di Maria Francesca Pierantoni –
GIORNO 1: Scali e difficoltà
Comincia il mio viaggio lento in Birmania.
Infatti ci metto due scali per raggiungere Yangon: prima Helsinki, poi Bangkok.
Helsinki perché l’elegante compagnia Finnair fa scalo da pochissimo a Bologna e i prezzi sono stracciati. Spazi ampi, rilucenti, tutti griffati Marimekko. Un lusso che mi voglio godere, visto che mi aspetta il paese più primitivo del Sudest Asiatico.
12 ore tra un volo e l’altro a Bangkok, dopo una notte passata in aereo, sono sufficienti per pensare di fare un riposino prima di attraversare tutta la megalopoli per andare dall’aeroporto in culo ai lupi del sud a quello in culo ai lupi del nord.
Praticamente come atterrare a Bologna e ripartire da Rimini.
Ma 12 ore sono lunghe. E voglio provare l’esperienza della Capsula.
La Capsula è un materasso dentro a un parallelepipedo di plastica. È come stare al piano di sotto di un letto a castello però chiuso da pareti. Bello. Tecnologico. Comodo. Non è per nulla claustrofobico. Vabbè, io non sono claustrofobica… Ok. Ho detto una minchiata.
Poi non ho dormito niente per una storia assurda di una tipa che mi scrive su WhatsApp e che mi vuole presentare suo marito per motivi che ho preferito non indagare. Ma questo esula dal mio viaggio.
Sky train e sono in giro per la puzza afosa della capitale.
Zuppa baby size. Cominciamo piano. Che la storiaccia dell’aglio io ce l’ho ancora stampata nel cervello, e quelle sono cose che ti segnano.
Arriva la cameriera. E infatti. Aglio a manetta e un prezzemolo arrogante che sembra di mangiare l’erba medica. Se mangio col cucchiaio, non riesco a scaccolare aglio e prezzemolo. Se mangio con le bacchette viene su solo lo spaghettino di riso e non la verdura.
Di fianco a me, due signore orientali agilissime, mangiano. Senza guardare. Chiacchierando. Spaghettino preso con le bacchette e messo sul cucchiaio col suo brodo.
Osservo. Copio. Mi inzacchero anche lo zaino che sta sotto la sedia.
Insomma io gli voglio bene agli Americani che nelle trattorie più acchiappacitrulli di Piazza Navona, quelle con le tovaglie a quadretti bianchi e rossi, tagliano i bucatini col coltello. Quelli sono uomini in difficoltà.
Giorno 2: Come Hernan Cortez, però buona
Non sono mai stata in un paese più arretrato, primitivo, puro. Il Rajasthan è Disneyland in confronto (semicit.)
Qui una donna che viaggia sola è vista come un Semidio. Una creatura che crea interesse non celato, curiosità morbosa, stupefazione.
In pochissimi parlano un inglese incomprensibile. Gli altri manco quello.
Ti vedono con lo smalto rosso e ridono. Vogliono toccarlo. E quando lo toccano lo sentono liscio liscio fanno gli occhioni. Lo stupore proprio.
Sono poverissimi. Non ci sono i ricchi. I ricchi siamo noi. Sono io (no fa te…) Vivono in capanne piene di fango, o in palazzi anneriti dalla muffa e dal muschio. L’ umidità toglie il respiro. I Birmani, maschi e femmine, portano queste gonne alle caviglie per nascondere delle branchie da qualche parte. Sicuro.
Però gli uomini sono belli, raffinati, nel loro vivere di nulla, con le camicie ben stirate e i longyi. Piccoli, ma snelli con queste gonne che gli fasciano i culini stretti.
Giro a piedi, da sola, sotto il mio ombrello arancione. Qui il monsone non scherza niente, e ieri in fase di avvicinamento a Yangon ha fatto sobbalzare l’aereo e strillare tutti i passeggeri per 20 minuti buoni. Tanto che mia naturale esaltazione per il volo ha lasciato il posto a un certo nervosismo. Stacci tu 20 minuti a sentire gli strilli isterici nella carlinga dell’Airbus dell’ Air Asia, con le hostess coi sorrisi tirati.
Io non ho gridato però. Sono un Semidio.
E oggi, in giro per Yangon, sola, sorridente sotto il monsone, avrei potuto scambiare boccette di smalto rosso con lingotti dell’oro con cui rivestono le pagode. Ma non l’ho fatto. La mia indole democratica e egualitaria me lo ha impedito. Maledetto illuminismo.
Questa arretratezza diffusa ovviamente stride con wifi e globalizzazione. Ma i birmani paiono non accorgersene. Vivono questa contraddizione senza troppa consapevolezza. Forse è normale così. Non hai nulla di nulla. Poi improvvisamente: uno smartphone. Tutto quello che sta tra il Medioevo e Netflix lo hai saltato di botto. E forse non hai neanche troppa voglia di chiederti cosa c’era nel mezzo. Prendi quello che c’è da prendere e ne godi.
Tipo. Pare che godano un sacco coi film di Bollywood. Stasera nel ristorante dove ho cenato con un sontuoso piattone di noodles alle verdure e uova e lattina di coca cola (per 2 euro e 30 centesimi) con annessi scarafaggetti sul tavolo (sono 2 euro e 30 centesimi, non è che puoi pretendere) alla TV c’era questo film in cui lui, maraglissimo concupisce una lei con una frase ad effetto tipo “faccio il meccanico, sono fighissimo, sposami”. Lei solleva gli occhi al cielo con una sottile drammaturgia di insofferenza. A quel punto lui si appende fuori dal fuoristrada che ha appena riparato e fa la mossa di Danny Zucko nel pezzo “tell me more tell me more did you go very far”. Lei fa finta di addormentarsi, e lui le ruba un bacio. E qui crolla ogni senso di realtà. Che tu, con quella fiata da noodles, ti avvicini e lei non se ne accorge mi dispiace ma non ci crede nessuno.
Ora salgo in camera, prendo il mio colluttorio salva-alito e lo baratto con la palla di diamanti che sovrasta l’abbagliante stupa d’oro della Pagoda più bella della città.
Che va bene essere buoni, ma se questi Birmani hanno saltato la storia dei Conquistadores e l’ Illuminismo magari non se ne accorgono.
GIORNO 3: Tempo da lupi, tane da topi
Ho lasciato Yangon alla volta di Kyaik Hto, ultimo paesotto prima di una salita strettissima e ripidissima che porta a una roccia tondeggiante ricoperta d’oro, su cui svetta uno stupa. Il posto è molto famoso tra i fedeli buddisti, ma sono pochi gli occidentali che ci vanno. Oggi ho capito perché.
171 km da Yangon. 4 ore di pullman. Notte nel paesotto per forza perché non ci sono pullman che ti riportano a Yangon in serata. Inoltre sei nel mezzo del niente della foresta pluviale, e da lì puoi solo tornare a Yangon.
Infatti i viaggiatori furbi spesso non deviano.
Io invece devio.
La strada è immersa nella natura più lussureggiante. Palmeti, che diventano campi di riso, che si stemperano poi in una foresta tropicale sempre più fitta.
Ai bordi di questo paesaggio idilliaco, un’umanità reietta che allatta bimbi cullandoli sul ciglio della strada, che trascina verso le baracche di bambù e paglia l’acqua presa dal pozzo, che conduce buoi che tirano aratri, che gioca a dama coi tappi delle birre, usando per scacchiera le mattonelle del marciapiede.
Gente che vive di lavori minuscoli: c’è quello che taglia il legno dietro la sua capanna ne fa piccoli utensili. C’è quello che ha 4 galline segalitiche e che vende le uova che ne ricava. C’è il pastore di 5 caprette. C’è quello che mette un pentolone sul fuoco, 3 tavolacci con le gambe di lunghezza diversa e improvvisa una baracca ristorante. C’è quello che vende le foglie di betel, una via di mezzo tra la coca e il tabacco, che gli uomini masticano, per poi sputare per terra uno scaraccio rossiccio che macchia asfalto, labbra e denti.
In questo angolo di mondo fermo da sempre, io, che vi ricordo ho scelto di deviare, devo cercare un albergo.
La prima camera il tipo ci ripensa e manco me la apre: “no aspetta questa è brutta, te ne faccio vedere un’altra”. E mi porta in un luogo che non posso chiamare stanza, ancorché abbia 4 pareti e un soffitto. Il pavimento, per esempio, non ce l’ha. Ha un misto di terra battuta e cemento macchiato di betel e stenti. La porta del bagno (un lavandino depresso, un cesso macchiato di giallo con una scolopendra lunga 20 cm che tenta la fuga, una doccia da cui non esce acqua) è ricavata da un cartellone pubblicitario di plastica tagliato a misura. “La luce ora non c’è ma tra 10 minuti torna”
Un antro degli orrori, un supplizio dantesco, come mai ho visto nella mia vita. Mai.
In più, piove. Diluvia. È tutto grigio e avvolto nelle nuvole.
Guardo il tipo. Non dico nulla.
“c’è un altro albergo, ma è molto caro… Sono 25 dollari a notte…”
Ma brutto pezzente, ma ti sembro una che non ha 25 dollari? Tira su il mio zaino da quei sudari su cui volevi farmi dormire, libera la scolopendra e fammi uscire da questo incubo.
Poi, raggiungendo l’albergo da mille e una notte (ovviamente una stanza appena sulla soglia del decoro) penso che sono diventata fighetta. Che qualche anno fa non avrei fatto tante storie. È pur vero che un tale lurido squallore non lo avevo visto mai, ma ho dormito in certe topaie che ancora rabbrividisco.
E allora sono tornata a ragionare sul senso del viaggio. Senso che voglio recuperare, e che sta un po’ venendo a mancare per questa estrema povertà in cui sono immersa e anche e soprattutto per la difficoltà del clima.
Non bisogna per forza dormire nelle topaie. Bisogna per forza partire consapevoli che in alcuni posti ti capiterà di dormire nelle topaie, e non sarà un problema. Anzi quello sarà il viaggio. Perché il viaggio è vedere cosa ti succede dentro a te, quando dirmi in una topaia. Non è fare 4 foto alla Golden Rock e andare a dormire all’ Hilton. Quello è turismo. Che è onorevolissimo, nessuno lo discute. Ma è un’altra cosa.
Ma comunque è fuori discussione perché la Golden Rock è avvolta nella nebbia e non si vede una minchia, e l’Hilton più vicino è a Singapore.
Giorno 4: Summer Hits in Myanmar
Stanotte ho dormito parecchio. Ho recuperato la notte perduta in aereo, e mi sono messa a ritmo col fuso.
Ovviamente ha piovuto tutto il giorno, ma non ci ho fatto più di tanto caso perché ho passato quasi tutta la giornata in pullman. Le distanze sono ridicole per noi, popolo di Frecciarossa, ma qui le strade sono pessime, a volte allagate.
Quindi per fare 180 km scarsi ci si mette 5 ore.
Ora sono su un pullman notturno che per farne 400 ci metterà 12 ore, ma va bene così. Viaggiando di notte si recupera tempo.
Il pullman (BIG SURPRISE) è bello e comodissimo, le poltrone si trasformano in letti, ti portano da bere e da mangiare, e ognuno ha il suo schermo, tipo aereo, il che mi ha permesso di vedere un film delizioso, Zootopia.
Avrei potuto vedere un Bollywoodaccio per poi irriderlo pubblicamente per voi. Ma io vi amo, è vero, ma non così tanto da buttare due ore in un Bollywoodaccio. Avrei potuto mentire e recensire un film inventato. Ma non mi sembrava etico.
Allora, dopo Zootopia, ho cercato sul mio schermino un po’ di cose. E ho trovato una chicca assoluta.
La modernità in Birmania è arrivata solo per le cose più leziose. Per i tagli di capelli maragli, per i bastoni da selfies, per la cinematografia opinabile (a parte i Bollywoodacci e Zootopia c’erano solo pellicole fast e furiose o saghe di supereroi di cui, modestamente, m’ importa ‘na sega) e per la selezione musicale. Che è la stessa nostra. Precisa. Le stesse hit dell’ estate. Ok, dai, mi guardo un po’ di video.
E qui. Qui si apre un mondo. Perché le canzoni sono sí quelle in voga. E sono pure cantate dagli artisti originali. Quello che cambia (dio sono emozionata solo a scriverlo) sono i video.
Probabilmente ritenuti troppo espliciti, o semplicemente perché la moda è un’altra, le immagini che accompagnano le canzoni non c’entrano una minchia. Tanto chi se ne accorge? Nessuno lo sa, l’inglese.
Quindi fai partire Ed Sheeran e Justin Bieber, pensando che ti si apra il solito video psichedelico di lui vestito da panda, e invece parte una storia di lei bruttina che, innamorata di un lui che la irride e la bullizza con gli amici, lo salva da un incidente stradale, lui capisce gli errori commessi e si innamora.
Che se proprio vogliamo raccontarcela tutta, chi è che ha preso degli acidi, qui?
Oppure c’è la canzone di Charlie Puth e Selena Gomez “We don’t talk anymore”, le cui immagini, invece di raccontare le vite divise di due che stanno per lasciarsi, ci narra una storia originalissima di lei che parte col treno e lui non va neanche a salutarla, lei ci rimane malissimo, poi lui arriva di corsa perché si era attardato a prenderle i palloncini a forma di cuore.
O Taylor Swift che presta la voce a una favoletta di lui che insegue lei per chiedere perdono. Lei lo schifa, poi alla fine lui le regala un gattino e lei lo perdona.
Insomma una mmmerda. Ma di quella mmmerda che ti ipnotizza, tipo Uomini e Donne, o Vite al Limite.
Stanotte non metterò la mia poltrona in orizzontale e perderò di nuovo il ritmo sonno veglia. Sono troppo curiosa di vedere come va a finire una canzone di Miley Cyrus che comincia con un lui povero e lei ricca.
Che suspence ‘sti video Birmani.
Giorno 5: Yazar Café, cani e fenomeni
Mi sono addormentata quasi subito. Le storie demmé dei video sono state letali. E per fortuna. Perché così un po’ ho dormito. Perché sti burloni dei Birmani, se è giorno ti dicono che ci vogliono 4 ore e ce ne metti almeno 5 e mezzo. Se è notte ti dicono 12 e ce ne metti nove.
Lo straziante epilogo è che alle 03.22 mi scendono dal pullman, me e il mio zainetto, e poi sono tutti fatti miei che la guest house mi aspetta alle 06.00.
E come me, ovviamente anche tutti gli altri viaggiatori sullo stesso pullman. Con la stessa pippa di avere alberghi prenotati ma al momento chiusi.
Almeno non piove. Che venendo da Yangon è già stranissimo.
Ci ritroviamo tutti, siamo in 7, all’unico posto aperto tutta la notte: lo Yazar Café.
Che io dico, grazie infinite e sia lodato ogni Dio che ti pare, ma a te, Yazar, chi te lo fa fare di stare aperto tutta la notte, per accogliere 7 stronzi, che al massimo si bevono un tè, per 500 kyat, equivalente di euro 0,30?
Perché non passa nessuno. È ovvio. Sei nel nulla della foresta pluviale. Kalaw è poco più di un villaggio. Al contrario di New York è una città che dorme eccome. Se ci abiti, non è che la sera stai a gozzovigliare in giro. Se non ci abiti stai nelle guest house, beato te. Se ci sei appena arrivato, vai da Yazar. E Yazar, vuoi perché ha un cuore d’oro, vuoi perché a lui 2 euro e 10 gli fanno nottata, ti accoglie.
Intanto che sei lì, fai quella comunella tipica dei viaggiatori che se la tirano. Quelli per i quali è un attestato di stima essere in culo ai lupi di notte a rollarti le sigarette con l’aria di chi ha vissuto un sacco e sa cosa vuol dire viaggiare.
Sarà che non ho più 20 anni, sarà che non rollo nessuna sigaretta, fatto sta che io vorrei solo andare a letto. E invece “Ma di dove sei? Ma sei francese? Prima volta in Indocina? Ma quando sei arrivata? E quanto rimani? Ah, io vengo da un trekking estremo in mezzo alle tigri. Ho guadato il Mekong surfando su un coccodrillo. Ho bevuto con la cannuccia filtrante da un fosso intanto che con l’altra mano facevo partorire una contadina di etnia Shan. Senti, non è che c’hai internet che provo a contattare il mio hotel che comincio ad avere freddino?”
Gli presto il telefono intanto che con l’altra mano mi ritocco il rossetto.
Poi arriva un branco di cani.
Sette o otto randagioni imparentati, tutti bionduzzi uguale.
Ce l’hanno con uno in particolare: comincia una cagnara paurosa, strilli, guaiti, ringhi feroci. Il tutti contro uno semina il panico tra i fenomeni del Mekong. Una ragazza sale in piedi sul tavolo, gli altri restano immobili.
Io soffro come una bestia a sentire i lamenti di quello attaccato da tutti e d’istinto mi parte l’ urlo che farei a Titino, con tanto di accento petroniano: “OH ALORA!! ABBIAMO FINITO DI FARE I MARAGLI??”
Adesso, non sono un’eroina del Mekong e non dico che di botto sia finita la rissa, hanno continuato a ringhiare e a mostrare i denti, ma il bullizzato ha smesso di piangere e piano piano si sono tutti calmati. I maragli hanno attraversato la strada e il topino tutto mezzo morsicato si è rintanato sotto il tavolo.
Chiedo a Yazar un piatto di spezzatino di pollo.
Lo faccio scivolare sotto la sedia.
Stanotte Yazar fa 2 euro e 19 + 2 euro e 80.
Chi è più figa, sbarbo?
Giorno 6: Una vita di melma
Oggi sono partita per un trekking di 40 km che da Kalaw mi porterà domani al Lago Inle.
20 km al giorno attraverso colline, montagne, campi, natura veramente incontaminata.
Qui, più a nord rispetto a Yangon piove meno, oggi per esempio non ha piovuto affatto, Ma non è che se non piove un giorno, tutto quello che ha piovuto nei giorni scorsi si è asciugato. No. Per niente proprio.
Infatti questo trekking si rivela da subito molto difficoltoso, tanto che mi stupisco che non mi abbiano avvisato, o fatto domande sulla mia condizione fisica. Ma evidentemente la loro percezione della fatica o del pericolo è molto diversa dalla nostra.
Insomma, capisco dopo pochi metri che ci sarà da divertirsi. Perché in effetti quella che mi preparo a vivere ha tutti i tratti della vera avventura. Un’avventura di fango. Di, a, da, in, con, su, per, tra, fra il fango.
Un fango di una consistenza tipo argilla, che ci puoi fare i vasi, che ti acchiappa la scarpa e non te la molla più.
Dopo 20 minuti di camminata sono più lorda che a Jodhpur, ma il panorama intorno a me è da togliere il fiato. Risaie verdissime, colline dolci e profumate di pomodoro, come certe sere d’estate, tra i campi appena fuori Sirolo. Un silenzio assoluto, solo qualche muggito di bufalo infastidito dalla mia presenza, e il cick ciack dei nostri piedi nella melma. Sono da sola, io e Pyio, la mia guida. Un ragazzo che parla bene l’inglese e va a randa, e mica si gira a vedere se arranco, quindi mi tocca non arrancare, o mi molla qui da sola tra i bufali innervositi. Imbufaliti, infatti, si dice. Minchia, meglio allungare il passo.
Gli sto dietro, a questo ragazzino cresciuto nella palta. Anni di cane da pisciare in giro per i colli mi tengono in allenamento da terreno impervio, e anni di danza mi tengono in equilibrio. Ma mi domando chi, tra le mie conoscenze, se fosse stato trascinato in un tale percorso, ancora mi rivolgerebbe la parola, o quali porconi vezzosi avrebbe inaugurato.
Intanto volteggio con grazia e leggerezza tra le pozze, tenendomi sempre vicina a Pyio. Ogni tanto mi guarda, nei passaggi più assurdi, tipo un guado da fare passando su un’unica canna di bambù: piedi in prima posizione e un due tre, passo di là. Oh, manco un brava.
No. Non cado. So che stavate aspettando lo sminchiamento. Ma a differenza degli altri trekkers che incrociamo, molti dei quali con gli occhioni da Bambi e il culo a bagno nelle risaie, io non cado. Non cado nemmeno nel secondo tratto, quello di montagna. Che se fossi caduta nel primo, al massimo battevo una cullata e mi facevo un outfit da mud – fighter, qui sarei morta, perché ogni 20 cm affioravano rocce aguzze.
Arriviamo al villaggio dove sono ora. Un villaggio rurale sperduto. Ma sul serio. Non c’è connessione. Non c’è luce elettrica. L’acqua corrente la prendi solo da una pompa nell’aia.
Sono piena di fango, perché mi sono arrampicata con le mani e le ginocchia, nei passaggi più ripidi, e chiedo di fare una doccia.
Mi portano in un cubicolo in giardino con un barile di acqua da cuoi attingere con una scodella. Ok. Niente doccia. Nessun problema. Mi sciacquo a cazzodicane, e va benissimo così.
Mi mostrano la camera dove stanotte dormirò.
La mia singola è precisa all’antro degli orrori di Golden Rock. Ma qui veramente non posso fare nulla. Non c’è altro luogo dove io possa dormire al coperto. Ed è meglio avere un tetto, visto che sta cominciando a piovere.
Ok. Qui c’è gente che ci vive. Ci vive 365 giorni l’anno. Senza nulla. Con 5 figli e un gatto che mi ha preso subito in simpatia.
Se per una notte dormo come loro non mi succederà nulla.
Ceniamo alla luce di una candela e di due lampadine a pile.
La cena è squisita. Poi però mi scappa la pipí. Il bagno è fuori.
Scendo con l’ombrello e il telefono come torcia in mano. Il cesso, vabbè, cosa ve lo dico a fare.
Piscio col telefono in bocca e l’ombrello aperto, perché piove dentro.
Torno alla mia topaia a scrivere queste righe, sapendo che le potrò postare solo domani.
A chiudere questa giornata incredibile, vissuta come in pieno ‘800, il gatto mi sale sulla pancia.
Se dormirà con me, i topi non mi assaliranno.
I pensieri su quanto siamo fortunati, al di là di ogni retorica, si.
P. S.
Il gatto ha dormito con me. I survived
Giorno 8: Cose che si rompono
[Giorno 8 perché il 7 e andato perduto nel salto temporale all’indietro e non lo recuperiamo. Questi non hanno neanche l’elettricità per far andare una lampadina, come li genero io 1,21 gigawat?]
Il Lago Inle e i villaggi che vi si affacciano, o vi sorgono direttamente sopra, attraverso una rete fittissima di palafitte, ha l’aspetto di un luogo di vacanza. Ed in effetti lo è, anche se per i nostri standard potrebbe sembrare strano. Acque limacciose, strade sconnesse, vita notturna fino alle 21, dopo le 21 in giro ci sono solo i cani randagi.
Eppure è pieno di alberghi, ristorantini, bike rental.
E allora noleggiamola questa bici, che mi fa subito estate in Viale Dante a Riccione.
Però non siamo a Riccione. Me lo ricordano, in modo del tutto pleonastico, le botteghe buie, le rane che gracidano nelle acque stagnanti dei canali, i motorini carichi di persone,
Ho letto di una fonte di acqua calda qui vicino: diverse vasche in stabilimenti termali attendono i locali e gli stranieri che vogliono passare qualche tempo a mollo nell’acqua termale, che sgorga da una sorgente a poco più di una decina di km da dove mi trovo.
Comincio a pedalare. La bici è nuova e scomoda, col sellino stretto e duro.
Esco dalla città e mi ritrovo in piena foresta.
Vabbè, ho i mezzi che mi consentono di andare avanti in tutta tranquillità.
Imposto Google Maps.
Hot Springs. La tua destinazione si trova a 11 km. Prosegui dritto fino a Pan yio Lin+**&€@## Road, poi svolta a sinistra.
Svolta a sinistra e prendi tan iowe%%@&/)** Road.
Prosegui dritto. Segnale GPS interrotto.
Come interrotto? Non c’è di nuovo connessione? Vabbè. Diceva dritto. Andiamo dritto.
Infatti dopo un certo numero di km trovo le terme del Lago Inle.
Chissà cosa mi aspettavo. Avevo anche il costume nello zainetto, tenerella.
Una serie di vasche quadrate di 3 metri per 3, piene di cinni chiassosi che sguazzano tra i muschi e le alghe che crescono sulle piastrelle. Scoli di acqua, termale, per carità, ma pieni di fango che alimentano le stesse vasche. Mamme che lavano i fratellini piccoli con lo shampoo, mentre questi urlano e si divincolano perché vogliono andare a fare i tuffi coi grandi.
Un vascone più grande e deserto, che è evidentemente un lavatoio per i panni.
Adesso, non è che mi aspettassi Bagno Vignoni, ma la mia guida però dice delle fregnacce.
Giro la bici e torno verso il mio villaggio.
Aspe’. Dov’ è che dovevo girare? In Yuppognogno Road, mi sembra. Che era di qua, mi sembra.
Boh. Mi sembrava più vicino.
Intanto, il culo sul sellino duro mi duole.
Capisco di aver sbagliato strada quando tutti, grandi e piccini, mi salutano sbracciandosi e sorridendo senza i denti, vuoi per il naturale corso della dentizione, vuoi per i danni imbarazzanti del betel.
Tutto questo calore mi parla di un corposo kilometraggio in direzione opposta a quella dove dovevo andare, dove bene o male tutti sono abituati agli stranieri.
Riprovo Google Maps. Segnale GPS interrotto.
Ok, il navigatore non va. Torno indietro e sto più attenta a dove devo girare. Anche perché non ci sono tantissime strade, ce la posso fare anche da sola.
Però ora è in salita. Stacco il culo dolorante dal sellino per spingere meglio di quadricipiti, e, sarà la potenza dei miei muscoli, sarà che la bici sembra nuova ma non lo è, mi scende la catena. Che è anche un modo di dire bolognese che rende benissimo l’idea: sei li che pedali e ti impegni ed a un tratto vai a vuoto. Con quello scoramento misto a sorpresa, misto a indignazione.
Giro la bici, rimetto la catena, rimonto in sella.
Trovo la strada, in effetti non era complicato, ma ho sulle natiche una decina di km in più di quelli che avrei dovuto fare.
Così, decido che nel pomeriggio raggiungerò con la barca in Monastero detto dei “Jumping Cats”: pare che qui i monaci allenino i gatti a giochi circensi, tipo il salto nel cerchio. In cambio ai gatti è consentito di stare all’interno del monastero e anche della bellissima e antichissima pagoda.
Contratto il prezzo della barca con una grossa, minacciosa signora, che mi manda i suoi due figli, un ragazzino e una bimbetta, sono loro che mi porteranno.
Bello però questo lago. Che pace. Che belli questi fiori galleggian
CACRANK CACRANK
STOK!!
Fermi. Il Ragazzino mi tranquillizza: non agitarti … tutto ok… Solo un minuto…
Io non sono agitata, non ho fretta, sto benissimo lì, a godermi quel po’ di sole che è spuntato.
Chi si agita è sua madre, alla quale la sorellina ha telefonato per chiedere cosa dovessero fare, immagino. La sento che strilla pure senza il vivavoce. Comunque il fratello non si perde d’animo e pagaia, rifiutando il mio aiuto, fino al Monastero.
Mi fa scendere e vedo che si arrabatta con gli altri suoi colleghi barcaioli in cerca di una soluzione.
Io entro nel monastero, che è veramente bellissimo, di tek intagliato, pieno di statue antichissime. E pieno di gatti. Che dormono. Che si stirano, che ti fanno le fusa. Che si leccano, che si fanno accarezzare.
Ma di saltare non se ne parla.
Sono rotti pure loro.
Bisogna che la facciamo una bella revisione, cara Birmania. Che va bene non essere ossessionati, ma da qui alla perfezione di margine ce n’è parecchio.
Fallo per le tue mamme, che sennò gli viene un infarto, Birmania.
A grande richiesta – GIORNO 7: Acchiappacitrulli
Mi piace un sacco questa parola toscana.
Un acchiappacitrulli è evidentemente qualcosa che acchiappa i citrulli.
Se sei un occidentale in viaggio in un paese più povero, devi tenerla bene a mente. Perché tenteranno di acchiapparti. E verosimilmente ce la faranno.
Perché tu vieni da lontano, non hai dimestichezza con la valuta, con la lingua, con gli usi.
Un accchiappacitrulli, ad esempio, sono i pescatori del Lago Inle, evidentemente pagati dall’ ente del turismo, che stanno sulle loro piroghe a cincischiare su Istagram, poi, quando si avvicina la barca col citrulllo sopra, mollano lo smartphone e si mettono nella classica posizione in bilico su una gamba sola.
Credi forse che io non abbia notato la mossa, o pescatore? Poi la foto te a faccio lo stesso perchè bello sei bello, lì in equilibrio come magari faceva tuo nonno per pescare davvero i pesci.
Oppure le donne giraffa, che hanno veramente il collo deformato da tutti gli anelli, ma che ora vengono esibite come fenomeni da baraccone. Le fanno tessere su antichi telai, o suonare strumenti strani dentro ai negozi di souvenir, mentre la commessa ti acchiappa e ti mette una collana che simula gli anelli veri e ti fotografa manco fossimo in Riviera Romagnola negli anni ’80.
C’è un che di fastidioso ma inesorabile nei momenti in cui di rendi conto di come tutto sia apparecchiato a tuo uso e consumo di Europeo. Che quello vuole. E per averlo, se ne frega se passa per cretino.
Poi ci sono gli acchiappacitrulli a livello di soldi.
Tu arrivi con il tuo metro di valutazione, e questo ti frega.
Devi andare in un posto col taxi. Sono tanti km, tipo 130, tra andare e tornare.
Ti chiedono 30 euro. Dici wow, pochissimo. Acchiappato il citurullo. Con 15 gli facevi un regalone.
Stai a 1500 metri, in alta montagna praticamente, anche se i bambù tutto intorno danno un’ aria tropicale. Hai freddo. Vuoi una maglia a manica lunga. 4 euro.
Vabbe’ che sono 4 euro? Un acchiappacitrulli bello e buono, perchè già 2 era un furto.
Non è colonialismo o sfruttamento, è puro buonsenso. Perchè ti senti un deficiente quando la signora dietro di te per la stessa maglia tira fuori una banconota diversa.
Ti capiterà spesso di sentirti chiedere da un autoctono: “Quanto lo hai pagato?… Cooosa? Ma è troppo! Se venivi da me ti facevo la metà”.
Ovviamente non è vero. È solo un modo per sondarti, per avere una misura di quanto poter estorcere al prossimo citrullo di passaggio. Sia mai che il tuo collega la sappia più lunga di te.
Praticamente, sei in mano a tanti piccoli Robin Hood che rubano ai presunti ricchi (nel mio caso, lo stai presumendo decisamente a raglio, o negoziante) per dare a loro stessi. Che però in effetti sono davvero poveri.
Quindi alla fine va poi bene così.
P.s.: Ora posseggo un bellissimo longyi che ho pagato 10.000 kyat, quando un Birmano lo avrebbe comprato per 4.000. Solo che 10.000 kyat sono poco più di 5 euro. Quindi acchiappami come un citrullo, e sii felice, furbetto birmano.
Giorno 9: Sole e Lentezza
Oggi c’è il sole. Che puoi sembrare un dettaglio, ma per una mediterranea lucedipendente come me cambia tutto.
È il primo giorno senza nuvole grigie e pioggia. E infatti sono esplosi i colori.
Di colpo sembra tutto più pulito, meno in stato di abbandono.
È il mio terzo giorno qui a Nyaung Shwe e stasera partirò per Mandalay, saltando una tappa a cui tenevo tantissimo, Pyin Oo Lin, con il passaggio su un viadotto ferroviario a picco sul nulla molto suggestivo. Purtroppo i ribelli armati, oppositori del regime, stanno ammazzando molti militari, ed è in atto una vera e propria guerriglia. Quindi quella è zona interdetta a tutti gli stranieri.
Così, togliendo una tappa, si allungano i miei tempi di permanenza nei due luoghi che ancora devo visitare, Mandalay e Bagan.
E questo va ancora più nella direzione che voglio dare a questo viaggio. Uno stare piuttosto che un toccare di corsa.
Oggi per la prima volta sono ‘stata’.
Con calma, senza fretta. Passeggiando lentamente, ho guardato per bene. Che sembra una minchiata ma con l’ombrello non puoi guardare per bene. Col vestito bagnato e i piedi grinzi di acqua non si cammina bene. Non ci si prende il tempo giusto. Non si sta.
Sono andata al mercato cittadino.
Penso che per entrare in un mercato del popolo, non un centro commerciale per turisti, ci voglia un po’ di tempo. Non puoi andarci subito. Hai bisogno di essere arrivato da un po’ per sopportare le puzze, la vista di cose inusuali o fastidiose, gli assaggi che ti vengono offerti e che rifiutare è somma scortesia.
Devi esserti vaccinato agli sguardi straniti che cercano di capire se sei lì a godere del mondo o a giudicarlo.
Oggi, col sole, era il giorno giusto.
Il naso, signori. Il naso è il primo a rilevare il gap culturale. Odori sconosciuti, pungenti, non rivoltanti come in India, ma sufficientemente acri da farti capire che sei in uno spazio sconosciuto ancora tutto da capire.
Poi la vista, che unendosi all’olfatto, ti da la consapevolezza che quella puzza che senti è l’odore della a carne, che viene smembrata da grossi coltelli, sono i pesci sventrati, e il sangue che cola.
E lì capisci che certe scelte difficili che hai fatto non sono ancora abbastanza, e dici mai più carne, mai più pesce nel mio piatto, e cerchi ti archiviare questa puzza di morte, che ti aiuterà a darti la forza, quando sentirai odore di lasagne.
Intanto tutto intorno, le grida incomprensibili di chi richiama i clienti, ogni tanto un Hello Miss ti ricorda che sei un intruso in quel mondo fitto di vita non tua.
Se sei furbo, hai l’occhio sempre avanti di 3 o 4 bancarelle, in modo da vedere se ci sono assaggi in corso, eventualmente di cosa, ed eventualmente girare sui tacchi e tornare da dove sei venuto. Poi è chiaro che non puoi sapere cosa ci sia ad esempio dentro una specie di raviolo che mi è stato offerto oggi, se formiche o tartufo di Alba. Anche se era più verosimile formiche, così a occhio.
Per fortuna dentro c’era cocco. Salva.
Poi, passeggiando lentamente, vado a drogarmi della mia nuova sostanza, la tomato salad, in un ristorantino carino, per occidentali, perché la baracchina di ultimissima per i locali che la fa ancora più buona apre solo alla sera.
Cammino piano. Sto. Guardo i cani, con le cicatrici su cui non cresce più il pelo, alcuni hanno addirittura il collare con la medaglina.
Dormono sulle panchine, coi musetti sporchi.
Guardo un bimbo che si toglie le ciabattine rosse e si mette a giocare a pallone.
Guardo i galletti e le galline che beccano tra le strade polverose e mi accorgo che hanno zampe lunghissime.
Mi accorgo che questo è il viaggio che volevo fare, tornando in albergo per una sosta polleggio pomeridiana, a mangiare i pomodori comprati al marcato nel piccolo patio davanti alla mia camera.
Il viaggio vero è cominciato oggi.
Se poi rimane anche un po’ di sole mi si abbronzera’ anche l’anima.
Giorno 10: La Pezza
Hai voluto il sole? Ora suda.
Sia benedetta Mandalay, col suo caldo soffocante e neanche un momento in cui ha minacciato di piovere. Siano benedette le piastrelle roventi su cui camminare a piedi nudi, la bottiglia da un litro nello zainetto, la frangia che ti appiccica.
Sono arrivata stanotte. Alle 3.30 invece che alle 7.00
(per fortuna Mandalay è una metropoli, non un paesotto, e il mio albergo era aperto) dopo un viaggio in cui ripetutamente ho pensato di perdere la vita giù da numerosi dirupi, davanti ai quali un folle alla guida arrivava in derapata.
Highlight del viaggio: il passaggio della frontiera tra la regione Shan e quella di Mandalay. C’è una dogana vera e propria, che non serve a niente, se non a permettere ai doganieri di farsi i fatti tuoi. Ti svegliano, e ti fanno scendere dal pullman senza spiegarti che dovrai passare la dogana. Tu pensi che sia l’ennesima sosta in chiamiamolo autogrill, ti infili le Reebok nel dormiveglia, con la parte dietro che ti rimane sotto al tallone, prendi lo zainetto al volo per comprati una bottiglia di acqua già che ci sei. Invece no. Non c’è nulla da comprare.
Ti fanno sfilare uno a uno davanti a dei tipo poliziotti, che ti perquisiscono svogliatamente, se hai una faccia simpatica ti fanno passare direttamente al collega per il controllo borse. Ti fanno aprire la borsa. Guardano dentro. Toh. Un portafoglio. Lo apra, per cortesia. E questo cos’è? È la mia tessera sanitaria italiana. Le fanno così. Ah dai! Carina! E questo? Queste sono le pillole per il mal di testa. Io ne soffro, le tengo sempre nel portafoglio. D’accordo. Ma perché c’è la plastica intorno? Le vendono cosi. Per non fare rovinare il blister. Ma dai. E questo? Questo è un burrocacao. A scatolina, si. Lo apra. Che buon profumo! Ancora una cosa: dove è diretta? Mandalay. Ci abitano mio fratello con mia cognata e i tre bambini. Bella città. Grande. E questo cos’è? È un elastico per tenere attaccato allo zainetto il cuscino da viaggio. Quello per il collo… per il collo. Il collo. Quello fatto a u. Ah. Quello che usate voi. Ma è utile? Si. È comodo. Il visto, signora. Ecco il visto. Questo a cosa serve? Ecco, signora, non serve a niente, è… tipo un portafortuna. Un cavallo? Il mio Cavallino, si. Ok. Passaporto. Ecco il passaporto.
Ovviamente tutte le altre borse che hai lasciato sul pullman non le controlla nessuno. Ma è l’una di notte, hai le scarpe infilate male che ti fanno male ai piedi, non è che ti metti a questionare con la poliziotta, con tutto che sai che da giorni c’è la guerra civile contro le forze governative e magari son tutti nervosi.
Quindi chiudi lo zainetto saluti e te ne vai. Signora! Mi dica… Lo so che non dovrei… ma il burrocacao… …si? …. Ma certo, agente. Tenga. Si da col dito.
Madonna che tenerezza.
Hanno questo modo dolce di cercare interazione, condivisione. Non sono mai pressanti, o insistenti, o maleducati. Sono timidi, curiosi. Poveri. Tutto quello che hai nella borsa per loro è un mondo stupefacente.
Anche quando sei al ristorante, dopo che hai ordinato e il cameriere porta l’ordine in cucina, torna lì di fianco al tuo tavolo, in piedi, e ti guarda. Ma cosa guardi, ma trovati qualcosa da fare. Poi capisci che tu sei un po’ come il circo Barnum per loro, e vabbe’ allora. Guardami pure intanto che aspetto il tuo cibo.
Oggi, a Mandalay, città bella e grande, piena di sole e caldo e pinnacoli infiniti che svettano verso il cielo, ho incrociato moltissime volte ragazzi, per lo più giovani e maschi, che ti attaccano una pezza. Una. Sempre quella. Ciao. Di dove sei? Come ti chiami? Anni? Che lavoro fai? Prima volta qui? Quanto rimani? Cosa ti piace di questo posto? E alla fine ti chiedono un selfie insieme.
Solo che lo fanno con una timidezza, a mezza voce, sentendo che tu sei sul chi va là perché ma cosa vuoi? Ma chi ti conosce?
E allora camminando sulle uova, guardinghi, continuano ad attaccarti la pezza. Un uomo vestito all’occidentale, coi pantaloni e non il longyi, pezza e selfie. Un monaco, pezza e selfie. Un ragazzino che avrà avuto 15 anni, pezza e selfie. Un gruppetto di amici che si facevano coraggio uno con l’altro e per l’imbarazzo ridevano.
Adesso però, ragazzi, mi dite perché tutti attaccate ‘sta pezza, con le stesse domande, la stessa difficoltà a interagire, la stessa modalità di chi sa che sta rompendo i maroni, ma deve farlo per forza.
È per i compiti di inglese. Dobbiamo fare conversazione. Si impara meglio così. Ti va se ci facciamo un selfie? Che è la prova per il professore che abbiamo fatto i compiti davvero.
No vabbe’
Io li amo, questi Birmani.
Giorno 11: il Bello e il Brutto
Avevo un appuntamento questa mattina alle 9 col Vecchino Lento. Il Vecchino Lento potrebbe avere 80 anni come 115, o forse solo 55, ma è Birmano, e come la grande maggioranza dei suoi coetanei, è devastato dal betel. Ha la bocca gonfia e deformata, macchiata di rosso scuro, e pochissimi denti. Marci. Neri e rossi.
Il Vecchino Lento guida uno scooter, cilindrata 4, che lancia aiutandosi coi piedi.
Il Vecchino Lento ha avuto l’ardire ieri di offrirsi come moto taxi per portarmi a Mingun, paese con una pagoda molto particolare, a circa 40 km da Mandalay.
Per questo abbiamo un appuntamento. Non perché io mi sia fidanzata.
Il Vecchino Lento ieri, nel traffico della città, non mi sembrava un fulmine, ma cosa vuoi mai, la viabilità è caotica.
Oggi ci ha messo 2 ore a fare 40 km. Che diventano 4 se calcoliamo anche il tempo per tornare. È vero che questo è un viaggio lento. Ma sono IO che devo andare lentamente, non il moto taxi.
Questo ha avuto un lato brutto, il tempo buttato e il nervoso che andare così piano mi ha creato, ma anche un lato bello, perché mi ha permesso di guardare con attenzione tutto ciò che mi sfilava di fianco.
Ho visto un vero e proprio slum, con le baracche sfatte in mezzo al rusco.
Ho visto bambini di 4 o 5 anni vivere su stuoie sulla polvere della strada, con lo smartphone in mano.
Ho visto pagode rilucenti nella foresta rigogliosa. Fiori bellissimi.
Ho visto pannelli solari attaccati alle batterie di vecchi camion, che incameravano energia per alimentare le baracche.
Una mucca senza la coda, col moncherino sanguinante.
Ho visto il ponte in tek più lungo del mondo, su cui passeggiano sereni i monaci con le tuniche bordeaux.
Ho visto tanti cani semi randagi, con al collo una specie di collare, fatto on materiale di recupero. Un pezzo di plastica da pacco, un vecchio cavetto per ricaricare il telefono.
Ho visto enormi lastre di giada diventare piccoli gioielli, ho visto cuochi cantare davanti ai fornelli, frittelle di gamberi che non ho assaggiato ma sembravano buonissime, e passeri prigionieri in un cesto, che come voto, puoi comprare per liberarli.
Sono un po’ sottosopra.
Il bello e il brutto sono tessuti così strettamente insieme che non sai se questo abito che ti trovi addosso ti gratta la pelle o ti scivola dolcemente.
Andando ai 20 (ah, a matematica non è un’opinione: se per fare 40 km ci abbiamo messo due ore…) ho avuto il tempo di pensare. Che è vero che sei poverissimo, e non starò qui a fare discorsi alla Martina Dell’Ombra tipo “perché non vanno a vivere in una casa invece che in una baracca, che tra l’altro si sta più comodi” però un po’ di colpa ce l’hai.
Non hai un soldo. Ok. Stiamo su quello che hai. Hai quattro pali, una stuoia e un telo di plastica cadente. Davanti a una montagna di rusco. Perché non rimuovi il rusco? Perché non tendi meglio il tuo tetto di plastica? Perché ti sei abituato a questo, e lasci che la vita ti scorra addosso atroce, a te e al bimbo con lo smartphone? È la tua religione? È un’espiazione? È che non vedi che si vivrebbe meglio a 10 metri dal rusco?
Non lo so. Non lo sanno nemmeno loro, credo. Solo che fa pensare. Non fa “male”, ormai ho viaggiato a sufficienza per non caricarmi dei mali degli uomini. Li vedo. Li osservo. Cerco di capire ma senza giudizio e senza dolore.
Con gli animali è diverso, ma questa è una sensibilità mia, sulla quale è inutile e ozioso aprire il dibattito. I passeri nella gabbia, la mucca e i cani, continuano a straziarmi l’anima.
Ma la mia anima oggi si è nutrita anche del candore di Mingun, della dolcezza del fiume Irrawaddy, del tramonto sul ponte.
E di una serie carina di cose che mi sono state dette dalle persone più diverse. A partire dal Vecchino Lento, che chiedendomi di scendere sui tratti di salita più impervi, e rimanendo io impassibile, senza dare alcun segno di insofferenza, mi ha detto che sono la sua passeggera preferita ever. Always smiling, always kind.
Mh. Forse I denti glieli hanno rotto altri passeggeri. Non il betel.
O anche Phyoe, la guida del trekking che mi ha detto più o meno le stesse cose Che sons la sua trekker preferita di sempre, allegra e divertente nonostante il costante rischio vita al quale mi stava sottoponendo. O un’ amica che mi ha detto che legge il mio diario con la sua mamma, ed è diventato un piccolo rito. O chi mi scrive in privato senza conoscermi per dirmi che adora tutto ciò che scrivo, così, spinto da una gratitudine che stento a comprendere, ma che oggi mi fa bene.
Allora penso a come sto, sommando tutto il bello e il brutto. Ma non della Birmania. Della mia vita.
Sto bene. Ho una casa lontana dal rusco, un cane intero, con la coda e tutto, con un collarino glam-rock. Ho un lavoro che mi consente di viaggiare e mille amici che mi vogliono bene davvero.
Ho anche un buco, però. Che mi spinge a partire e che non riesco a colmare.
Che a volte non mi fa dormire, tipo stanotte.
Come un’ attesa di una felicità totale che non arriva.
E che a volte si fa sentire, quando, tipo oggi, arrivano tutti insieme stimoli positivi e negativi.
C’è chi sostiene che il disequilibrio emotivo sua vitale per la creatività. Specie per un attore.
Quindi, a posto così. Mi tengo il mio buco.
E viaggio da sola, e mi faccio le foto da sola al tramonto.
E godo della doccia che sto per farmi, dopo aver mangiato patate arrosto, con ancora tanti giorni per meravigliarmi, e gioire di questa esperienza pazzesca che è il Myanmar.
Che mi ricorda che sono allegra, gentile, divertente, poetica, e pure bellissima:
“Where are you from? Oh Italy!! Beela , beelisima, okki dee jada…”
“Oh, grazie, sei molto carino”
“Tu calino, beela beelisima okki veedde beelisimo come jada”
“Grazie, davvero…”
“Tu viene in mio negozio, io olekkini, colanee jada, veedde come tuo okki, viene vede le, tu motto beela co olekkini jada…”
È vabbè. Non era poi sto gran maschio.
Giorno 12: Tutto ciò che la vostra Loney Planet non avrà mai il coraggio di dirvi
Dopo 10 giorni di full immersion nel mondo Myanmaro, posso stilare un piccolo vademecum di cose utili da sapere, per chi vorrà esplorare il paese, ma che nessuna guida avrà mai il coraggio di dire.
È assolutamente superfluo ricordare che è tutta realtà.
Se verrai in Birmania, la prime cose da sapere non sono la differenza di fuso orario o il valore del Kyat, la moneta locale.
Sono le seguenti:
1) quando cammini per la strada non stare mai di fianco a un maschio dai 15 anni in su. Stagli davanti o dietro. Perché tempo 2 minuti si voltera’ a destra o a sinistra, questo tu non lo puoi sapere, per sputare gli avanzi del betel masticato.
Sempre in materia di sputi e betel, quelle macchiazze rosse onnipresenti, sono gli sputi seccati. Ricordatelo quando camminerai scalzo, in giro per pagode e monasteri.
2) i Birmani sono un popolo gentile, che si prodiga in una serie di gentilezze che vanno riconosciute, e una volta riconosciute abilmente schivate. Tipo le ciabatte di cortesia nei bagni di hotel e guest houses. Sono infradito di gomma da mettere sotto la doccia, usate da tutti coloro che hanno soggiornato in quella camera e chissà in quanti altri posti prima di te. Se sono chiare non hai bisogno di tenerlo a mente, perché il lercio che c’è sopra lo vedi. Se sono scure non farti trarre in inganno. Sono piene di funghi anche se non si vede.
3) sempre in tema di cortesie, troverai lungo le strade, otri di terracotta che contengono acqua da bere a disposizione di chiunque abbia il coraggio di attingerne toccando il bicchiere da cui chiunque abbia sete può bere. Ma questo anche se non te lo ricordi lo capisci lì per li.
4) inutile ordinare un avocado salad. È finita. Sempre. In tutto il paese.
5) i Birmani non usano armadi. Gli armadi non esistono. I vestiti li appendono all’esterno delle case e se piove li coprono con un telo di plastica. Non aspettarti armadi negli alberghi. Non ce ne saranno. Porta pochi vestiti, e sappi che li appenderai ai lampadari, o agli spigoli del televisore.
6) la thanaka non protegge dalle zanzare ne’ dai raggi del sole come sostengono vecchie credenze tribali. Portati una crema solare come Cristo comanda e dell’ autan vero. Poi, se vuoi fare la cogliona e farti le foto con la faccia dipinta da gatto, fallo e divertiti, ma non fare finta che serva a qualcosa.
7) se pensi di venire in Birmania a fare bordello, pensi male. Qui alle 21.00 non c’è più una minchia da fare. Questo magari te lo dicono pure le guide ufficiali. Quello che non ti diranno è che il bordello lo fanno alle 5 del mattino, quando cominciano a urlare, trapanare, mettere in moto vecchi diesel che scoppiettano come i miniciccioli a carnevale.
8) se pensi di venire in Birmania a far bene, sappi che gli uomini adulti non hanno più i denti. Gli uomini giovani sembrano tutti tuo fratello quando andava alle medie. Sono alti un metro e mezzo e pesano 25 kili e hanno questi faccini di chi non ha ancora capito come si fanno le equazioni. In più, è bene che tu sappia che i rapporti fisici sono consentiti solo all’interno del matrimonio. Che la convivenza more uxorio è punita con 7 anni di reclusione e l’adulterio con 5. Quindi il sesso è più che altro un reato. Io ve l’ho detto. Poi vedete voi.
9) in Birmania ci sono ragni alieni. Non guardare troppo in giro, a meno che tu non sua un entomologo in cerca del Nobel.
10) se sei una ragazza in carne e carina di viso, in Birmania puoi fare la fotomodella. Come in tutti i paesi poveri, la panza è vista come qualcosa di desiderabile. Qui gli angeli di Victoria’ Secrets non se li fila di pezza nessuno. Fottetevi, stronze.
11) partite pure con i farmaci gastrointestinali come raccomanda la vostra Lonely Planet, ma sappiate che non vi serviranno. Sarete
talmente pieni di aglio e cipolla che i parassiti vi schiferanno indignati.
12) se avete vecchie cianfrusaglie da buttare, portatele qui e dite che vengono dal Giappone. Qualsiasi vecchio rottame made in Japan qui è visto come sofisticato oggetto hi-tech. Anche le lavatrici degli anni 70, o i televisori a tubo catodico con il cambio canale a pulsantone. Se hai un vecchio Califfone 50 cc e dici che è giapponese fai sicuro big money.
13) le toilettes fanno schifo. Sempre. Anzi no. Quelle che fanno schifo sono quelle migliori. Le altre non sono umanamente praticabili. Esercitati a non pisciare. Mai. Piscia solo nella tua camera d’albergo, dove il bagno fa schifo anche lì, ma almeno sai che ci vai solo tu. Oppure fai come me, che ho innescato un procedimento fisico involontario per il quale non piscio. Sudo.
Sembro sempre un minatore, ma col cazzo che ci entro, la’ dentro.
Ecco i primi fondamentali consigli per chi si vorrà avventurare in questo lercio, misterioso, meraviglioso paese.
Per tutte le ovvietà, avete la vostra Lonely.
Giorno 13: Cavallette
Ultimo giorno a Mandalay, mi sono fermata 24 ore più del previsto perché la barca che mi porterà a Bagan non parte tutti i giorni.
Quindi oggi giornata relax, con giro un po’ ozioso tra il Palazzo Reale e il Mercato della Giada.
Il Palazzo Reale è piuttosto spoglio e mal tenuto. Si intuisce una grandezza, un fasto passato, ma lo stato di semi abbandono in cui versa (è un’ enorme, elegantissima piccionaia. Piccioni ovunque, che nidificano tra le sale reali) mette un po’ di tristezza.
C’è un piccolo museo, con qualche pezzo interessante. Un gigantesco specchio rivestito di oro e pietre preziose, e un letto di cristallo, appartenuto a un re del XVIII secolo, fatto venire dalla Francia.
Bellissimo, niente da dire. Ma il primo pensiero che mi viene in mente è che questo re non dovesse essere una tigre del materasso.
Poi, siccome siamo in Birmania, e la modernità è ancora lontana, a una certa, intanto che sto girovagando nell’ unica sala del museo, salta la luce.
Niente di ché, è tutto aperto, non rimaniamo al buio. Solo che una signora italiana, bionda e isterica, comincia a gridare: oddio non c’è la luce, accendete la luce, Cesare è andata via la luce.
Ripeto, la sala era grande, ma due enormi portoni erano aperti, non si vedevano gli oggetti esposti, ma non era buio.
Cesare aiuto c’è una cavalletta. Aiuto Cesare, la cavalletta.
Sta tipa fa un tale casino, costringendo il povero Cesare a calmarla e nel contempo a rassicurare tutti gli astanti che non era niente di grave, che arriva una delle guardiane del museo, senza aver capito una fava, ovviamente, visto che la moglie di Cesare strillava in italiano. Comincia a guardare in giro, nella penombra per capire cosa stesse succedendo.
Poi fa una faccia strana. Dice qualcosa alla sua collega, e a quel punto, tra tutti coloro che avevano capito la sua frase in birmano, comincia un misto di ansietta e curiosità. Qualche urletto. Qualche risatina isterica. Cominciano a fare delle foto.
Porco cane, ma quanto è grande sta cavalletta? Voglio vederla anche io.
Mi avvicino, e vedo che non è affatto una cavalletta, cioè, forse ci sarà pure stata la cavalletta, ma la guardiana nel frattempo aveva trovato un serpentello.
Madonna, Cesare, portala via subito, ti prego.
Non ce la fa. Non fa in tempo, povero Cesare. Aiutooo aiutooo snake, snake, comincia a fare la tipa, senza rendersi conto che la guardiana era già li con la scopa per spazzarla di fuori.
Poi niente. Finisce così. Il serpentello viene allontanato. Torna la luce e Cesare rimane un uomo appesantito dalla vita.
Spero che sia stata tua moglie a scegliere la meta di questa vacanza, Cesare. Sennò non ti passa più.
Poi vado al Mercato della Giada. Non perché mi interessasse più di tanto, ma era l’unica cosa che dovevo ancora vedere.
E qui vedi le cavallette vere.
Il mercato è pieno di buyer cinesi, che vengono qui a comprare sottocosto la giada birmana, speculando sulla povertà della gente, che per due spicci gli vende sia la materia prima, sia il prodotto finito.
Stanno seduti, collegati via internet coi loro cellulari alla casa madre in Cina, e esaminano, controllano, stimano. Se dalla Cina gli danno l’ ok, sottopagano e arraffano.
Uno spettacolo amaro. Una cosa che un po’ spaventa.
Altro che il serpentello.
Giorno 14: Passeggeri
Ho lasciato Mandalay e ho raggiunto Bagan con una barca. Abbiamo navigato tutto il giorno lungo le acquazze fangose dell’ Irrawaddy.
È bassa stagione, eravamo pochi.
Quindi, volenti o nolenti, con 9 ore di navigazione da affrontare, ci si conosce un po’ tutti.
C’era quello che vive da 19 anni in Myanmar. È un australiano che lavora come professore di religione, e che ovviamente parla il Birmano. E che ci ha raccontato come, per parlare del più e del meno, il classico discorso da ascensore, i Birmani non parlino del tempo, ma parlino di riso. “Salve, a che piano? Prefetto. Ha mangiato lei oggi? Ah, bene. Anche io. Riso e curry di verdure. Mi moglie lo cuoce per 12 minuti”.
Così. In effetti pure noi che parliamo del tempo. Boh. Che senso ha, infatti.
C’erano marito e moglie dalle isole Cook. Lei autoctona, con la faccia proprio da polinesiana, lui Neozelandese.
Stanno facendo il giro del mondo in 6 settimane. Toccano 6 punti in tutto il globo e ci stanno una settimana.
Lei sembra una bimba: si stupisce per tutto, ride per tutto, saluta con la mano le barche che incrociamo nell’ altro senso. Fa amicizia con tutti e mostra le foto di questo viaggio pazzesco che stanno facendo, ci fa vedere San Francisco, New York, Parigi, Berlino. E poi le foto di lei con le corone di fiori enormi e stupendi che portano sulla testa le donne del suo paese. Ha una freschezza, una gioia, una luce dentro che la fa sembrare un angelo.
Lui la ama follemente. La coccola e la bacia come se si fossero appena conosciuti.
“Siete in viaggio di nozze?” chiedo.
“No. Siamo sposati da 35 anni”
Non deve essere difficile con una donna così al fianco.
Per contro ci sono due francesi che si odiano. Non si guardano. Non si parlano. Si siedono nei punti più lontani possibili prima di cadere in acqua. Ma non sono arrabbiati. Lui a un certo punto le ha portato una bottiglia di acqua e lei gli ha sorriso. Semplicemente viaggiamo su binari paralleli.
Allora a quel punto meglio da soli, penso.
C’è un gruppetto di Coreani con suocera decrepita che va spostata come un’icona religiosa, tenuta a destra e a sinistra. Hanno dietro una specie di domestica, che si prodiga di rifornire tutto il gruppetto di patatine fritte e ketchup a nastro. A getto continuo. Anche alla Santa Suocera. La figlia, che ha comunque un’età considerevole, siamo sulla 60ina, si fa mille selfie, ma per uno strano feticismo sui ponti, quando siamo li nei pressi, chiede a chi le sta più vicino di farle una foto dove si vede anche il ponte.
Poi c’è il marito. Che come spesso capita con gli orientali, non si mette problemi a sputare.
Si sporge dal parapetto e sputa. Solo che, imbecille di un idiota, se sputi all’aperto su una barca in movimento, dove arriva lo sputo?
A me. Che sto seduta dietro.
“Mi perdoni, sa. Ma se potesse evitare mi farebbe una cortesia”. “Ah! perdono perdono!! ” mille inchini. Dopo mezz’ora: puuu… Un altro scaraccio.
Eh no. Così non va bene “Scusi sa, ma per una legge della fisica che non saprei spiegarle in inglese, se lei sputa, il vento me lo butta addosso a me… Chiara la dinamica?”
Perdono perdono.
Nel dubbio ho cambiato sedia. Che vai te a capire se erano Coreani del sud i del nord. Meglio non aprire incidenti diplomatici.
Poi c’erano due ragazze inglesi, biondine, giovani, tutte oh wow!! Che storia! Pazzesco !!
Anche quando ci hanno portato a fare una visita ad un villaggio dove abbiamo assistito alla fabbricazione artigianale di vasi di terracotta. Oh wow! Che storia? Pazzesco! Ma pensa tu… E foto su foto.
No, ragazze. D’accordo che siete giovani, ma questo è un acchiappacitrulli evidentissimo… Frenate l’entusiasmo, che poi vi trovate con un vasaccio di terracotta pagato un occhio della testa che non sapete come imbarcare in aereo…
Poi però non avrei saputo tradurre acchiappacitrulli, così ho desistito.
E son tornate a bordo con due bei vasi, che se arrivano al primo metal detector integri è un miracolo vero.
Arriviamo a Bagan. Doccia in albergo, poi sono stanca, è tardi, vado a cena. E qui, il trionfo dell’ acchiappacitrulli. L’ acchiappacitrulli imperiale.
Una cena, buona, niente da dire, pagata 27.000 kyat. Per darvi un’ idea, ieri a Mandalay ho pagato una cena buona 1.200 kyat.
Bisognerà fare attenzione, in questa meravigliosa Bagan, famosissima terra di templi e catalizzatore di citrulli.
Intanto il biglietto per tornare a Yangon lo facciamo online. Che così risparmiamo quei 40 – 50 euro.
Giorno 16: Una musica nella testa
Mi sono svegliata presto per l’emozione di essere a Bagan. Ieri sono arrivata nel tardo pomeriggio, e non ho visto praticamente nulla.
Colazione e sosta al bancomat per i contanti del noleggio di 3 giorni di scooter elettrico.
Inserire pin.
Attendere
Fuori servizio
E mi mangia la carta. E adesso?
C’è un numero di telefono, ma la mia SIM è solo per il traffico dati. Fotografo il numero e torno in albergo, spiegando in reception cosa era successo, se fossero così gentili da chiamare loro, visto che in inglese generalmente i Birmani non capiscono una minchia, fa te cosa saltava fuori se chiamavo io.
Non si capiscono neanche in Birmano.
Mi dispiace, ma deve aspettare, tra un po’ mi richiamano loro.
Certo. Come no. Allora mi faccio caricare sullo scooter da uno e gli chiedo di andare al più vicino sportello della stessa banca dell’ ATM che aveva la mia carta prigioniera.
Due bancari gentilissimi accorrono al luogo del misfatto e cercano di aprire la macchina per ridarmi la carta. Operazione complessa. Ci mettono diversi minuti, durante i quali il tizio che mi aveva accompagnata mi sta facendo pressioni e ricatti morali perché lo scooter elettrico lo prenda da lui, che è stato così gentile e blabla.
D’accordo, ma ora mollami, che finché non ho di nuovo la mia carta in mano non ci son soldi per nessuno.
Mi ridanno la carta, prelevo in un altro bancomat, con il tizio sempre dietro a ricordarmi che volevo uno scooter elettrico a noleggio.
Prendo ‘sto scooter, pagando veramente una sciocchezza, e mi danno le istruzioni: fa 32 km con una carica, giri la chiave e dai subito gas, luci, frecce, se si ferma mi chiami, mi dici dove sei e ti vengo a prendere, però non succederà se stai attenta all’indicatore della batteria.
Imposto Google Maps. Gira a sinistra per Ananda Stre
Segnale GPS interrotto.
Ma va a cagare. Tiro fuori la cartina regalata dall’ albergo, e ferma sul ciglio della strada, divento un citrullo acchiappabilissimo.
Infatti arriva un ragazzo giovane con un ragazzino dietro. Ti porto io. Ti faccio scalare le pagode.
Vabbè, se la metti che mi fai scalare le pagode hai vinto. Andiamo.
Sale sul mio scooter, io dietro. Guida lui che sa la strada. Il fratellino dietro, su uno scooter a benzina grande il doppio di lui che non sa mettere in moto, deve intervenire il fratello grande.
Mi porta tra i campi, gli alberi della foresta, attraverso strade polverose e a tratti infangate, in angoli di mondo incredibili. Queste pagode, più di 4000, in un’ area ristrettissima, rendono questa piana una bolla sospesa nel tempo e nello spazio.
Lo spettacolo è talmente bello e fiabesco che ti parte una musica dentro, la senti proprio nella testa, una colonna sonora spontanea creata dagli occhi e dal tuo respiro mozzato. Una melodia tipo quando nei film appare l’Eden, in tutta la sua maestosa, lussureggiante meraviglia.
Con questa musica che sgorga libera da ogni volontà, Moe e il suo fratellino mi fanno arrampicare su per antiche rovine. Tra lucertole blu, che non sono riuscita a fotografare perché le mani mi servivano per vivere, e coleotteri rossi e vellutati, mai visti prima. Passaggi pericolosi, gradini da inventare, salti, crepe da evitare. Mi aggrappo con le mani per non cadere. Cammino a quattro zampe per non perdere l’equilibrio. Ma lassù la prospettiva è ancora più toccante.
La natura più rigogliosa, con decine di farfalle, scoiattoli, uccellini che cinguettano.
Lassù l’ arte dell’uomo è più commovente.
Tiziano Terzani ha detto queste cose molto meglio di me. Ha detto che ci si sente orgogliosi di essere esseri umani.
È un brutto periodo per pensarlo sul serio.
Però questa cosa, qui, la senti forte.
Sopravvivo a questa spedizione senza rete pagando la consulenza alpinistica di Moe, un servizio fotografico completo, e la visita guidata ai templi più belli per una cifra consistente ma meritatissima.
Ora devo solo cancellare 400 foto inutili che mi ha fatto prima che mi si impalli il telefono.
Ancora vibrante di tutta questa grandiosa meraviglia, dopo km e km di strade sterrate e gimkane tra pozze che potevano inghiottire una monovolume intera, mi accingo a tornare in albergo.
32 km, ha detto il tipo. Vabbè, ne abbiamo fatti 25, ce la faccio a tornare in hotel.
E invece no. Perché pur avendo fatto meno km di quelli previsti, evidentemente andando in due sullo scooter la batteria si era scaricata prima.
Rimango a piedi.
Vabbè, chiamo e dico dove sono.
Ah no. Il telefono non chiama e Google Maps non va.
Ok. Modalità fanciulla in difficoltà. Occhioni e braghino. E gol. Lo so. Sono un asso in versione Bella Bionda.
Un ragazzo gentilissimo su uno scooter normale, non sti cessi elettrici per ritardati che noleggiano a noi per non farci allontanare troppo, mettendo un piede sul mio predellino, mi ha spinto fino al noleggio.
Poco dopo ho notato che è prassi comunissima, giacché questi bagagli lasciano a piedi i più.
Quindi ridimensiono le mie capacità di Bella Bionda, e con le pive nel sacco mi accingo a fare una doccia.
Domani sveglia alle 5 e 30 per vedere l’ alba sulla piana.
Vado a letto con quella musica nella testa.
Non vedo l’ ora di svegliarmi.
Giorno 17: Pinnacoli e Cacche
Diciassette. Che scritto in numeri romani è XVII. Che anagrammato diventa VIXI. Cioè Vissi. Ovvero, ora sono morto.
E guarda caso oggi è il 24 agosto. Terzo anniversario del rovinoso terremoto di Bagan di 3 anni fa.
L’ho scoperto leggendo un cartello, che fosse proprio oggi l’anniversario. Mi ricordo che quando ci fu il terremoto gli amici che erano stati a Bagan erano tristissimi.
Li per lì non avevo capito tutto ‘sto accoramento. Oggi si. Oggi posso capire. Se Bagan crolla, perdiamo tutti uno dei posti più magici del pianeta.
I danni sono stati molti, ci sono ancora alcuni lavori in corso, si vedono pagode con rudimentali impalcature e operai che tuttora lavorano.
Questo posto è veramente incantato. Tutte queste guglie protese verso il cielo, queste antenne per raggiungere il Divino creano un’atmosfera mistica. È come se fossimo su una rampa di lancio verso un mondo superiore, come se le punte aguzze degli stupa e degli zedi delle pagode fossero le spine da infilare nelle prese celesti per fare contatto tra Dio e l’uomo.
È questo contatto di sente. E la cosa più strana è che si sente di più fuori dalle pagode, osservandole dall’esterno, con queste dita che si sporgono a raggiungere qualcosa che è quasi a portata, lo sfiori, ma non lo prendi.
Dentro sono per lo più antri bui, con passaggi stretti e sporchi su cui sei costretto a camminare a piedi nudi. Solo che queste pagode sono aperte, ci entrano capre e corvi, ci dormono i cani randagi. E per terra c’è di tutto.
Io non sono schifiltosa, non potrei fare questo tipo di viaggi, ma nel mio essere estremamente elastica, dentro ci entro, per carità, ma non mi trattengo più di tanto. Solo che oggi ho incontrato una guida che invece amava moltissimo spiegarmi tutti i dettagli di ogni statua del Buddah, che se tiene le mani in un modo, significa che sta insegnando, se le tiene in un altro sta meditando, se è sdraiato con la testa a destra (Madonna santa… che c’ ho sotto i piedi? Cos’è che scrocchia?) significa che sta raggiungendo il Nirvana, se (cazzo. In Indiana Jones e il Tempio Maledetto erano scarafaggi…) è sdraiato con la testa a sinistra (cosa faccio, guardo? Ok guardo. Che culo!! Sono solo cacche di capra) vuol dire che sta dormendo. (Bene. Avrà finito, spero)
Ok, great. Well… Shall we go out?
NOOOO! Vieni che ti faccio vedere dei dipinti stupendi. Antichissimi. Preziosissimi.
A’ coso. Sentimi bene. Sono italiana, io, ok?
Do you know Michelangelo? Cappella Sistina?
You don’t know, right? So, credimi sulla fiducia, bellissimi pure i tuoi, ma avendone già visti ed esaminati nei dettagli 4 o 5 e aumentando le cacche per terra, io farei anche che usciamo.
Guarda, sono anche disposta a comprare quello che vendi. Cosa vendi? Scatoline inutili e di pessima fattura di lacca? Perfetto. Ne voglio una. Ora.
Usciamo, grazie.
Qualcuno riceverà come presentino uno scatolino di lacca.
Sappia che l’ho desiderato ardentemente.
E che darlo via è un grande segno di amicizia.
Giorno 18: Donne Bellissime
La Birmania è una meta per femmine. Ci sono tantissime donne che viaggiano qui. Sole o in piccoli gruppi, due, al massimo tre amiche, capelli raccolti e longyi d’ordinanza.
Sono per lo più occidentali, europee o Australiane. Ci sono anche orientali, però viaggiano in grupponi, tipo colonia. Con tutti i cappellini uguali.
Pochi gli uomini soli. Pochissimi in coppia con l’amicone. Troppa poca caciara, poco alcol, poca figa.
Eppure qui le donne sono bellissime, con le loro reflex a tracolla e la meraviglia negli occhi.
Solo che stanno bene così. A farsi la coda per staccare i capelli dal collo sudato, cercando sulla guida la prossima meta.
Non hanno bisogno di altro. Né di conferme del loro valore, ne’ di qualcuno che le aiuti, né di qualcuno che dica loro chi sono. Mogli, madri, fidanzate, sorelle, figlie. A viaggiare da sole perdono ogni ruolo e rimangono nella loro essenza. Pure. Individui a sé stanti.
Donne Bellissime.
Probabilmente non hanno un culo che si possa trovare su La Dubbia Citazione Filosofica Abbinata Alla Foto Da Suina, ma vuoi mettere?
Il loro fascino sta nella curiosità, nel coraggio, nella voglia di esplorare il mondo e loro stesse.
Nell’intelligenza di mettersi alla prova in un ambiente oggettivamente difficile, distante, inatteso.
Queste qui non hanno paura dei ragni, o di essere aggredite, o prendersi qualche malattia. Non temono di fare il dritto senza dormire negli aeroporti, di farsi capire in lingue diverse, o di lavarsi se c’è acqua e mangiare quello che cucinano con le mani sporche per strada.
Ci vogliono esseri speciali, per queste qui. Non si possono accontentare di uomini qualunque.
Ci vogliono uomini forti almeno quanto loro.
E non è facile per niente trovarne.
Normale, dunque, che gli uomini normali vadano in vacanza a Formentera in cerca di quelle dalla Dubbia Citazione.
E che qui a Bagan queste creature stupende possano girare senza che nessuno le fermi per la strada colpito da tanta fulgida beltà.
Io ci sto provando ad essere così. Con la stessa grazia nel pestare la terra del mondo, la stessa eleganza, anche con il collo sudato, la stessa gentilezza nel mettersi a confronto con gli altri esseri umani, per quanto diversi ed estranei alla loro quotidianità.
Ma di strada ne devo fare ancora tanta. Ad esempio non so usare una reflex, e devo sistemare ancora un po’ di cosette coi ragni e con il mio cuore spezzato.
Ma ho fiducia. Di strada ne ho già fatta tanta.
Sarò una Donna Bellissima anche col mio longyi da uomo, portato col nodo centrale, scelta che fa scalpore in tutti templi Birmani, ma che mi fa sentire particolarmente elegante.
Quindi ridete finché vi pare, tanto non vi cago.
Ecco. Forse c’è da lavorare un po’ anche sulla gentilezza del mettersi a confronto.
Ma ce la posso fare.
Giorno 19: Scimmie
Ultimo giorno a Bagan, dove il tempo non basta mai. Dove continui a tornare in posti già visti perché non riesci a staccarti da tanta meraviglia.
Con un taxi condiviso sono andata al Monte Popa, dove c’è un monastero e una pagoda sul cucuzzolo di un monte con vista mozzafiato sulla valle sottostante. E dove sapevo sarebbe stato pieno di scimmie.
Ero già stata a Jaipur, in India, in un tempio dedicato alle scimmie, ed era stata un’esperienza bellissima. Tenere in braccio una mamma che allatta un cucciolo è una cosa di una tenerezza indescrivibile.
Poi però bisogna stare attenti alle scimmie, che come dice la famosa similitudine, sono antipatiche e dispettose come una scimmia.
Infatti se le guardi troppo si incazzano. Se le fotografi si incazzano, se le chiami si incazzano, se ci vai troppo vicino si incazzano. Se provi a toccarle ti ammazzano.
(il taxista che ha portato me e altri tre aveva una fionda anti primate in macchina. Allego prova fotografica sennò non ci si crede)
Queste scimmie birmane, se ti mostri troppo interessato a loro ti urlano e cercano (riuscendoci) di spaventarti menando le mani su quello che trovano e facendo dei bussi paurosi, che uniti alle grida stridule ti mettono subito al tuo posto.
Di prenderle in braccio e nutrirle, come in India, non se ne parla. Ti prendono a pugni in faccia. Letteralmente. Fanno il pugnino con la zampetta e giù botte.
Quindi piano piano, facendo finta di guardare la home di Facebook, e non di avere telefono pronto allo scatto, ti avvicini e rapido come un ninja scatti e fuggi prima di venire pestato.
Ero riuscita nella funambolica impresa di fare uno scatto ravvicinato, e abbasso l’attenzione. Al che sto maschio enorme e furibondo per dispetto mi strappa di mano il ventaglio.
Molla subito quel ventaglio, macaco, o finisce a schifío. E comincio a battere le mani, esattamente come fanno loro, sulla panchina dove era seduta sta bestia, urlando “bada ve’ scimmia” tra l’attonimento dei presenti. Oh, comunque mi son fatta capire, perché la scimmia ha mollato il ventaglio e io me lo sono ripreso con mossa felina.
Ho poi visto poco dopo che le scimmie quando fanno la cacca agevolano l’atto estraendo con le manine le deiezioni. Poi con le stesse manine ti fregano le cose.
Allora perché non hai mollato il ventaglio da due lire alla scimmia e buonanotte al secchio?
Per due motivi. Il primo prettamente pratico: il ventaglio non è un vezzo da orientale timida, ma un mezzo di sopravvivenza indispensabile, vista l’afa insostenibile di questi posti.
Secondo più sentimentale. Lo avevo dimenticato su un tuk tuk mentre andavo a prenotare la barca che mi avrebbe portato qui a Bagan. Tornata in albergo, mi sono accorta di non averlo più. Pace. Costa meno di mezzo euro, ne compro un altro. Invece, alla mattina del giorno dopo, alle 7 puntuali, orario in cui l’autista del tuk tuk sapeva che sarei partita, lo vedo che sale sulla barca per riportarmelo.
Ecco perché mi sento così malinconica oggi, ultimo giorno prima del mio ritorno a casa
Perché lascio un paese puro. Incontaminato. Dove un atto di gentilezza è spontaneo e gratuito.
La Birmania è come le sue scimmie. Vera. Non addomesticata, non abituata ai flash. Non ruffiana. Forse è solo questione di tempo, fare turismo qui è possibile solo da pochissimi anni, fatto sta che qui vivi un’immersione profonda nella vita reale del paese, con le sue miserie e contraddizioni. Vivi la condivisione del quasi nulla, che è sì la metà di quasi nulla, ma è un atto così umano, così toccante e grande che c’è da vergognarsi ad essere un po’ più ricchi.
Sarà Bagan coi suoi pinnacoli magici, ma io non sono mai stata così affranta alla fine di un viaggio.
No aspetta. Questo non è stato un viaggio. Un viaggio è qualcosa di orizzontale. È stato un tuffo. E risalire spezza un po’ respiro.
Giorno 20: Mingalabar
Yangon, di nuovo. E piove. Ho ancora qualche ora prima del volo che mi riporterà a Bangkok.
La partenza, i biglietti da controllare, il “dove ho messo lo spazzolino? ” mi stemperano un po’ la malinconia. Poi Yangon non è Bagan, per fortuna andarsene non punge così tanto.
20 giorni in totale solitudine. In un paese più lontano nel tempo che nello spazio. 20 giorni volati via.
Che cosa mi porto dietro da questo viaggio, iniziato con più difficoltà, rispetto a tutti gli altri, e finito con un ammaliamento più profondo, rispetto a tutti gli altri?
I monaci bambini, che per studiare e avere cibo regolarmente vengono mandati dalle famiglie più povere a studiare in monastero. Le file di bimbetti che si inciampano dei drappi del saio, con la testa rasata e le ciotole per la questua di cibo in mano, alla mattina prestissimo.
I templi. Che accolgono. Uomini e animali. Se piove e ti vuoi riparare, se hai sonno e vuoi dormire. Se fa tropo caldo. Se vuoi giocare a pallone e fuori c’è troppo fango. Se vuoi pregare. I templi accolgono. Tu entri e sei benvenuto.
Le donne che ti guardano ammirate per la tua diversità fisica e ti depauperano di rossetti, rimmel, salviette, ninnoli. Tutto ciò che è ovvio per te, per loro è un inarrivabile lusso.
Gli regali tutto.
La natura che scoppia, le foreste rigogliose, i manti verdissimi a perdita d’occhio.
I longyi degli uomini, così poveri. Così eleganti.
La thanka sul viso di tutti, retaggio di una società tribale ma ancora diffusissimo.
Le risse dei cani. Un’ apprensione terribile tutte le volte.
Lo sguardo incrociato con l’unico Birmano veramente bello che ho visto.
Passava con lo scooter, coi ricci neri al vento.
Ci siamo guardati e sorrisi per tutto il tempo che è stato possibile, poi c’era una curva, ed è finita così.
È stato un niente. Ma lui sembrava così felice. Così orgoglioso che io lo stessi guardando.
E io ero così felice che lui fosse felice.
La mia storia d’amore più breve e più dolce di sempre.
L’ oro. Onnipresente, che brilla sotto il sole battente, ma brilla anche con il cielo grigio. Un contrasto stridente con le baracche, la gente che si lava e fa il bucato in canalazzi che noi ci incazzeremmo abbestia se ci si tuffasse il cane.
Il silenzio di pace del Lago Inle, l’allegria del bianco accecante delle pagode di Mandalay, il cibo cucinato per strada in condizioni allucinanti eppure così buono. Il tè, sempre gratis per tutti, seduti sugli sgabellini bassi delle case da tè, da questi thermos sempre sporchi. Il suo sapore particolare, di erba, di vegetazione perchè i tappi dei thermos sono fatti con le foglie delle palme.
E Bagan. Tutto di Bagan. Il colore. Le strade. Il motorino elettrico. La connessione con il Cielo.
Niente. Torno a controllare dove ho messo lo spazzolino sennò mi viene da piangere
Mingalabar, Myanmar.
Ciao.