di Andrea Vitti –
Impressioni…
Uno sguardo veloce dal finestrino d’aereo mentre questo s’inclina virando sopra la città. Il mare è colorato di rosa dal sole che sorge. Rosa, rosso e verde sono i primi colori che ricordo di questa terra. Uscito dal Kinsford Smith Airport di Botany Bay,
la vista ancora abbagliata dalla forte luce esterna dopo la penombra della sala arrivi, vengo investito dall’intenso profumo balsamico nell’aria. Sydney è a tutti gli effetti una città verde e “verde” qui vuol essenzialmente dire una distesa sconfinata di eucalipti che diffondono le loro benefiche essenze nella calura australe. La luce che mi accoglie è quella intensa e carica di certi paesaggi del sud Italia. Brilla un sole caldo da mattina di prima estate e la fredda e grigia giornata autunnale, che ho lasciato a Milano, contribuisce ad accentuarne il contrasto. Nel cielo di un blu carico le uniche nuvole in vista sono quelle artificiali create da un paio di piccoli aeroplani che, disegnando invisibili arabeschi, scrivono messaggi pubblicitari in aria con sbuffi bianchi di vapore. Uno di questi scrive “welcome”, ed è bello pensare che stiano dando il benvenuto proprio a me.
A prima vista…
Nel tragitto dall’aeroporto vedo per la prima volta Sydney. Un’immagine in movimento come una serie di fotogrammi, dal punto di vista mutevole dell’automobile, per des
Notturno…
Il primo incontro con la city ed i suoi grattacieli è velato e reso magico dalla notte che, con le sue ombre e le mille luci che vi si oppongono, riesce
Gente…
Un mercato: quale luogo più appropriato per osservare un popolo e le sue particolarità? Individui di tutte le razze, vestiti nei modi più svariati, circolano tra le bancarelle allegramente. Moltissimi sono asiatici, qualcuno corrisponde allo stereotipo che si ha all’estero degli italiani, che qui è uguale a quello dei greci o dei libanesi. Alcuni hanno carnagione chiara e tratti nordici o anglosassoni e penso che stonino leggermente sotto questo sole forte e intenso. Una contagiosa aria di allegra rilassatezza li caratterizza in ogni modo tutti, riunendoli sotto la comune definizione di “aussies” per i quali “no worries” vuol dire prego e “it’s easy” è attributo di ogni problema. C’è sempre tempo per un sorriso, una battuta o una pacca sulla spalla e nessuno è mai troppo di fretta per non ascoltare cosa si ha da dire. Non è raro vedere qualcuno a piedi nudi o magari con i bigodini in testa, ma non siamo di certo qui per giudicare. Andare a fare la spesa in pigiama è una sensazione spassosissima, da provare per uno che, a Milano, è abituato a sentirsi a disagio se i calzini non si intonano perfettamente con i calzoni. Per loro noi siamo raffinati, per me spesso snob. Loro sono Inglesi, Irlandesi, Scozzesi, Italiani, Greci, Libanesi, Russi, Asiatici di ogni paese, Sudamericani e chi più ne ha più ne metta. Gravosa macchia in questo cocktail multicolore, dal sapore indubbiamente gradevole, è purtroppo la figura sotterranea, non presente, nascosta degli aborigeni. Gli antichi abitanti di questi territori si vedono raramente, più come essenze eteree per l’etere dell’alcol, che come antichissimi custodi della terra dove sono nati e dei suoi segreti. Ne incontro pochi che portano addosso la fierezza delle loro radici e su quei volti dai tratti forti vedo il retaggio di secoli di vita in un tutt’uno con la natura. Una pianta è forte se ha radici forti, se quelle si ammalano o vengono recise la pianta muore, ma fino alla fine rimane viva la speranza che possa tornare rigogliosa.
Sotto le torri di vetro…
Prendo il trenino, puntualissimo, che in 45 minuti circa mi porta dalla piccola stazione di Toongabbie, in questi sobborghi giardino deserti, anonimi e un po’ noiosi, fino nel cuore di una città modernissima di grattacieli, negozi, traffico e folla. Quando esco dalla stazione di Winyard, alla base di uno dei palazzi del centro, mi viene naturale alzare subito gli occhi per cercare l’abbraccio rassicurante del cielo ed è strano non trovarlo oltre il limite consueto degli edifici.
George Street e il quartiere “The Rocks”…
Cammino a caso seguendo il reticolo geometrico di streets e lanes nella direzione che, secondo me, dovrebbe portare all’acqua. Per chi è abituato al labirinto del centro di Milano orientarsi in questo spazio cartesiano non è poi così difficile. Improvvisamente l’altezza degli edifici si fa più contenuta e fra i tetti a falde appare incombente la gigantesca mole dell’impalcato del ponte. L’atmosfera da vecchio continente si fa più intensa ed una scritta coloratissima avvisa che sono entrato nel quartiere The Rocks, primo insediamento europeo in Australia. Il confronto con la modernità lasciatami alle spalle imprime un clichè di anziano signore aristocratico su questo quartiere carino, tagliato a misura di turista. Le cortine compatte di edifici bassi delimitano la famosa George Street intarsiata di locali e pubs e gallerie d’arte. Dagli interni oscuri, nel più classico stile irlandese, si intuiscono figure di gente che beve e si diverte, mentre armonie di jazz, irish music, R&B si mischiano a risa e chiacchiere in un reel multicolore. Con un po’ di fantasia non è difficile immaginare facce di avventurieri, marinai e disperati di altri luoghi ed altri tempi seduti ai banconi.
Domenica, mercato “on The Rocks”…
Vengo accolto dalla confusione e dall’allegria del mercato domenicale. Koala, vombati e canguri di peluche, collanine ed anelli, vestiti e cappelli, vasi, statue e stampe aborigene dagli inconfondibili colori, calendari, cartoline e francobolli, magliette e cappellini delle Olimpiadi, gli immancabili boomerangs e molto ancora: mirabilia di ogni tipo, forma e colore occhieggiano ed ammiccano dalle bancarelle a clienti e curiosi ammaliati. Un aborigeno sorridente, vestito all’occidentale, vende dei bellissimi didjeridoos. Siede suonando su uno sgabello di legno e dal lungo ramo lavorato esce un suono profondo, continuo ed ipnotico, con acuti e cambi di ritmo improvvisi. Tra gli spettatori affascinati un grosso turista è particolarmente interessato e chiede di provare, ma dallo stesso strumento che prima vibrava di un suono magico e antico esce una corta e fiacca pernacchia più simile ad un meno nobile brontolio intestinale.
Il Circular Quay…
Dovessi indicare il cuore pulsante di Sydney penserei subito al Circular Quay: il molo semicircolare che porta da “The Rocks” fino all’Opera House ed ai giardini botanici. Al centro dell’insenatura quattro pontili si protendono ad accogliere il via vai dei traghetti. Un andirivieni eterogeneo di imbarcazioni, barche a vela, e grosse navi fa sembrare la baia una placida ma trafficata autostrada blu. Lungo la passeggiata centinaia di persone vanno a spasso nella quiete domenicale, destreggiandosi fra spettacoli di funambolici performers, bancarelle e negozi di souvenir. I turisti si accalcano alle balaustre per fotografare il teatro dell’Opera ed il ponte che si fronteggiano sui due lati opposti della baia, cinta dai grattacieli della city. Sulle panchine o sdraiati nell’erba verde delle aiole gli aussies osservano la scena con la tipica flemma e noncuranza. Soltanto i gabbiani ed i grossi ibis, che scorrazzano tra la gente in cerca di qualcosa da mangiare, sembrano affannarsi e ricordarci che questa è l’epoca del “tutto (s)corre”.
Il teatro più fotografato al mondo…
L’Opera House è senza dubbio un edificio pensato per essere visto a 360 gradi, da infinite inquadrature, ognuna delle quali differente.
Botanical Gardens…
Fiori, odori, profumi e sciami,
foglie verdi e verdi d’erbe,
alberi come monumenti. Momenti,
momenti di vite passati sdraiati a osservare,
pensare, fermarsi.
Rincorrersi di voli di uccelli colorati,
rossi e blu di colori sfumati
con bianchi e gialli: pappagalli!
Volano macchie nel verde brillante,
macchia minuscola in macchia gigante,
viola, odorosa di Jacaranda in fiore.
Sole e ombra, ombra e sole, lente passano le ore
tra armonie di suoni, lontani in un lieve mormorare.
L’acqua mi abbraccia da un lato e dall’altro
la città, in disparte, si limita a guardare.
Sul vecchio traghetto per Manly Beach…
Il cielo plumbeo, il mare grigio e spumoso ed il vento freddo danno alle alte scogliere viste dal battello un aspetto nordico ma affascinante. La city e i suoi personaggi scompaiono lentamente dietro il frattale della costa mentre si avvicina in lontananza la spiaggia di Manly. La cittadina assomiglia a mille altre località di villeggiatura, con negozi e caffè e gente in aria vacanziera che ciondola per le strade. Ovunque regna la più assoluta serenità. La spiaggia è un grande arco di sabbia fine, gialla, fra due promontori rocciosi. Pochi temerari sono sdraiati in riva al mare livido ed arrabbiato che ha impedito, per oggi, l’accalcarsi estivo dei bagnanti. Voli di uccelli e onde fragorose sono l’unica parte in movimento di questa polaroid di giornata in bianco e nero. Finestre, terrazzi e verande vetrate si protendono verso l’oceano, mostrando orgogliosamente arredamenti minimali di una asettica modernità come medaglie sul petto di un generale. Su uno dei moli di legno del porticciolo una piccola ruota da luna park è ferma aspettando giorni migliori.
…e Bondi Beach…
quella delle feste leggendarie; del beach volley alle Olimpiadi;
Homebush Bay…1
La “casa dei cespugli”, un tempo degradata ed inquinata area nei sobborghi della città, è stata tolta ai cespugli e donata al mondo che ha qui potuto ammirare i Giochi Olimpici di Sydney 2000. Certo dev’essere assolutamente magnifico passarci mentre è al centro dell’attenzione planetaria, nell’incredibile kermesse dei giochi, ma una volta conclusesi le dirette e spenti i riflettori a me ha fatto la seguente impressione…
Ordinato deserto super-tecnologico con terra di autobloccanti rosa e grigi, dove tribù di giapponesi, abilissimi cacciatori di immagini, si aggirano con la stessa dimestichezza con cui gli aborigeni affrontano il bush dei territori centrali. Le notevoli architetture dei complessi sportivi si trovano sparse come sassi in questo spazio: giganteschi monoliti sacri al totem dello sport, così forte da cantare e incantare l’intero pianeta in un contemporaneo, nuovo “tempo del sogno”. Sogno di unire per una volta sotto lo stesso ideale mille culture. Sogno per un paese giovane e dinamico, finora semplicemente definito “down under”, di stare anche solo per un po’, seduto sul tetto del mondo. Tra gli edifici spiccano l’onda dell’Aquatic Center, il volume elegante della stazione ferroviaria e l’immenso Australia Stadium, nuova Uluru di questo orizzonte, oggi deserto, domani chissà?
Kirribilli e Mylson’s point…
New York, Toronto, San Francisco, Chicago… le metropoli ed i loro grattacieli, un ponte, l’acqua, le luci e la notte. Questi elementi hanno costruito nel tempo dei modelli e delle icone magiche che sono ormai nell’immaginario di tutti. Penso che “magica” sia la parola perfetta per definire l’atmosfera che si respira in questa notte mentre, seduto sulle rive della baia a Mylson’s Point, dalla parte opposta della city, guardo la città per l’ultima volta dandole il mio commiato. Ancora una volta le luci, i grattacieli e l’Opera House,
Nota conclusiva…
Ebbene sì: i koala esistono davvero!!! Sono gli animali più teneri, morbidi e finti del mondo, sembrano dei peluche e pare impossibile che siano reali. I canguri non portano i guantoni da boxe, ma ospitano effettivamente i piccoli in una tasca sul ventre e, per la cronaca, non scorrazzano liberi per le strade di Sydney. Se qualcuno vi parla dagli alberi saranno, presumibilmente, coloratissimi pappagalli e la mattina è meglio che, prima di mettervi le scarpe, controlliate non siano state comodo giaciglio per un inaspettato ragno, grande come il palmo della vostra mano. Io, in Australia, mi sono sentito come a casa e l’amore che prima avevo per questa terra è ora ancora più forte e reale. Forse “libertà” è la parola che meglio di tutte sintetizza le sensazioni descritte.
Un infinito grazie alla mia dolce Laura, ai miei genitori e mio fratello Paolo. Thanks from the depth of my heart to Matthew, Lisa, Dean, Erin, Calel, Zane, Glenn, Alison, Elizabeth, Naomi, Kathryn, Cassie, Steve, Stan, John, Meg, George, Bill, Fadia, Narella, Antoniette and anybody else I had the pleasure to meet in Oz, the land down under.
Alcune semplici spiegazioni per capire:
– la traduzione letterale di Homebush è “casa del cespuglio”, o “cespuglio casa”.
– Il “bush” è più estesamente inteso dagli australiani come una di quelle vaste aree coperte di foreste, principalmente eucalipti e mangrovie, che caratterizzano larghe porzioni del continente.
– Il “tempo del sogno”, secondo gli aborigeni, è il tempo antichissimo della creazione del mondo. Durante il tempo del sogno gli antenati, detti sogni, uscirono dalla nuda terra e vagarono per tutto il continente “cantando” le cose che iniziarono così ad esistere. Quasi ogni elemento naturale presente sul territorio rappresenta un luogo sacro, dove i sogni creatori si sono fermati a riposare o hanno compiuto una qualche azione. Il più importante in assoluto, origine di tutti i sogni, è il maestoso monolito di Ayers Rock, detto Uluru, situato praticamente nel cuore dell’Australia sopra quello che sarebbe un forte “polo energetico” del nostro pianeta.
– “Down Under”, ovvero “giù sotto”, è uno dei nomi con cui si usa chiamare l’Australia. Comune soprattutto negli anni 80 è oggi usato più che altro da americani, neozelandesi, inglesi o irlandesi. Caratteristici sono i mappamondi rovesciati in cui l’Australia si trova in alto e l’Europa e gli USA, “down under”, se ne stanno a testa in giù.
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