne e bambini che camminano lungo la strada nei pressi dei centri abitati, tanti ciclisti, calessi con intere famiglie che tornano dal mercato dopo aver acquistato provviste per qualche settimana, donne che trasportano sulla testa enormi fascine di canne o grossi otri per l’acqua : il tutto con una tranquillità che li fa sembrare quasi al di fuori della difficile realtà in cui stanno vivendo, come se fossero pienamente consapevoli che niente e nulla potrebbe cambiare qualcosa; lasciano andare tutto cosi, come va, come è sempre andato; perché cambiare?
A causa della benzina sporca siamo costretti ad effettuare alcune soste forzate per una veloce pulizia del filtro; Soe è un po’ nervoso e forse anche stanco; la guida dell’auto su queste strade è estremamente faticosa; oltre al fondo sconnesso c’è da tenere presente il problema della scarsa larghezza della carreggiata asfaltata che non consente il passaggio simultaneo di due mezzi; ogni volta che incrociamo un altro mezzo che viene in senso opposto al nostro, viene quasi ingaggiata una lotta a distanza tra i due guidatori su chi deve rallentare e spostarsi sulla banchina sterrata per lasciar passare l’altro mezzo: il più delle volte Soe riesce a “vincere”, ma qualche volta, di fronte a qualche grosso camion o a qualche mezzo militare, anche lui deve cedere. Le soste forzate non ci permettono di arrivare e Bagan prima di buio; l’ultima sosta la facciamo in un luogo completamente buio: mentre Soe e Chiara tentano di pulire per l’ennesima volta il filtro della benzina, Ornella, seduta a fianco del guidatore, apre il finestrino e……..ha l’amara sorpresa di trovarsi a faccia a faccia con tre uomini, tre “aborigeni neri” dice lei, che stanno osservando la scena…e il bello è che non riesce a far risalire il vetro per un momentaneo blocco all’impianto dell’alzacristalli elettrico. Dopo pochi minuti riusciamo comunque a ripartire e verso le 20 arriviamo finalmente a Bagan e ci sistemiamo in un piacevole hotel con le camere tutte a piano terra, precedute da una simpatica piccola veranda e disposte a semicerchio intorno ad una stretta striscia di giardino, il tutto in perfetto stile coloniale. In considerazione dell’ora tarda rinunciamo a farci una doccia e andiamo subito al ristorante. Ne troviamo uno ancora aperto situato proprio sulle rive dell’Ayeyarwady dove mangiamo, all’aperto, un buon piatto di gamberoni: siamo affascinati dalla sognante atmosfera creata dalle decine di stupa illuminati che si vedono sulle colline della riva opposta del larghissimo fiume. Poi, stanchi e soddisfatti, torniamo in albergo per un necessario riposo.

TRA I 4.000 TEMPLI DI BAGAN

Sabato 14 febbraio, sveglia alle otto, prima colazione preparata nel giardino sul retro dell’albergo e poi …via a visitare le stupende pagode di Bagan. Per Bagan si intende una zona archeologica pianeggiante di circa 40 kmq. lungo un’ansa del fiume Ayeyarwady, fondata nel 1044 dal re birmano Anawrahta e poi capitale dell’impero per circa duecento anni; dopo la conquista del regno Mon nel 1057, il re riportò da Thaton a Bagan, come bottino di guerra, le sacre scritture theravada e tutta la corte di architetti e artisti di tale regno; da qui il grande impulso creativo che portò alla costruzione di migliaia di templi religiosi, per lo più decorati all’interno con splendidi affreschi. Si dice che nel momento di maggior splendore esistessero nella zona circa 13.000 templi; attualmente sono visibili tracce di almeno 4.000 e di questi 2.217 sono identificabili. E’ in atto una discreta attività di restauro o quanto meno di conservazione. Questi edifici sono disseminati in questa grande pianura, sia in piccoli centri come Old Bagan, New Bagan, Nyaung U, sia letteralmente in mezzo alla campagna, più o meno nascosti da palme, euforbie e altra scarsa vegetazione. Gli edifici più importanti sono veri e propri templi, anche a più piani, con interni visitabili contenenti statue di Buddha nelle solite svariate posizioni, sale decorate da affreschi con scene sulla vita di Buddha, esterni ricoperti da centinaia di preziose tavolette in terracotta smaltata e colorata raffiguranti scene dallo Jataka ( le sacre scritture buddhiste) ; a queste stupende e affascinanti costruzioni, simili per grandezza e imponenza alle nostre cattedrali, si affiancano poi centinaia di semplici stupa, tumuli di detriti intonacati, dorati o ricoperti da laterizi, a forma principalmente di campana rovesciata, che, distribuiti in maniera del tutto casuale, sembrano sorgere come per incanto dal terreno. La Lawkananda Paya è la prima pagoda che visitiamo; formata da un bianchissimo stupa centrale circondato da una serie di piccole cappelle, sorge su un’alta riva dell’Ayeyarwady e più che per la pagoda in se stessa, merita la visita appunto per la stupenda veduta che offre su un lungo tratto del fiume e sulle colline che sorgono sulla lontanissima riva opposta. Resto affascinato dalla calma e dalla pace che sento arrivare dalla visione delle acque del fiume solcate da alcune lunghe barche simili a grandi canoe. In mezzo al fiume, su una larga isola di sabbia a pelo d’acqua, due semplici capanne sono l’abitazione di un gruppo di zingari di fiume; un paio di famiglie, con bambini, un cane, panni stesi ad asciugare: tutto quello che possiedono potrebbe essere contenuto in una sola delle nostre valigie! Sulla riva opposta, lontana meno di un chilometro, si vedono altre modeste abitazioni e, sulle colline, tra la vegetazione, decine di stupa bianchi o dorati che nascono dal terreno e si alzano verso il cielo. A completamento della magica atmosfera, una litania che sembra provenire proprio dallo stesso lento scorrere del fiume e il dolce tintinnio di piccole campanelle dondolate dal vento.
Risaliamo in auto e andiamo verso la Manuha Paya. Pagoda costruita nel 1059 dal re mon, Manuha, fatto prigioniero da Anawratha, per rappresentare la sua insofferenza alla reclusione; contiene al suo interno tre grandi statue di Buddha seduto che guardano l’ingresso dell’edificio e una gigantesca, reclinata, sul retro, tutte inserite in piccoli ambienti dando quasi la sensazione di venire schiacciate e oppresse dai muri che le circondano. Accanto alla pagoda c’è una solida e grande costruzione in teak, con bianche scale in muratura, ove vive un monaco che si dimostra felicissimo della nostra curiosità e ci invita ad entrare offrendoci tè e fagioli tostati. Immagini di Buddha, vassoi pieni di frutta offerti da fedeli, poster di attori alle pareti, moderni e assurdi orologi al quarzo, specie di certificati incorniciati a guisa di diploma di laurea; il monaco ci fa vedere con orgoglio un suo libro di preghiere scritte in “pali” su pagine di ossa di bufalo macinate e un altro scritto in birmano su foglie di palma. Altro motivo di orgoglio è mostrarci una serie di biglietti da visita che evidentemente gli hanno lasciato altri turisti come noi. Salutiamo e lasciamo il monaco alle sue meditazioni.
Soe, comprensibilmente stufo di pagode, decide di approfittare del fatto che oggi non dobbiamo effettuare trasferimenti chilometrici, per provvedere ad una radicale pulizia del filtro della macchina; per proseguire il giro dei templi noleggiamo così due horse-car, da noi subito ribattezzati “oscare”, tipici calessini tirati da un cavallo. Stabiliamo un itinerario di massima e partiamo al…trotto, liberi così di transitare sulle piccole strade sterrate che attraversano in lungo e largo la piana archeologica di Bagan, tra stupa e templi, e di godere in pieno, accompagnati dal solo rumore degli zoccoli dei cavalli, della placida e sognante atmosfera di quel posto unico al mondo.
Facciamo una breve sosta all’interno di un piccolo e modesto villaggio di casette in legno dove, tra capre e zebù a riposo e zizzole stese per terra per l’essiccazione, assistiamo alla cardatura dei batuffoli di cotone, alla tessitura su telai primitivi di coloratissimi teli, alla costruzione con listelli di bambù degli oggetti e utensili destinati ad essere laccati. La produzione e la vendita degli articoli in lacca rappresenta uno delle principali voci dell’artigianato locale: scatole, piatti, zuppiere, tavolini e anche mobili interi con pregevolissime decorazioni multicolori intarsiate nei vari strati di lacca stesi sulla struttura in bambù.
Lasciato il villaggio, si attraversa, con il sole allo zenit, una vasta pianura piuttosto arida sulla quale crescono, oltre alle solite palme, alcune decine di gigantesche euforbie, e si arriva alla Dhammayazica Paya, una stupenda pagoda in laterizio rosso bruno, qua e là ancora ricoperto da intonaci finemente decorati, sormontata da una grande guglia dorata che domina altre decine di stupa in varie misure. Per nostra fortuna siamo gli unici visitatori e quindi i guardiani ci permettono di salire sulle gradinate che circondano l’edificio, fino alla base della grande cupola dorata. Possiamo così vedere da vicino le centinaia di piastrelle in terracotta smaltata di azzurro, che raccontano le storia del Jataka. Seduti su questi gradini spaziamo estasiati lo sguardo a 360 gradi sulla immensa pianura punteggiata di stupa, soddisfatti di riconoscere all’orizzonte le pagode già visitate e quelle che ancora ci aspettano, come il grande stupa dorato a forma di campana rovesciata della Shwezigon Paya che domina in lontananza tutte le altre costruzioni. Completa la magica atmosfera il suono delicato e armonioso che proviene dalle centinaia di campanellini mossi da una leggera brezza, che adornano la sommità delle guglie della pagoda. A vista d’uomo siamo gli unici visitatori della zona e questo rafforza la nostra sensazione di scoperta, quasi come se fossimo i primi turisti a poter godere di questo spettacolo. Risaliamo sugli horse-cars che ci hanno aspettato pigramente all’ombra di una euforbia e ci fermiamo per bere e mangiare qualcosa presso una specie di capanna lungo la strada. Anche se gli avventori sono pochissimi, oltre a noi solo due ragazzi giapponesi o qualcosa del genere, ci sono ben tre generazioni al nostro servizio: la nonna, che ci osserva fumando un cheroot (grosso sigaro di foglie di granturco), un bimbo che prende le ordinazioni con un fare così sveglio e pronto che certo farebbe la sua figura in un locale di una grande città occidentale e l’uomo adulto che, con umili gesti, ci invita a visitare la sua casa. Lo seguiamo incuriositi e, passando attraverso orti e giardini, camminiamo sino all’interno di un piccolo villaggio – ci dicono formato da 65 capanne e abitato da 450 persone – dove, con una ospitalità e una insistenza forse un po’ esagerate tanto da farci cominciare a pensare male, ci fanno accomodare e ci offrono arachidi tostate, batuffoli di cotone, zizzole essiccate, palline di zucchero di palma, e infine due grossi sigari che Alberto ed io dobbiamo far finta di fumare. Ecco poi i teli colorati tessuti a mano che finiamo per acquistare anche se non sappiamo cosa farne, altri modesti oggetti di uso quotidiano che Ornella “riesce” a comprare ad un prezzo senz’altro superiore al normale, le solite immancabili testine di antichi personaggi che ci vengono offerte di nascosto come se si trattasse di reperti di grande valore archeologico: queste riusciamo a non comprarle! Non ancora soddisfatti ci vogliono infine far assistere alla spremitura dell’olio di arachidi in un frantoio azionato da un paziente zebù. Finalmente riusciamo a sganciarci e a tornare ai nostri horse-cars che, conoscendo le usanze locali e forse addirittura d’accordo con i proprietari del locale, ci stavano pazientemente aspettando all’ombra di un albero.
Proseguiamo nella visita delle principali pagode. Ora è la volta della Nanda Manya , una piccola pagoda che Chiara ci consiglia per il suo interno riccamente affrescato con scene di Buddha mentre viene tentato da alcune donne. Gli affreschi che ornano l’interno di alcune pagode sono caratterizzati da un disegno elegante e molto descrittivo, sono monocromi e spesso racchiudono le scene in tanti piccoli quadrati contigui come i nostri fumetti. Anche nelle successiva pagode, la Tonzhu e la Thambu La, possiamo ammirare altri affreschi: nella prima una serie di figure di Bodhisattva (Sidharta Gautama prima dell’Illuminazione ) dal contenuto tantrico, nell’altra alcune scene dal Jataka.
Il sole si sta avvicinando al momento del suo tramonto e allora corriamo, anzi facciamo trottare velocemente i nostri cavallini, per arrivare in tempo sulla alta terrazza della Shwesandaw Paya per assistere in diretta allo spettacolo più bello del mondo. E’ qui, attorno a questa pagoda fatta costruire da re Anawratha nel 1057, che, come per incanto, si radunano all’ora del tramonto tutti i turisti in visita alla zona di Bagan: durante il giorno si sparpagliano tra le tante pagode da visitare, ma alla sera si ritrovano tutti qui e lo spiazzo davanti alla pagoda si riempie di auto, calessini, biciclette, qualche pulman e naturalmente venditori di bibite, frutta e degli immancabili souvenirs creando così, per qualche decina di minuti, un effetto da turismo di massa che non troveremo più in nessun altro luogo dell’intera Birmania. La pagoda è formata da un grosso stupa cilindrico poggiato su cinque terrazze digradanti, alle quali si accede da una ripida e dritta scala di alti gradini; la costruzione dovrebbe racchiudere otto capelli di Buddha ed è completamente piena di muratura e quindi priva di spazi interni. Prima di salire alla terrazza più alta, Chiara ci offre una provvidenziale bevuta da una ragazza, sua amica, che ha piazzato il suo banchetto proprio ai piedi della stretta scalinata. La salita è abbastanza agevole, ma Ornella, man mano che sale, comincia a dare segni di sofferenza per le vertigini: comunque, testarda com’è, arriva sino alla terrazza più alta, una trentina di metri di altezza, dove, nel frattempo, si sono radunati un centinaio di turisti, tutti rigorosamente armati di macchine fotografiche, telecamere e binocoli. Lo spettacolo è veramente eccezionale: alla luce del tramonto le decine di pagode che spuntano tra la vegetazione della piana di Bagan, sembrano assorbire i colori dei raggi del sole e assumere un aspetto magico che passa dal rosso bruno all’arancio vivace per finire ai riflessi dorati della lontana cupola della Shwezigon paya, il tutto mentre il disco del sole scende lentamente dietro le colline all’orizzonte. E’ molto suggestivo percorrere l’intero perimetro della stretta terrazza per godere della visione a 360 gradi della piana di Bagan e cercare di immaginarsi per un momento come poteva essere questa zona poco meno di mille anni fa: oltre agli edifici che vediamo ancora oggi, gli unici che venivano costruiti in materiale resistente, ci saranno state capanne, case e palazzi in legno, andati ormai irrimediabilmente distrutti. Ma il sole sta iniziando a nascondersi dietro alla collina e allora andiamo tutti dalla parte della terrazza dalla quale possiamo immortalarlo in migliaia di scatti e fotogrammi. Non appena la palla del sole è scomparsa comincia a scendere la sera e tutti i turisti si affrettano ad affrontare la ripida discesa della scala: l’ultima sarà Ornella che, assalita da un forte attacco di vertigini, riuscirà comunque, anche se a buio inoltrato, a toccare terra aiutata disperatamente da Chiara e Alberto . Lo spettacolo è finito e tutti tornano a casa. Noi torniamo con i nostri calessini all’ albergo, troviamo Soe rilassato e contento perché è riuscito a pulire come si deve il filtro della sua amata jeep, ci facciamo una buona doccia, telefoniamo in Italia – un minuto per la modica cifra di 9 dollari! – e finalmente ce ne andiamo a mangiare: in pratica, bibite a parte, era dalla colazione del mattino che non mettevamo qualcosa nello stomaco!
Tipica e semplice trattoria birmana dove ci rifacciamo del lungo digiuno con degli ottimi e abbondanti gamberoni sia fritti che cotti al vapore accompagnati da una piccante salsina, riso saltato con verdure, patatine fritte con cipolle e tanta Myanmar birra; il tutto per soli 5500 kiat. Prima di andare a letto tentiamo di fare due passi tra le strade di questo paese, che poi un vero paese non è, ma poi rinunciamo perché è tutto buio e abbiamo paura di perderci! La verità è che abbiamo sonno e siamo stanchi, ma veramente soddisfatti della bella giornata appena conclusa.

ALTRE PAGODE E CROCIERA SULL’AYEYARWADY

Anche se è domenica ci svegliamo presto e facciamo colazione nel giardino dell’albergo come ieri. Soe oggi vuole cimentarsi nella cucina birmana e, approfittando dell’ospitalità di alcuni suoi amici, stasera ceneremo in famiglia. Prima di continuare il giro tra altre pagode, facciamo pertanto una puntatina al mercato di Nyaung U e mentre Soe acquista il pesce e quant’altro necessario – senza far vedere che è insieme a noi turisti altrimenti triplicherebbero i prezzi – noi ne approfittiamo per curiosare tra i vari negozietti e banchetti. Si tratta di un mercato generale e quindi oltre ai generi alimentari, come pesce, carne, frutta e verdura, si possono comprare tante altre cose…..e noi naturalmente non ci facciamo sfuggire l’occasione: cappelli di paglia, fionde in legno per bufali, spazzolini da denti, filtri per il tè, quaderni…….basta! Soe è pronto e bisogna andare via .
La prima pagoda della giornata è la Shwezigon Paya situata nel centro di Nyaung U. Costruita ai tempi di re Anawratha ma terminata dal figlio Kyanzittha, custodisce, all’interno del grande stupa dorato, un dente , la clavicola e l’osso frontale di Buddha. Nello spazio intorno allo stupa, oltre alle solite decine di statue di Buddha nelle svariate posizioni, c’è una piccola sala ove sono state collocate 37 statue di nat, spiriti buoni e cattivi risalenti all’antico culto animista dei birmani, ma tuttora oggetto di grande venerazione e preghiera; questo dimostra la tolleranza della religione buddista, che venne introdotta con successo in Birmania, tanto che oggi i buddhisti rappresentano l’85% della popolazione, ma senza soppiantare del tutto le precedenti credenze. Alberto ed io visitiamo con cura la pagoda mentre aspettiamo le nostre donne che, insieme a Chiara, sono andate ad un grande negozio di artigianato locale per acquistare lacche e arazzi. Ricordo un originale lavoro di scultura in legno colorato che funge da portale all’ingresso di una cappella, raffigurante una serie di scene dallo Jataka; un corteo di pellegrini provenienti da Taiwan che pregano e si prostrano ai piedi di un Buddha; un gruppo di monaci bambini che chiedono un’offerta con il loro caratteristico contenitore; quattro Buddha in bronzo del 1100, nella rassicurante posizione “niente paura né timori” (abhaya), situati ai quattro punti cardinali. All’arrivo degli altri ci trasferiamo in auto nella zona della Old Bagan per visitare il tempio più famoso e venerato, l’Ananda Temple, costruito nel 1100 da re Kyanzittha con una pianta a croce greca nella quale le corrispondenti nicchie interne, rivolte ai punti cardinali, ospitano quattro statue di Buddha in teak alte quasi dieci metri. All’interno, lungo le alte pareti dei corridoi, si trovano centinaia di nicchie di varie dimensioni, ognuna della quali ospita una statua di Buddha. Molto suggestivo il giro esterno del tempio: immerso in una silenziosa e solitaria atmosfera osservo con estremo interesse le centinaia di piastrelle in terracotta colorata che adornano le mura esterne a varie altezze, le decine di piccoli e grandi stupa che punteggiano ogni angolo e ogni cornice dell’edificio, gli animali fantastici che stanno a guardia delle porte, le piante di bouganville che, con una esplosione di rosso stupendo, sembrano nascere quasi per miracolo dal caldo pavimento in pietra sul quale cammino a piedi nudi; poi vedo un grande albero, forse un bodhi-tree, l’albero dell’Illuminazione di Buddha, e mi sdraio nella comoda posizione del nirvana sulla ombrosa e fresca panchina che ne circonda il tronco: e qui mi raggiunge Grazia e mi immortala fotograficamente come un novello Buddha.
Il giro continua: il prossimo è il Thatbyinnyu Temple, risalente al 1150, con i suoi 60 metri di altezza è uno degli edifici più alti della piana: nello spiazzo sterrato di fronte all’ingresso approfittiamo delle numerose bancarelle per mangiare due noccioline e bere una bibita ghiacciata; poi niente altro fino a stasera. Continuiamo con Sulamani Temple, eretto nel 1183 e circondato da una cinta muraria e infine il Dhammayangyi Temple, uno dei più grandi edifici della zona. Ormai di templi e pagode ne abbiamo visti abbastanza e di comune accordo decidiamo di passare il resto della giornata in crociera lungo il placido fiume Ayeyarwady. Da una pagoda situata proprio sulla riva del fiume, noleggiamo una lunga barca a motore che, navigando lentamente in senso contrario alla corrente, ci fa assistere allo svolgimento della vita della gente sul fiume. Si vedono così, oltre alle cupole delle pagode più alte, piccoli villaggi di capanne costruite lungo la riva del fiume, preceduti da primitive piattaforme di legno dalle quali le donne lavano i panni; uomini ma soprattutto donne che, vestite, si immergono nel fiume lavandosi così nello stesso tempo il vestito e il corpo; bambini, questi sì nudi o quasi, che fanno il bagno sguazzando nella corrente, uomini che pescano con lunghe reti, animali domestici che razzolano lungo la riva: il tutto nella solita piacevole, riposante e languida atmosfera che, al momento, ti fa dimenticare la povertà della vita delle persone che stiamo osservando. Dopo una trentina di minuti di navigazione la barca si avvicina alla riva e attracca: scendiamo e un vecchio birmano che evidentemente ci stava aspettando, ci dice di seguirlo. Camminiamo per dieci minuti lungo un sentiero, tra boschi, piante di zizzole e campi coltivati di pomodori, piselli e – novità – arachidi: scopriamo così che le famose noccioline non spuntano dai rami ma sono attaccate alle radici come le patate. Ornella cammina con difficoltà a causa del dolore al piede che è sempre più insistente, ma, seppur leggermente distanziata, riesce ad arrivare ovunque. Arriviamo così all’antica pagoda di Kyauk-Gu U Min risalente all’XI secolo e ormai completamente in disuso; due monaci che vivono in perfetta solitudine in una modesta costruzione di legno nei pressi della pagoda, ci magnificano il solito Buddha che si trova all’interno della pagoda e poi ci invitano nella loro casa. Anche loro, come il monaco di Bagan, ci fanno vedere con infantile orgoglio una collezione di biglietti da visita lasciati da turisti che sono arrivati sino lì, una raccolta di cartoline arrivate da paesi lontani, un libro pieno di dediche e infine ci offrono fagioli tostati e un paio di tazzine di tè cinese che naturalmente non possiamo rifiutare. Lasciati i monaci alla loro voluta solitudine, torniamo alla barca e con questa a Bagan, mentre, cullati dalle acque dell’Ayeyarwady e ammaliati da uno stupendo tramonto fluviale, ci gustiamo una ennesima tazza di tè cinese.
Dopo la solita, provvidenziale doccia in albergo, raggiungiamo Soe che nel frattempo si era avviato a preparare la cena nella casa dei suoi amici e troviamo una bella tavolata apparecchiata all’aperto dove, dopo qualche vassoio di patatine fritte per ingannare l’attesa e stuzzicare l’appetito, ci abbuffiamo con stupendi gamberi giganti al guazzetto, un favoloso pesce dell’Ayeyarwady arrosto, una bollente zuppa di pesce e verdure, un misto di verdure saltate nell’olio con peperoncino e, per finire, un piccantissimo curry di manzo : Soe è stato veramente bravo e riceve, contento e soddisfatto, i nostri meritatissimi applausi.

PEGGIORA LA QUALITA’ DELLE STRADE

Dopo due giorni e tre notti di “riposo” a Bagan è necessario rimettersi in marcia e macinare qualche altro centinaio di chilometri per poter raggiungere il lago Inle, dove prevediamo di arrivare dopodomani; per oggi, lunedì 16 febbraio, dobbiamo contentarci di arrivare a Kalaw, una cittadina a circa 260 chilometri verso est, nella Divisione di Mandalay. Attraversiamo una zona abbastanza arida, un po’ simile alla savana, ricca però di altissime palme da noci di cocco, che sono una provvidenziale ricchezza per gli abitanti della zona. Di questa pianta vengono utilizzate diverse parti: acqua, latte e polpa dal frutto; foglie per fabbricare le stuoie necessarie alle pareti e ai pavimenti delle capanne e infine il legname. Dopo circa due ore di viaggio, arriviamo alla base del Monte Popa, una cima solitaria che si innalzò nel 442 a.C. dalla Piana di Myingyan proprio al centro di un vulcano estinto, in seguito ad un terribile terremoto. Sulla cima di questo monte dalla forma cilindrica, a 1518 metri di altitudine, sorge una bianca pagoda, costituita da alcuni piccoli edifici, che raggiungiamo, come al solito scalzi, dopo ben 772 gradini. Invano consigliamo a Ornella di rinunciare alla salita per non sforzare il piede tuttora dolorante nonostante i ripetuti massaggi con l’unguento di tigre che, vero o no, a me avevano finalmente fatto passare il mal di schiena; anche la testarda, zoppicando zoppicando, tra una foto alle scimmie che vivono sulla lunga scalinata e qualche acquisto di piccoli oggetti alle bancarelle che fiancheggiano i gradini , riesce a raggiungere la vetta. Da lassù possiamo gustarci il solito bel panorama a 360 gradi sulla campagna circostante, tra statue di Buddha e coloratissime immagini di Nat, piccole cappelle piene di fedeli che pregano devoti dopo aver deposto cesti di frutta a titolo di offerta e un gradevole venticello che, oltre a rinfrescare l’aria, fa suonare delicatamente le decine di campanelline che adornano gli stupa, creando così una sognante e mistica atmosfera. La salita e la successiva discesa ci hanno portato via due ore di tempo e quando torniamo alla base del monte ritroviamo Soe che, lungi dall’essere salito sino in cima, si era concesso un tonificante riposo. Prima di partire visitiamo, situata di fronte all’inizio della scalinata per la pagoda, la Sala dei Nat ove sono esposte una ventina di statue, ognuna con la sua specializzazione (nat degli alcolisti, nat del morto bambino, nat del fumatore e così via), anche queste destinatarie di offerte da parte dei fedeli che sperano così di ingraziarsele. Rifornimento di banane e papaje che, durante il lungo tratto di strada che ci aspetta, dovranno aiutarci a tenere lo stomaco tranquillo.
Questo trasferimento si rivelerà come il più faticoso e duro dell’intero viaggio, sia per noi, che, soprattutto, per Soe. Il fondo stradale sembra peggiorare continuamente e Alberto ed io che siamo stati relegati nei due sedili di fortuna in fondo alla jeep, confusi tra buste, pacchi, valigie, cappelli di paglia, tappeti e ombrellini, ci aggrappiamo alle maniglie nel vano tentativo di mitigare le tremende e continue scosse. A Meiktila, una cittadina situata sulla confluenza della nostra strada con quella più importante che unisce Yangon a Mandalay, facciamo una breve sosta per bere un caffè o un tè: io ho la cattiva idea di bere un fortissimo black-tea, che si rivelerà poco adatto ad armonizzarsi con le tante piccole banane mangiate durante il viaggio; Chiara e Soe invece, infrangendo il patto stipulato di non mangiare fino a sera, si fanno fare un piccante piatto di spaghettini alla birmana. Attraversiamo senza fermarsi Thazi, e affrontiamo l’ultimo tratto di strada di circa un centinaio di chilometri, che ci porterà a Kalaw, nello stato Shan. Ora, alle buche e sconnessioni della strada sempre più marcate, si aggiungono una tortuosità e un continuo saliscendi che contribuiscono irrimediabilmente alla lotta in corso tra il black-tea e le banane all’interno del mio stomaco. Gli altri passeggeri sono, esteriormente tranquilli, ma nessuno ha il coraggio di rivolgere a Soe la fatidica domanda che sente sulla punta della lingua: ma quanto manca per arrivare? Finalmente, alle 18 , e quindi prima del buio, raggiungiamo Kalaw e ci sistemiamo in un modesto ma comodo albergo situato nella zona alta della cittadina. Kalaw è una piacevole località di villeggiatura fin dall’epoca coloniale situata a 1300 metri di altitudine e punto di partenza per le escursioni agli insediamenti delle etnie pa-o, palaung e danu. Andiamo a cenare in una simpatica trattoria all’interno di una normale abitazione dove, tra una serie di tavoli apparecchiati in piccole stanze una dentro all’altra, sembra quasi di essere in una casa delle nostre montagne. Tutti, tranne io per la tragica lotta tuttora in corso, mangiano abbondantemente e con gusto: io, per la compagnia, mi limito ad assaggiare alcune cucchiaiate di una ottima minestra di lenticchie.

GLI 8.094 BUDDHA DELLE GROTTE DI PINDAYA

Anche oggi abbiamo il piacere di svegliarci sotto un brillante cielo azzurro e, prima di lasciare Kalaw, facciamo una piacevole passeggiata sino al centro della cittadina, dove ogni cinque giorni, si svolge un mercato particolarmente interessante per il fatto che possiamo incontrarvi rappresentanti di etnie minoritarie come i pa-o, i palaung o i kachin, ognuno con i suoi caratteristici costumi, che arrivano dai molti villaggi tribali della zona per la vendita delle loro specialità alimentari e non. Il mercato si svolge all’aperto lungo una strada del centro, dove i venditori, soprattutto donne, stanno semplicemente seduti per terra accanto alle merci esposte. Come al solito il colpo d’occhio è esaltante per il grande scintillio di forme e colori. Chiara, da esperta guida, riesce ormai a riconoscere con facilità le persone che appartengono alle etnie minoritarie e ce le indica. Le foto come al solito si sprecano: si fotografa un po’ di tutto, dagli ortaggi alla frutta, dal pesce alle varie qualità di chilly, dalle mamme che fanno la spesa con un bambino appeso dietro le spalle alle fiere donne pa-o che ostentano un meraviglioso copricapo rosso. Il tempo stringe e, a malincuore, dobbiamo lasciare quello spettacolo. Torniamo in albergo, carichiamo i bagagli che continuano a crescere di numero e partiamo alla volta del lago Inle, distante meno di 200 chilometri ma con la prevista deviazione per le grotte di Pindaya che, tra viaggio e visita ci occuperà per cinque ore.
Pindaya è una piccola cittadina situata intorno ad un laghetto e ai piedi di una collina sulla quale, a metà altezza, dopo una scalinata di 555 gradini, si apre, preceduta da una serie di edifici religiosi, la famosa grotta che avanza all’interno della montagna per circa 160 metri e contiene ben 8.094 statue di Buddha, di varie dimensioni e materiali: cemento, teak, alabastro, lacca, mattoni e altro. Per nostra fortuna oggi ci viene consentito il passaggio in auto quasi sino all’ingresso delle grotte e quindi ci evitiamo i 555 scalini. Soe, come al solito, rimane a riposarsi in auto nei pressi di un cerchio di bancarelle e noi, con la nostra Chiara nelle vesti di guida professionale, andiamo a farci una nuova scorpacciata di Buddha! La grotta è scarsamente illuminata, comunque il colpo d’occhio sulla moltitudine di statue disposte a varie altezze, in un ordine puramente casuale, è particolarmente suggestivo. Non tutto l’intero svolgimento delle grotte è aperto al pubblico e quindi non possiamo controllare che effettivamente ci siano le 8.094 statue; Alberto, con la sua proverbiale pignoleria, vorrebbe contarle – per sporgere, in caso di discordanza, il dovuto reclamo – ma poi rinuncia a causa del poco tempo a disposizione. Grazia, Ornella e Chiara si avviano da Soe, che trovano seduto ad una bancarella mentre gusta qualche prodotto locale. Arriviamo anche noi e, come pranzo, ci mangiamo: patatine fritte, fagioli secchi tostati, chioccioline di zucchero di canna, piccanti fagioli di soia pressati, foglie di tè macerate, un non ben identificato frutto essiccato impregnato di peperoncino, il tutto annaffiato con …..tazzine di languido tè cinese. Questo spuntino ci viene gentilmente offerto dalla signora amica di Soe e noi, per contraccambiare, acquistiamo qualche prodotto e un “utilissimo” ombrellino da sole in bambù. Scendiamo dalla collina e ai suoi piedi facciamo una sosta per immortalare in una foto di gruppo, una foresta di alberi giganteschi, dei quali purtroppo non siamo riusciti a sapere il nome, dal tronco larghissimo e dalle stupende e intricate ramificazioni. Riprendiamo il viaggio sempre in direzione est e notiamo una sensibile differenza nelle costruzioni abitative: al posto delle capanne in bambù ora cominciamo a vedere case, sempre ad un solo piano rialzato, ma in muratura, con una squadrata ed elementare intelaiatura in legno. Siamo ormai nello stato Shan, il più esteso dell’intera Birmania e quello che “partecipa” , insieme al Laos e alla Thailandia, alla tristemente famosa impresa del “triangolo d’oro” . Poco prima di Nyaungshwe, una cittadina a 850 metri di altitudine, situata a poca distanza dal lago Inle, facciamo una sosta per visitare un piccolo monastero in teak – Shwe Yaunghwe Kyaung – costruito nel 1700 e caratterizzato da due eleganti finestre ovali dalle quali si affacciano, creando un suggestivo effetto grafico e coloristico, alcuni monaci bambini con le loro tipiche testine completamente rasate. Da qui a Nyaungshwe ci sono ancora tre chilometri di strada che percorriamo tra risaie e paludi animate da grossi bufali d’acqua che, per ripararsi dal caldo, spesso se ne stanno immersi nell’acqua e nel fango, lasciando fuori solo gli occhi e le splendide corna arcuate. Arriviamo all’albergo poco dopo le tre del pomeriggio; anche oggi la sistemazione è di nostro gradimento : le camere, in costruzioni in muratura bi-familiari inserite in un ampio e curato giardino, sono grandi e ben arredate, con doppio ingresso e verandina dotata di poltrona in stile coloniale.
Come al solito non ci concediamo molto tempo di riposo e infatti, pochi minuti dopo, mentre Chiara e Soe sono andati a sbrigare alcune loro faccende, noi quattro siamo già in sella ad altrettante sgangherate biciclette prese a noleggio per alcune ore. Con queste pedaliamo fino al centro del paese e, dopo aver provveduto ad una sosta forzata presso un attrezzato(!) ciclista per la riparazione della bici di Grazia, arriviamo fino all’interno di un piccolo villaggio di capanne e casette costruite lungo un ruscello. Dopo la cena a base di due ottimi curry di manzo e di pollo , assistiamo, insieme ad altri turisti, tutti seduti a semicerchio nel cortile del ristorante stesso, ad uno spettacolo di danze eseguite da una decina di uomini e donne Shan arrivati sin lì, stipati dentro uno dei classici camioncini pick-up. Da ricordare un bravo giocoliere che manovra tizzoni di fuoco, la danza dell’amore e la lunghissima danza di un cavallo – maschera mossa da due uomini – che finisce con la richiesta di un meritato compenso pecuniario alla trentina di spettatori presenti.

INTENSA GIORNATA SUL LAGO INLE

Siamo arrivati già a mercoledì 18 febbraio; la situazione sanitaria è ancora leggermente critica per Ornella che continua a lamentare un , quando più quando meno, preoccupante dolore al piede. La mia schiena è ormai quasi tranquilla mentre Grazia, oggi, dà qualche segno di nervosismo per la prevista gita in barca sul lago. Alle otto in punto infatti noleggiamo una tipica barca a motore, lunga e stretta, sulla quale, seduti uno dietro all’altro facendo attenzione a non agitarsi troppo per non impaurire Grazia, ci prepariamo a godere uno spettacolo naturale che da solo giustificherebbe il viaggio in Birmania.
Dall’attracco di Nyangshwe, navigando lungo un canale di circa 3 chilometri costeggiato da abitazioni in palafitte in legno a più piani e da piantagioni di banani, entriamo nel meraviglioso lago Inle. E’ uno specchio d’acqua poco profondo ma molto pescoso, di circa venti chilometri di lunghezza per dieci, con alcuni piccoli villaggi sulle sue rive e interamente circondato in lontananza da montagne. Le placide acque del lago sono punteggiate qua e là da elegantissime barchette in legno simili a gondole, mosse lentamente mediante un movimento rotatorio che il pescatore, in piedi, imprime con un solo piede ad una lunga pertica tenuta perpendicolare all’acqua; completa la magnifica silhouette di queste barchette, inserite in una pacifica atmosfera leggermente nebbiosa con lontane montagne per sfondo, una grande nassa che viene appoggiata sul fondo del lago nel tentativo di farci entrare qualche preda ittica. Come al solito le foto si sprecano e a ciò contribuisce anche il guidatore della nostra barca, soffermandosi puntualmente ogni volta che passiamo vicino a questi pescatori. Attraversiamo tutto il lago nel senso della lunghezza fino a raggiungere l’eccezionale mercato di Nampam che si svolge in un grande spiazzo sulla riva del lago stesso: il nostro guidatore deve fare appello a tutta la sua abilità ed esperienza per riuscire ad entrare e a districarsi nella incredibile marea di lunghe barche ormeggiate. Dopo una manovra di attracco durata più di dieci minuti, scendiamo e, avendo cura di evitare alcune bancarelle con i soliti souvenirs per turisti, ci immergiamo nuovamente nel fantastico mondo dei veri mercati birmani. Il mercato di oggi è veramente grande; costituito da qualche centinaio di banchi sia fissi che ambulanti separati da una serie di lunghi passaggi paralleli, resterà il più interessante tra tutti quelli che abbiamo visitato sia per la quantità e qualità delle merci in vendita sia, soprattutto, per la affascinante varietà delle persone. E così trascorriamo un’intera ora, che poi sembrerà un attimo, a fotografare montagne di peperoncino rosso, mucchi di radici di zenzero e di ginger, grandi ceste di piccoli agli e cipolle, interi caschi di corte banane gialle e rosate, recipienti stracarichi di minuscoli pesciolini essiccati che emanano un odore forte e insopportabile, e tante altre varietà di ortaggi, cibi e frutti sconosciuti, per passare poi ai banchi sommersi da tutte le qualità di ciabattine infradito – in assoluto l’unico tipo di calzatura usato dai birmani – e a quelli che espongono decine di longyi, tagli di stoffa colorati che, annodati in vita e lunghi fino alle caviglie, sono l’indumento originale birmano indossato ancora oggi dalla quasi totalità degli uomini e delle donne: la differenza tra i due sessi sta, oltre che nel colore – a quadrettini o a righe quelli per uomini, con disegni più mossi quelli per le donne – nella diversa maniera di annodarselo alla vita. Continuando nel giro tra le bancarelle, non mancano i venditori di frittelle dolci e salate, di pesciolini fritti, di enormi torte solide ma piuttosto gelatinose, dal vago color marrone e dal sapore che, nonostante la nostra ormai quasi totale disponibilità e apertura a tutte le novità, sarà destinato a restare sconosciuto. E via tra piccole tea-house all’aperto, sempre piene di avventori che, seduti su bassi sgabelli in legno, si mangiano, a tutte le ore, poco invitanti porzioni di riso o noudles (una specie di spaghettini di riso) mescolati con verdure, pesciolini e pezzetti di carne e di pollo. E per finire i venditori di betel che, su un misero banchetto preparano dei misteriosi fagottini: una mistura di noce di betel con spezie e una cucchiaiata di calce, avvolta in una verde foglia che, tenuta in bocca e masticata, produce un vago senso di soddisfazione arrossando però, in maniera indecente, i denti e la saliva.
Ma certamente lo spettacolo involontariamente offerto dalla grande varietà di uomini e donne che animano questi mercati, supera in interesse e spettacolarità tutto il resto. E allora mi aggiro affascinato tra i banchi e le mercanzie esposte, attento a non calpestare qualche macchia rossa di betel, animato da una frenetica voglia di fotografare tutto quello che mi sta davanti, consapevole, infatti, che le semplici parole non saranno sufficienti a descrivere tutto ciò: stupende donne della etnia pa-o, sempre rigorosamente vestite di abiti scurissimi ma con un copricapo, vivacemente colorato dal rosso all’arancio, costituito da un grosso telo tessuto a mano, arrotolato sopra i capelli che le fa distinguere subito da tutte le altre; bambini che dormono placidamente dentro una amaca ricavata con estrema semplicità da un telo legato a due canne di bambù conficcate tra gli ortaggi in vendita; altri bambini che mi guardano fotografare sgranando lucidi occhioni neri, mentre “viaggiano” avvolti in un telo colorato appeso alle spalle della mamma; vecchie donne dalla pelle scura e grinzosa, tanto da apparire come coperta di fango seccato, che, nell’attesa di vendere un pugno di peperoncini o un cestino di piccoli agli, fumano, con avide tirate, grossi sigari; semplici contadini, dall’aspetto così fiero tanto da sembrarci quasi guerriglieri ribelli appena usciti dalla foresta tropicale, che espongono dignitosamente i loro poveri prodotti, magari masticando l’immancabile noce di betel. L’ora a disposizione passa in fretta e ci ritroviamo tutti nel punto stabilito. Saliamo sulla barca, non senza però aver prima gustato, riuscendo a liberarsi di ogni titubanza igienica, una dolcissima frittella appena tolta dall’olio bollente che friggeva all’interno di un vecchio e annerito bidone posto sopra un grosso fornello a carbone.
Riprendiamo la navigazione e, costeggiando e addentrandosi abilmente tra la bassa ma folta vegetazione lacustre, raggiungiamo il piccolo villaggio di palafitte sull’acqua di Ywama, dove, ogni cinque giorni, ma non oggi, si svolge un interessante e non ancora completamente turistico mercato galleggiante. Oggi non è giorno di mercato, ma i turisti sono ugualmente attesi e desiderati: infatti all’ingresso nel paese veniamo letteralmente assaliti da due lunghe barche piene di oggetti di artigianato e fintanto che non compriamo qualcosa, dopo le solite estenuanti trattative, non riusciamo a proseguire: Ornella, qualche tempo dopo, ci confesserà che aveva creduto fossero barche di pirati! A Ywama facciamo una sosta in un negozio di tipici prodotti locali e acquistiamo, non si sa bene per quale uso futuro, qualche longyi, da uomo e da donna. Di nuovo in barca e, sempre lungo piccoli rigagnoli aventi una profondità di poche decine di centimetri tanto da costringere il guidatore a tenere il motore fuoribordo appena immerso a pelo d’acqua, arriviamo a Thar Lay, altro piccolo villaggio in legno, sempre sul lago, dove facciamo una sosta per mangiare in una tipica trattoria frequentatissima da turisti e da birmani. Mentre seduti ad un tavolo nel centro del locale, tra un vorticoso e vociante movimento di camerieri ed avventori, aspettiamo con curiosità e tanta fame quanto ordinatoci a sorpresa da Chiara e Soe, mi tornano alla mente, provenienti da lontane letture dei libri di Emilio Salgari – non sarebbe una cattiva idea rileggerli – quelle bettole della Malesia, piene di avventurieri bianchi e misteriosi indigeni dalla pelle olivastra, che tanto animavano la mia fantasia infantile.
Finalmente arriva il piatto a sorpresa: in un primo momento ci sembra un normale pesce arrosto da porzione, ma poi, appena cominciamo a lavorarlo con le posate, ci accorgiamo che si tratta di un pesce ripieno, perfettamente ricomposto dalle polpe, accuratamente diliscate e amalgamate con qualche aroma locale, e reimmesse dentro la pelle originale che risulta, miracolosamente, intatta. In birmano si chiama na fane, che vuol dire appunto pesce senza lische. Mangiamo con gusto ed interesse questa specialità, forse unica al mondo, ci intratteniamo piacevolmente nel locale rivedendo altri turisti già incontrati in altri luoghi e, dopo il solito buon lungo caffè, risaliamo a bordo della barca diretti al Nga Phe Kyaung, il famoso monastero dei gatti saltanti, situato di fronte a Ywama e naturalmente raggiungibile solo via lago.
Il monastero è una splendida costruzione in teak, risalente al XVIII secolo, che poggia su ben 654 palafitte, delle quali la colonna centrale che sostiene il tetto misura 33 metri ed è realizzata in un unico pezzo. Attracchiamo la barca al pontile del monastero e, a piedi nudi come al solito, saliamo i gradini in legno che portano all’interno dell’edificio. Di fronte all’ingresso ci imbattiamo in una sfilata di grandi statue di Buddha seduti su troni di legno intarsiati e dorati o distesi su grandi bauli istoriati con scene a fumetti, tutte raggruppate al centro di un grande salone rettangolare interamente finestrato da tre lati. Aggiriamo l’insieme dei Buddha e vediamo in un angolo in fondo al salone un paio di turisti seduti per terra su una stuoia mentre stanno guardando un monaco che invita un gatto a saltare attraverso un cerchietto di legno che tiene all’altezza di poco meno di un metro: dopo il salto riceverà in premio un modesto pesciolino secco. Ormai pratici di questi ambienti, ci stendiamo pure noi sulla stuoia e, masticando un pizzico di ceci tostati e bevendo una tiepida tazzina di tè cinese gentilmente messi a disposizione dai cinque monaci che abitano il monastero, ci caliamo pigramente in quella semplice e rilassante atmosfera ad osservare quei poveri gatti stimolati a saltare al fine di giustificare il nome popolare del monastero. Oggi per questi animali sarà un giorno particolare perché Grazia, non riuscendo a resistere alla ormai proverbiale abitudine, tira fuori dalla borsa, come per magia, una scatola dei suoi immancabili “croccantini” e li offre ai meravigliati gatti. Solo noi, un paio di turisti, due monaci e una mezza dozzina di gatti un po’ troppo snelli; per il resto silenzio assoluto; forse una qualche litania in sottofondo proveniente chissà da dove, il pensiero che in un posto del genere sarebbe facile meditare e estraniarsi del tutto dai problemi della vita, la voglia di sdraiarsi totalmente sul semplice e invitante pavimento in teak per lasciarsi addormentare………Prima di lasciare questo posto di favola, faccio una solitaria passeggiata nel giardino sul retro del monastero, tra lucidi alberi di banane e di papaja, sperando di riuscire a portare via un po’ della sua infinita tranquillità Di nuovo in barca per tornare all’albergo. La fantastica gita sul lago Inle sta per finire. Ma ancora passiamo tra un labirinto di verdi orti galleggianti sui quali la popolazione del lago, gli intha, circa 130.000 persone, coltiva pomodori, fagioli, insalate, piselli, cipolle, banane, papaje e altro: con un ingegno e una originalità unica al mondo questi abitanti sono riusciti a costruire sull’acqua una grande quantità di isolotti galleggianti, ancorando con lunghe canne di bambù ammassi di terreno paludoso e giacinti d’acqua che altrimenti avrebbero vagato inutilmente per il lago. Ognuno qui ha il suo pezzo di orto galleggiante che raggiunge, e spesso anche coltiva, restando a bordo della propria canoa. Durante il viaggio di ritorno siamo seguiti da uno stormo di gabbiani che sperano in qualche lancio di biscotti e così ritroviamo il lungo canale che ci porterà a Nyaungshwe. Vediamo grossi bufali d’acqua che attraversano il canale nuotando in fila indiana, lasciando emergere solo gli occhi, le lunghe corna arcuate e la bocca aperta per respirare: il primo della fila spesso trasporta sul dorso il bambino-guardiano, dando quasi l’impressione che quest’ultimo stia miracolosamente camminando sull’acqua. Tanti altri grossi bufali impigriscono nell’acqua e nel fango vicino alla riva, alla disperata ricerca di un po’ di riparo dal caldo e dagli insetti. Alle 15,30 siamo di ritorno e, prima di andare in albergo, ci fermiamo all’ufficio postale per inviare un telegramma in Italia. Qui abbiamo la sgradita sorpresa di vederci restituire, per insufficiente affrancatura, il pacco di cartoline che avevamo imbucato al mattino. Nonostante la scarsità di precise informazioni sul taglio necessario di affrancatura per l’Europa, compriamo i francobolli mancanti come ci viene indicato e li incolliamo pazientemente – circa dieci pezzi per cartolina! – uno sull’altro. Lavoro e denaro che si riveleranno inutili perché nessuna di queste cartoline arriverà mai a destinazione! Colpa delle poste italiane o di quelle birmane? Resteremo per sempre con il dubbio.
Gradevole e salutare momento di relax in albergo, passato tra doccia e rilassante lettura della guida turistica mentre, seduto su una poltrona di paglia sulla veranda della camera, mi godo con piacere una strana atmosfera dal sapore vagamente coloniale. Poi, abbandonati da Soe, andato a cena da alcuni suoi amici, ci siamo diretti verso il centro della cittadina per curiosare tra le sue strade e negozi e, naturalmente, trascinati da una Grazia e una Ornella sempre più scatenate, procedere agli immancabili acquisti di oggetti unici e indispensabili. Facciamo anche una capatina nei pressi di un albergo dove, a pagamento, possiamo fotografare tre donne-giraffa che, per guadagnare qualcosa, si mettono a disposizione dei pochi turisti: è uno spettacolo molto penoso, comunque anche noi, in mancanza di meglio, facciamo i nostri patetici scatti. Queste donne, appartenenti all’etnia Padaung, per una antichissima tradizione della quale non se ne conosce la ragione precisa, sono costrette a portare al collo alcuni grossi anelli in rame: il primo anello viene loro applicato all’età di sei anni e poi via via negli anni successivi, sino al matrimonio, quando avranno così un collo alto circa 25 centimetri. Nel centro di Nyaungshwe anche se è ormai l’ora della chiusura delle attività e del rientro in casa per la cena, c’è un discreto movimento di pedoni, biciclette e qualche automobile. Non abbiamo molta fame e, seguendo le indicazioni della guida, cerchiamo una tea-house per fare un leggero spuntino a base di caffè, tè e dolcetti vari. Quando usciamo è ormai buio completo e allora, con la paura di non riuscire a ritrovare la strada di casa, ricorriamo al servizio di tre trishaw – tricicli a pedali per due passeggeri che viaggiano schiena contro schiena – che, per pochi kiat, in cinque minuti ci riportano all’albergo. Soe non è ancora tornato e allora noi lo aspettiamo giocando una partita a scopone nella sala dell’albergo tra gli sguardi divertiti e curiosi di alcuni inservienti birmani.

BEVIAMO ANCHE IL SUCCO DI CANNA DA ZUCCHERO

Anche oggi, giovedì 19, partiamo presto perché ci aspetta un lungo trasferimento: in pratica dobbiamo tornare indietro per oltre un centinaio di chilometri, verso ovest, fino a Thazi e di qui immetterci sulla direttrice Yangon – Mandalay (finalmente una strada quasi normale) da percorrere in direzione sud per circa 280 chilometri sino a Toungoo, dove pernotteremo.
Con nostra grande sorpresa superiamo con facilità e quasi senza accorgersene il temuto tratto di strada fino a Thazi; evidentemente i nostri muscoli e le nostre ossa si stanno abituando ai fondi stradali birmani. Dopo circa tre ore facciamo una breve sosta ristoratrice in un movimentato villaggio, centro di smistamento di prodotti ortofrutticoli, e poi raggiungiamo finalmente la più confortevole strada che da Mandalay arriva a Yangon. La strada scende verso sud tra campi di riso che, con un gioco di colori creato dal verde delle piantine e dai riflessi dell’acqua che le sommerge, delineano elegantemente il paesaggio. Attraversiamo piccoli villaggi arricchiti da un prezioso fiumicello dove le donne fanno il bucato e si lavano corpo, vestito e lunghi capelli. Anche qui grossi bufali d’acqua al lavoro, spronati dai sassi lanciati con una fionda da un giovane guardiano e altri che se ne stanno pigramente immersi fino agli occhi nelle acque fangose. Ai campi di riso si alternano grandi piantagioni di canna da zucchero: durante una sosta forzata lungo la strada, dovuta al solito problema di un ennesimo rifornimento con benzina sporca, abbiamo l’opportunità di vedere da vicino mucchi di canne tagliate in attesa di essere caricate su qualche camion. Mentre Chiara e Soe puliscono il filtro della benzina, io mi avvicino, con un certo imbarazzo, ad un gruppo di donne che, sedute sulle piante dei piedi alla maniera birmana, stanno riparando manualmente un tratto di strada asfaltata utilizzando centinaia di piccole pietre, portate fin lì con paioli di ferro in equilibrio sulla testa da altre donne e addirittura da bambine. Pur temendo una qualche antipatica ma giusta osservazione, vorrei fotografare queste incredibili scene, ma vengo richiamato dagli altri: la macchina è pronta, si riparte. Grazia nel frattempo aveva usufruito di un gradevole e provvidenziale massaggio alla cervicale, praticatole spontaneamente da un bambino che le si era amichevolmente avvicinato. Prima di arrivare a Toungoo facciamo l’ennesima sosta in una baracchetta di un grande villaggio per rinfrescarci con una bibita fresca e gassata. Qui, abbandonando completamente ogni ragionevole precauzione, ci beviamo anche un bicchiere di succo di canna da zucchero spremuto al momento per noi con un rudimentale e rugginoso torchio in ferro e “opportunamente” filtrato attraverso una specie di garza assolutamente non sterilizzata. Il succo è molto dolce e dice che è un potente integratore di sali minerali. Io e Alberto approfittiamo della sosta per acquistare un paio di set completi di originali pennellini per ciclisti; applicati al telaio della bicicletta fanno si che, mentre si pedala normalmente, l’interno del cerchione della ruota sia mantenuto perfettamente pulito e libero dalla polvere: il caldo ci fa immaginare future importazioni di questo aggeggio per una capillare diffusione tra i ciclisti italiani!
Arriviamo a Toungoo verso le 17,30: è una cittadina della Divisione di Bago da poco aperta agli stranieri. Ci sistemiamo nell’unico albergo disponibile per i turisti, senz’altro il migliore della zona; le camere, al piano terreno e senza finestre, sono squallide e buie anche se dotate di condizionatore e di doccia e servizi; Ornella, ancora dolorante al piede, dà qualche segno di insofferenza e dimostra di non gradire troppo questa sistemazione. Fa molto caldo e certe grosse zanzare che svolazzano nell’aria fanno presagire qualche problema per la nottata che ci aspetta. Soe deve preoccuparsi di far riparare, prima di domani mattina, il portabagagli della jeep giunto a Toungoo in condizioni precarie. Noi usciamo a fare una passeggiata per le strade della cittadina; non c’è niente di nuovo da vedere, ma assaporiamo il gusto di una particolare atmosfera creata dalla curiosità che sentiamo verso di noi, come se fossimo i primi viaggiatori giunti in questo luogo: un uomo addirittura esce di casa per chiederci cordialmente i nostri nomi e il nostro paese di origine. Stranamente vediamo, specie se raffrontata con altri centri del paese, una grande quantità di ottici, orologiai, farmacie e ambulatori medici e infine, per un’immensa gioia di Grazia, una bianca chiesa cattolica adornata da un angelo e affiancata da un convitto di suore. Incontriamo Soe, che nel frattempo è riuscito a trovare il fabbro che, nella nottata, ci aggiusterà il portabagagli , e andiamo, finalmente, a mangiare qualcosa. La scelta del ristorante è forzatamente limitata e Soe ne sceglie uno lungo la strada principale, con un ampia veranda in legno, scarsamente illuminato e caldissimo, dove, ovviamente, siamo gli unici avventori stranieri. Mangiamo con tutta tranquillità e tanto appetito le ormai sperimentate specialità culinarie birmane e, nonostante che uno sguardo al soffitto, prontamente nascosto a Ornella, ci avesse fatto vedere una vivente tappezzeria di gechi di ogni dimensione come pronti a caderci nel piatto, passiamo una nuova e simpatica serata.
Grazia ed io andiamo a letto presto; Ornella ed Alberto non hanno molta voglia di entrare in camera: poco prima della mezzanotte, in un momento di mancanza di energia elettrica, li sentiamo ancora svegli nella hall. Buona notte.

VERSO LA GOLDEN ROCK

Venerdì 20 febbraio, dopo una buona dormita, siamo svegliati presto dal suono della campana della chiesa cristiana e poi abbiamo la gradita sorpresa di una originalissima colazione: ci ritroviamo tutti e sei seduti ad un tavolo rotondo mentre alcune gentili donne birmane ci servono senza interruzione una serie di frutti esotici e altre specialità. Cocomero, banane, avocado, frutto a stella, popone, papaya, limone, patata dolce e ananas; deliziose crèpes ripiene di cocco (non facevamo a tempo a mangiare quelle che erano in tavola che già ce ne venivano portate altre), rotelline di banana fritte, risottino con fagioli, uova fritte e, naturalmente, caffè, latte, burro, marmellata e miele: quando riusciamo ad interrompere il flusso delle portate e ci alziamo dal tavolo, conto più di 50 piattini vuoti!
Anche oggi ci aspettano circa 250 chilometri di strada: continueremo verso sud sulla strada per Yangon, fino a Bago, dove devieremo verso est sino a raggiungere il centro base per l’escursione alla Golden Rock, prevista per domani.
Il paesaggio si mantiene abbastanza monotono tra risaie, canna da zucchero e villaggi nascosti da palme e banani. Approfittiamo della consueta sosta a metà strada per rinfrescarci con un ottimo cocomero e fermare lo stomaco con una pannocchia di granturco bollita. Intorno alle 15, superando una specie di posto di frontiera, entriamo nello stato Mon situato sulla costa orientale del Mar delle Andamane e terra di origine della etnia mon, un tempo la più potente del paese ma oggi completamente assimilata alla cultura birmana. Qui, anche se notiamo un inconsueto movimento di lavori stradali e costruzione di ponti, dobbiamo purtroppo constatare un sensibile peggioramento del fondo stradale che ci fa tornare alla mente i tremendi sobbalzi sopportati nel trasferimento da Bagan al lago Inle. Comunque il viaggio continua tra piantagioni di palme, banane, canne di bambù e, novità, alberi di caucciù: vediamo i caratteristici recipienti legati al tronco di ogni albero, a circa 80 cm. da terra, per la raccolta del liquido base per la fabbricazione della gomma. In questa zona ci sono diverse cave sfruttate con il lavoro forzato dei prigionieri: addirittura ne avvistiamo un gruppetto mentre stanno lavorando con i piedi legati da catene: anche se spesso auguriamo una analoga sorte ad alcuni nostri politici e faccendieri, debbo dire che lo spettacolo è, umanamente, alquanto deprimente. Finalmente, prima delle 16, arriviamo alla cittadina di Kyaikto, punto di partenza per l’escursione alla Roccia d’oro di Kyaiktiyo. Oggi ci hanno promesso una sistemazione alberghiera eccezionale e quindi le aspettative sono molte. Lasciamo Kyaikto (leggi Ciaitò) e proseguiamo per qualche chilometro tra foreste di alberi della gomma. Incontriamo un plotoncino di militari che stanno marciando a passo spedito, armati di fucili e mitra e le immancabili …. ciabattine infradito! Nonostante tutto quello che leggiamo intorno alla invadenza della dittatura militare birmana, debbo dire che questa è stata una delle poche occasioni in cui abbiamo veduto qualcuno in divisa. Lasciamo la strada principale e, salendo su una collinetta, entriamo in un ordinatissimo parco dove, non credendo ai nostri occhi, vediamo una serie di nuove casette in legno: sono i bungalows dell’albergo promesso! Ogni coppia prende possesso della sua casetta. Io e Grazia ci sistemiamo in quella posta sul punto più alto del parco. Galvanizzati dal bellissimo ambiente, così diverso dalle sistemazioni degli ultimi giorni, ci concediamo una tonificante doccia e un meritato relax sino all’ora di cena godendoci, pur con una punta di tristezza per l’ormai inevitabile approssimarsi della fine della gita con Chiara e Soe, un po’ di lettura sulla terrazza del bungalow e una vista stupenda sulle verdi colline della zona: proprio di fronte a noi, lontana qualche decina di chilometri, si eleva la collina con la pagoda di Kyaiktiyo. Trovandoci a qualche chilometro dal primo centro abitato, siamo ben lieti di restare a cena in albergo, dove, unici ospiti, ci preparano una bella tavolata sulla elegante terrazza in legno della hall. A piedi nudi, adeguatamente frizionati così come le braccia e il viso di prezioso Autan, su un lucido pavimento in teak, assistiti da un servizio discreto e inappuntabile, diamo libero sfogo al nostro istinto mangereccio. Forse sarà per l’ambiente particolarmente piacevole o per la fame accumulata nell’intera giornata – ricordo che, dalla colazione, abbiamo mangiato solo una pannocchia bollita – ma riusciamo a gustare, nell’ordine: riso saltato con verdure e pollo, spaghettini di riso con gamberetti, patate fritte, medaglioni ripieni di maiale, pesce arrosto, pollo arrosto, curry di maiale con peperoni, caffè, birra, coca e acqua minerale, il tutto per soli 7.040 kiats, pari a circa 56.000 in sei persone. Pieni e soddisfatti ci salutiamo e ci avviamo ai nostri rispettivi bungalows.

ESCURSIONE ALLA GOLDEN ROCK

Tanto per cambiare sveglia all’alba: alle 6.30 siamo già sulla terrazza dell’albergo a fare colazione. Quindi ritorno a Kyaikto da dove parte una strada stretta, sterrata e tortuosa che in circa 40 minuti, superando un dislivello di oltre 1000 metri, ci porta al punto di partenza per iniziare la salita a piedi fino alla pagoda della Roccia d’oro. Noi saliamo con la nostra jeep ma, in alternativa, ci sarebbe anche un servizio abbastanza frequente di pick-up e camion stipati di pellegrini sino all’inverosimile. La strada, dopo un primo tratto quasi normale, comincia a salire e diviene tanto stretta e disastrata da consentire, per gli ultimi venti minuti di percorso, il passaggio dei mezzi solo a senso unico alternato. All’inizio di questo tratto c’è una area di sosta, con baracchina per la vendita di bibite e padiglione per le offerte ai Nat della montagna, dove ci fermiamo insieme ad un’altra decina di mezzi pubblici e auto private per attendere che i camion che stanno tornando abbiano completato la discesa. La sosta dura proprio una ventina di minuti, dopo di che possiamo iniziare la salita in mezzo ad un nugolo di polvere: lungo la strada ci sono decine di bambini che, sperando di ricevere qualche kiat, gettano tazze di acqua sulla strada davanti all’auto al fine di ridurre lo spolverio della terra provocato dal passaggio delle ruote. Siamo a febbraio e sono ormai più di quattro mesi che non piove; questa strada resta aperta fino a marzo, perché poi, con l’inizio della stagione delle piogge, diventa assolutamente inagibile. Saliamo lentamente e ringraziamo il cielo di avere una potente 4×4, anche se Soe non dovrà mai ricorrere all’inserimento delle quattro ruote motrici: il fatto di sapere che ci sono ci fa sentire più tranquilli. Saliamo attraverso una fitta foresta pluviale di banani, teak, bambù giganteschi e altre qualità di alberi. Al termine della strada ci fermiamo in una grande area di sosta circondata dalle solite baracche che vendono prodotti locali, bibite e spuntini vari. Rispetto ad altri luoghi turistici troviamo un gran movimento, anche se fatto quasi esclusivamente da fedeli birmani che arrivano da tutto il Myanmar per venerare la miracolosa Roccia d’oro. Fa caldo e ci aspetta un’ora di faticoso cammino in salita. Soe non si smentisce e resta nell’area di sosta con la scusa di dover controllare la jeep; Ornella, con il piede sempre più mal messo e dolorante, deve ricorrere, dietro lauto compenso, ad una portantina, fatta da due lunghe canne di bambù portate a spalla da quattro magrissimi ragazzi in longyi; Grazia, Chiara, Alberto ed io ci facciamo forza e iniziamo a salire con le nostre gambe. La stradina, naturalmente sterrata, è fiancheggiata da una quasi continua serie di piccole baracchette in legno dove uomini, donne e bambini vivono e offrono le loro povere merci ai tanti pellegrini e ai pochi turisti stranieri che arrivano sino a qui. Abbondano venditori di tipici prodotti artigianali della zona come pugnali, pistole, fucili mitragliatori, serpenti e altro fatti esclusivamente, in maniera peraltro molto grossolana e infantile, di canna greggia. Man mano che saliamo e ci avviciniamo alla pagoda si allarga il colpo d’occhio sulle colline e montagne della zona, tutte incredibilmente punteggiate da candidi stupa che sembrano nascere, a qualsiasi altezza, dalla fitta foresta. Purtroppo, già dall’area di sosta, abbiamo dovuto constatare che la famosa Roccia oggi è interamente coperta da stuoie di palma per la necessaria periodica manutenzione che consiste nella stabilizzazione delle migliaia di foglie d’oro che vi vengono attaccate, in segno di devozione, dai pellegrini buddhisti. Saliamo ugualmente insieme a una processione continua di uomini, donne e bambini e alcuni sherpa che si portano sulle spalle un grosso cesto pieno di zaini, borse e valigie. Ci fermiamo a bere una fresca lattina di integratore minerale. Ornella, in portantina, si è avviata, ma poi la troviamo ferma perché i suoi portatori hanno reclamato una birra ghiacciata. Avvicinandosi alla pagoda incontriamo diverse bancarelle che vendono svariate qualità di medicine ricavate da erbe o da parti essiccate di animali. Arrivati alla vetta, per entrare nell’area della pagoda dobbiamo lasciare le nostre ciabattine e proseguire, sopportando il fastidioso calore delle piastrelle in ceramica colorata con cui è ricoperto il pavimento, la visita a piedi nudi. Ci aspetta un lungo e luccicante piazzale sulla cima della montagna, fiancheggiato a destra da alcuni piccoli edifici colorati e a sinistra con uno strapiombo protetto da una semplice ringhiera in ferro che arriva sino al punto più alto, dove, mantenuto in bilico su una roccia grazie all’equilibrio procurato da un sacro capello di Buddha miracolosamente appoggiatovi da un eremita, sta un grande e suggestivo masso dorato. Per i lavori di manutenzione oggi l’accesso al masso è interdetto e noi, come tutti gli altri pellegrini, dobbiamo contentarci di vederlo coperto senza poterne toccare la sfoglia d’oro, costretti anche ad immaginare il miracolo del suo equilibrio. Ornella strascica dolorosamente il suo piede sulle calde piastrelle della pagoda e purtroppo non riesce a gustare in pieno la magica atmosfera del luogo: i portatori la stanno aspettando all’ingresso della pagoda per riportarla all’area di parcheggio. Noi comuni mortali scendiamo a piedi mentre un continuo flusso di fedeli continua a salire verso la Golden Rock.
Ritroviamo Soe, breve spuntino e poi, passando per l’albergo per il ritiro e la sistemazione dei bagagli, partenza per Yangon a circa 180 chilometri verso ovest, dove arriviamo verso le 16 e ci sistemiamo nel solito confortevole albergo di qualche giorno fa. Chiara e Soe, stanchi, se ne vanno a casa e noi, dopo un paio d’ore di riposo, andiamo a mangiare all’aperto in un simpatico locale sulla strada. Riso, spaghettini e ottimi gamberi fritti: ormai riusciamo a destreggiarsi con facilità tra i menù birmani anche senza l’aiuto di Chiara e Soe. Si è fatto buio e, dopo una breve passeggiata nei dintorni, inganniamo l’attesa per le telefonate in Italia – sono già diversi giorni che non diamo notizie! – facendo una partita a scopone nella sala dell’albergo. Purtroppo ho la cattiva idea di mettere in palio quattro coca, chi perde paga: per un punto perdiamo Grazia ed io e, per quattro coca, paghiamo in dollari una cifra pari a più del doppio di quello che avevamo speso poco prima per una cena completa in quattro! Questa è la Birmania: se vai nei locali normali stai bene e paghi poco, ma se tocchi le attrezzature per turisti il budget si allarga a dismisura.

IN GIRO PER LE STRADE DI YANGON

Oggi è domenica e, come veri lavoratori, anche noi ci alziamo con tutta calma: dopo tanti giorni di vita movimentata anche noi abbiamo bisogno dio un momento di relax. Facciamo colazione e poi, nel giardino dell’albergo, attendiamo pigramente l’arrivo di Chiara e Soe. Finalmente, avendo una intera giornata da dedicare alla visita della città, pagoda di Shwedagon a parte perché già visitata il giorno dell’arrivo, potremo avere un’idea un po’ più approfondita di Yangon, la capitale del paese, così ribattezzata dall’attuale regime al posto del nome inglese di Rangoon. La città sta a circa 30 chilometri dal mare, sull’omonimo fiume, ed è anche il più importante porto del paese. Con la periferia conta circa tre milioni di abitanti ed è di gran lunga il nucleo urbano più popolato del Mynamar, seguita a grande distanza dall’altra unica vera città che è Mandalay. Turisticamente parlando Yangon vanta solo una cosa veramente da vedere e per la quale si può già giustificare un viaggio, e cioè la Shwedagon Paya. Ma, desiderosi di conoscere e vedere, ci accorgeremo che anche fare un giro nella città, tra le altre pagode e templi, tra i mercati e i palazzi coloniali, passando dal quartiere cinese a quello indiano, risulterà veramente utile per capire la differenza tra le realtà della Birmania vista nei 12 giorni trascorsi in giro per il paese e quella di una grande città che, seppur lentamente, si sta aprendo al turismo e agli investimenti stranieri. Accanto a imponenti costruzioni risalenti al periodo coloniale e oggi sedi di Ministeri e uffici pubblici, si ammassano decine di vecchi edifici a due, tre piani, più o meno fatiscenti, intensamente e caoticamente abitati, occupati al livello stradale da centinaia di negozi, tutti senza vetrine, che ammassano la merce fin sopra il marciapiede. Mi colpiscono gli infissi delle finestre e dei terrazzi di questi edifici, anche di quelli di recente costruzione o addirittura non ancora completamente terminati ma già abitati: sono tutti diversi l’uno dall’altro, contribuendo così ad aumentare quella sensazione di disordine e di precarietà creata dalla marea di abiti appesi, per mancanza di armadi, ai muri e alle finestre, dalla completa assenza di tracce di manutenzione edilizia, dagli innumerevoli fili elettrici sospesi in maniera provvisoria da una palazzo all’altro, dalle cadenti antenne televisive issate sui terrazzi.. E su tutto questo si eleva un, per il momento, modesto numero di moderni grattacieli, costruiti da qualche multinazionale nella classica e scontata combinazione di cemento, alluminio e tanto cristallo, simili a quelli di Pechino e di Bangkok, magari utilizzando ancora delle semplici canne di bambù intrecciate per arrivare con i ponteggi fino agli oltre cento metri di altezza.
Dall’albergo, percorrendo in auto alcune delle principali arterie della città, raggiungiamo la Sule Pagoda, situata nel mezzo della caotica zona commerciale e del nucleo storico di Yangon. La Sule è una pagoda a struttura ottagonale sormontata dalla classica costruzione dorata a forma di campana rovesciata e interamente circondata da una galleria di negozietti che vendono le cose più disparate. Dalla pagoda, situata proprio nel centro di una piazza circolare intensamente trafficata, si dipartono a croce quattro grandi arterie sulle quali a loro volta si innescano una miriade di strade più piccole tutte però rigorosamente parallele tra di loro : Anawrahta Road, Mohabandoola Street, Merchant Road, Sule Pagoda Road quelle principali mentre, identificate da un numero progressivo, quelle più piccole. Dalla Sule Pagoda iniziamo il giro per il centro della città percorrendo prima un tratto della lunga Mahabandoola Road dove, pur essendo domenica mattina, ci sono tutti i negozi aperti e molti venditori ambulanti; poi, lungo una strada fiancheggiata da grandi palazzi risalenti al periodo coloniale inglese, ci dirigiamo verso il fiume per avere un idea del porto fluviale. Arriviamo in un punto dove è attraccata una piccola nave traghetto carica di passeggeri destinati all’altra riva del fiume. Anche qui molti venditori ambulanti e una sensazione di disordine e di sporcizia. Con la scusa del piede sempre più dolorante di Ornella, prendiamo tre trishaw e ci facciamo portare in pochi minuti, sfidando il traffico abbastanza convulso di Strand Road, al Tempio cinese situato a un paio di chilometri di distanza sempre lungo il fiume. Il nome di questo tempio, dove viene praticato una particolare branca di Buddhismo Taoista, è Kheng Hock Keong e risale a circa cento anni fa. E’ una media costruzione in stile tipicamente cinese, con un portale in legno laccato rosso riccamente decorato e un interno con tre statue di Buddha dai lunghi baffi, completamente vestite e omaggiate da una grande quantità di fumanti bastoncini di incenso infilati dai fedeli in grandi bracieri pieni di sabbia. Il Buddhismo cinese, appartenente al filone Mahayana o Grande Veicolo, differisce, sia nella rappresentazione del Buddha che nelle possibilità di raggiungere la salvezza, in maniera abbastanza sostanziale da quello birmano, molto più rigoroso e personale , detto appunto Hinayana o Piccolo Veicolo. Ad accrescere l’atmosfera gioiosa anche se un po’ pesante del tempio contribuiscono vivaci palloncini rossi che pendono dal soffitto e foglietti astrologici rossi appesi alle pareti dai fedeli forse per richiedere l’avversarsi di qualche buon evento. Lo spazio destinato alla devozione delle immagini religiose è preceduto da una specie di piccolo patio dove, seduti a cinque tavolini, alcuni cinesi stanno giocando a qualcosa di molto simile ai nostri scacchi. Lasciamo il tempio cinese e percorrendo alcune strade del quartiere cinese prima e di quello indiano poi, raggiungiamo nuovamente la grande e movimenta Mahabandoola Road. Qui ci lasciamo trasportare dalla corrente tra una incredibile numero di modeste bancarelle che offrono in continuazione “impossibili” specialità culinarie, bollite o arrosto, calde o fredde, che i birmani, seduti su minuscoli panchettini di legno disposti intorno ad un basso tavolino, consumano sul posto a tutte le ore. Grazia e Ornella fanno gli ultimi acquisti e infine arriviamo alla Sule Pagoda dove, soddisfatto per la sua jeep finalmente pulita e brillante, ritroviamo Soe. In base al programma prefissato, ci resta ormai un’ultima pagoda di un certo interesse, la Chaukhtatgy Paya, che raggiungiamo in auto dopo uno spuntino alla trattoria della sera precedente. Questa pagoda è famosa per la lunga – settanta metri – e gigantesca statua del Buddha reclinato contenuta sotto un antiestetico capannone in ferro. Il pavimento intorno alla statua è cosparso di stuoie per consentire ai numerosi fedeli sia di raccogliersi a lungo nei loro consueti atteggiamenti di devozione, sia di consumare dei semplici pasti. Ammiriamo gli imponenti piedi di Buddha, con le piante riccamente decorate dai tradizionali 108 simboli della religione Buddhista.
La visita di Yangon è finita; Chiara e Soe hanno fretta di andare casa per preparare la promessa cena di addio che Soe vuole offrirci a dimostrazione della squisita ospitalità birmana. Ci facciamo accompagnare all’albergo per il solito, necessario riposino preoccupandosi di farci spiegare la maniera per arrivare a casa loro.
Dopo una paio d’ore utilizzate soprattutto per la preparazione dei bagagli, aumentati in misura quasi esponenziale, prendiamo un taxi e ci facciamo riportare alla piazza della Sule pagoda per un’ennesima, ma mai identica, passeggiata per le strade del centro commerciale. Qui, dal tardo pomeriggio, affluiscono, chissà da dove, altre centinaia di venditori ambulanti che vanno ad aggiungersi, distribuendosi sui marciapiedi e ai margini delle strade, a tutti quelli presenti sin dal mattino. E allora, soprattutto quando comincia a farsi buio e quelli più organizzati accendono una seppur modesta lampada ad olio, riprovo la stimolante sensazione di trovarmi immerso in una infinita ma composta baraonda, dove tutti vendono tutto, sempre accompagnati da una serena e imperturbabile dignità che traspare dai loro sorrisi e dai delicati gesti con cui, pieni di fiduciosa speranza, offrono i loro prodotti ai passanti e, soprattutto, ai pochi stranieri in circolazione. Concludo questi flash sui venditori dei mercati all’aperto di Yangon, con il ricordo di un timido sguardo, pieno di consapevole impossibilità ad includermi tra i suoi clienti, rivoltomi da un bambino di circa dodici anni che, seduto dietro un minuscolo banchetto, assisteva al passaggio delle persone con la serena speranza di vendere un semplice bicchiere di…acqua fresca: lentamente, da un grosso vaso, rinfrescandosi passando attraverso alcuni pezzetti di ghiaccio contenuti in un colino di garza, scendevano gocce di acqua potabile – non minerale, solo potabile – in un modesto e ammaccato bicchiere di latta il cui contenuto era in vendita per un kiat!
Ora, per noi, la visita è terminata veramente e, anche se la maggior parte dei venditori continuerà a tenere le merci esposte sino a mezzanotte, per poi cedere a qualche ora di sonno e ricominciare da capo, domani mattina, senza mai un giorno di festa, tutto sempre maledettamente uguale per lui e per quelli come lui, noi dobbiamo staccarci e prendiamo un taxi per farci portare a casa di Chiara e Soe.
Nonostante che Soe abbia avuto l’accortezza di scriverci in birmano il suo indirizzo con le necessarie indicazioni per arrivarci, il nostro tassista faticherà molto a trovare la casa e ci riuscirà solo dopo aver chiesto più volte qualche precisazione agli abitanti della zona. Effettivamente la zona è molto buia e il palazzo di Soe si trova lungo una strada secondaria all’interno di un isolato. Chiara e Soe ci stavano aspettando; Soe è indaffaratissimo e riuscirà a stupirci preparando una splendida cena. Cominciamo con patatine novelle lessate e poi saltate con salsa di peperoncino; ci rinfreschiamo la bocca con un delicato risotto saltato con gamberetti sgusciati; ci sfoghiamo con stupendi gamberoni in salsa di pomodoro insaporita da verdure, cipolla, aglio, erba cipollina e l’immancabile peperoncino; proseguiamo con un piccante curry di maiale e finiamo con una mitica rosticciana di maiale tagliata a pezzettini e saltata in padella; tutto questo doverosamente annaffiato da liscia e fresca Mandalay Beer e Skol. Bravo Soe! I complimenti si sprecano; Grazia non riesce a capacitarsi di come Soe sia riuscito a preparare cotanta cena con un solo fornellino elettrico; Ornella è riuscita, per tutta la durata della cena, a dimenticarsi del dolore al piede; Alberto ed io ci sentiamo piacevolmente avvolgere da un leggero senso di stordimento per le bottiglie di birra vuotate e infine Chiara se ne sta sorniona a godersi il successo del suo amore birmano.
Prima di tornare in albergo, abbiamo il piacere di veder arrivare il fax da Valentina: lei e Nicoletta arriveranno il prossimo 6 marzo e così potranno raggiungere Chiara e Soe già da qualche giorno sulle spiagge del Golfo del Bengala in compagnia di Alessia & Co.

Alcune osservazioni di Alberto Arbasino tratte dal reportage in Birmania del 1996 per conto di Repubblica, poi pubblicato nel volume “Passeggiando tra i draghi addormentati”

….Invece, è una sorpresa e una novità. Affascinante, anche perché non somiglia a nessun’altra. E poco o niente raccontata, illustrata, riprodotta, esposta. Mai dunque un’agnizione iconografica, come quando nei musei qua o là ormai si riconoscono subito i tratti squisiti di……Così ci si butta in un fai-da-te critico, improvvisato, da studenti, divertendoci moltissimo.
……I grandi santuari si presentano come immense macchine mangiasoldi. Vastissime Las Vegas devozionali con centinaia di teche e bacheche e vetrinette e tabernacoli strapieni di simboli e simulacri di spiriti e fantasmi e fessure per introdurre ovunque banconote e monete, sempre lì in vista per incoraggiare il donatismo.
……Sui fianchi robusti di queste cattedraline dall’impostazione maestosa, le formelle di terracotta malamente invetriate di verde bottiglia parrebbero decisamente romaniche, con le loro scenine di capanne e pastori e animali ed alberi così sommari e attoniti. Antelami rustici senza culatello né lambrusco….
…..Giù nei meandri monastici, con le lampadine. Le pitture murali non sono ad affresco: si ha l’impressione che basti un dito con saliva per farle svanire. Tutto acquarello, tutto a secco: ahi, ahi, attenti anche al fiato.
….Le file di donne e ragazze selciatrici, al lavoro come in Cina per la costruzione manuale delle autostrade statali camminano avanti e indietro come indossatrici sotto il sole, ma portando grosse ceste di pietre pesanti sulla testa. Senza l’uso della carriola: non se ne vedono. E senza l’accorgimento di mettersi in riga come i muratori e i pompieri d’una volta: passandosi i mattoni o i secchi sur place col principio della catena umana. Mai neanche un rullo compressore.
……..( I Buddha) Seduti nel gesto che tocca la terra, o anche sdraiati in posse vezzose, leziose, smorfiose, da colazione sull’erba senza formiche. Mai un martirio, mai un supplizio, mai una lamentela o un rinfaccio, mai un tratto spiacevole o un “guardate, per colpa vostra, in che stato”, o “di questo passo, dove si andrà a finire, colonnello”.

Da Tiziano Terzani in Asia – Pagan – febbraio 1991

….Ci sono viste al mondo dinanzi alle quali uno si sente fiero di appartenere alla razza umana. Pagan all’alba è una di queste. Nell’immensa pianura, segnata soltanto dal baluginare argenteo del grande fiume Irrawadi, le sagome chiare di centinaia di pagode affiorano lentamente dal buio e dalla nebbia: eleganti, leggere; ognuna come un delicato inno a Buddha. Dall’alto del tempio di Ananda si sentono i galli cantare, i cavalli scalpicciare sulle strade ancora sterrate. E’ come se una qualche magia avesse fermato questa valle nell’attimo passato della sua grandezza.

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Pubblicato da
Marco

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