di Marco Ciccone –
Il Sogno che abbiamo realizzato per il nostro viaggio di nozze è stato compiere il giro del mondo in un mese, scegliendo l’Australia e la Polinesia come paesi da visitare. L’Australia soprattutto è stata quella meglio preparata attraverso le solite ricerche su storia, arte, cultura e politica sociale, libri attraverso i quali abbiamo tentato di avvicinarci alla vita aborigena. Ciò ci ha permesso da un lato di apprezzare musei e mostre, e dall’altro di osservare le evidenti disparità verso questa civiltà. In tutto il paese abbondano le vendite di manufatti e dipinti aborigeni (o spesso presunti tali), segno che dal punto di vista turistico c’è molto interesse sull’argomento, confermato dai diversi centri culturali e tour operator orientati ad entrare in contatto con le popolazioni native, per quanto possibile, nel rispetto delle loro usanze. Tutto questo però è in contrasto con le realtà urbane, in special modo nelle città del Northern Territory, dove gli sguardi spenti e vuoti degli aborigeni che vagano ai bordi delle strade sono segno tangibile di un’emarginazione aggravata dalla piaga dell’alcool. Abbiamo assistito ad un arresto per ubriachezza (non molesta) e ci siamo meravigliati dei gesti di quell’uomo, rassegnato nel salire sulla camionetta della polizia, come se questo evento fosse quasi giornaliero e abitudinario. Nonostante le letture su questi popoli non ci è comunque facile pensare quale sia la strada migliore tra un’assimilazione culturale che porterebbe forse a benefici, piuttosto che, sempre che ciò sia possibile, ad un ritorno alle origini. Ciò non toglie comunque la più che positiva impressione che ci hanno dato le città del sud (Sydney e Adelaide), luoghi in cui si respira una vitalità e una solarità che non immaginavamo a queste latitudini; ci piace portare ad esempio del tranquillo stile di vita, il fatto che le banche non sono dotate di metal detector, ma di più ospitali porte scorrevoli.
Ci siamo concessi un po’ di “lusso”, anche in previsione delle privazioni dei parchi del nord, fermandoci a Sydney in un albergo sito in una vecchia casa vittoriana a King Cross. Da qui le zone di interesse sono facilmente raggiungibili anche a piedi, cosa che tralaltro fa apprezzare l’apparente non freneticità della città. Oltre che alle classiche mete del quartiere Rocks, dell’Opera House (purtroppo non si può entrare e girare gratuitamente), abbiamo apprezzato l’interessante, ma relativamente costoso, museo del Barracks, in cui si possono ripercorrere i primi passi della sanguinosa storia australiana. Un aspetto che risalta di Sydney è senz’altro la sua multietnicità, che si esprime anche con il kitch ma rilassante Chinese Garden, oltre che con le innumerevoli offerte culinarie, tanto che abbiamo riassaggiato a distanza di un paio d’anni la favolosa cucina malese. Ci spiace solo non aver potuto passeggiare per Bondi Beach causa una giornata di pioggia e freddo, che però perlomeno ci ha dato la possibilità di vedere l’ornitorinco nell’acquario cittadino, visto che purtroppo non siamo stati così fortunati da avvistarlo in libertà al Flinders Chase di Kangaroo Island.
L’arrivo a Darwin ci ha offerto uno scorcio di paese totalmente differente : case basse, anche se a dire il vero sono state ricostruite dopo il ciclone, e stile di vita lontanissimo dalla metropoli. In effetti non offre granché, però solo qualche chilometro fuori città c’è, crediamo, il più interessante museo dell’intera Australia: il Northern Territory Museum dove, affiancata ad un’ottima gamma di manufatti aborigeni (anche di Namatjira), si ripercorre la storia della regione con particolare attenzione alla sciagura del 1974. Proseguendo si incontra il Botanic Garden e soprattutto l’East Point Riserve, che oltre ad essere utilizzato come parco cittadino, offre desolati ma affascinanti scorci naturali, nei quali è usuale incontrare i wallabies che al tramonto escono allo scoperto per mangiare. Ad ogni modo Darwin è un punto di appoggio verso il Parco Nazionale del Kakadu, che noi abbiamo deciso di percorrere autonomamente soprattutto per poter partecipare ad un’escursione con un tour operator di Cooinda, specializzato nell’entrare in contatto con la cultura aborigena uscendo dai soliti itinerari turistici. La guida ci ha accompagnato in una farm di bufali, che anche grazie all’appoggio del Warradjan, il locale centro culturale (curato e molto interessante), permette il sostentamento di un minuscolo villaggio di nativi. Partendo da qui abbiamo seguito Patsy nelle sue usuali faccende domestiche di bushtucker, concludendo l’istruttiva giornata con una cena a base del raccolto giornaliero davanti ad una vallata che ci ha regalato un tramonto da favola, lontani da qualsiasi contatto con la civiltà. A parte questa esperienza, il Kakadu offre splendidi panorami, una biofauna unica, tanto che sono da non perdere l’escursione all’alba in barca sullo yellow water river e i siti rupestri probabilmente più espressivi e più antichi della Terra: Ubirr e il Sogno di Nourlangie. Ricordando quei luoghi ci risulta difficile concepire come 20.000 anni fa esistesse questo tipo di arte sconosciuta al nostro mondo e come poi come ci sia stata un’evoluzione tanto differente. Durante l’escursione con Patsy ricordo di essermi allontanato dal campo solo per qualche decina di metri finché la potenza del vuoto e della Natura mi hanno fatto pesare la solitudine, facendomi immaginare ombre tutt’intorno, come se il bush volesse parlarmi e comunicarmi qualcosa. Solo per poco sono riuscito a comprendere come deve essere stata per millenni la vita degli aborigeni, come abbiano conosciuto, rispettato e “cantato” invisibili “vie” di una terra che i primi coloni hanno colpevolmente segnato come “Nullius”. Sto scrivendo questi pensieri da una poltrona del Ghan, il treno che dolcemente attraversa questo sterminato Paese, abbandonando lo sguardo su un paesaggio che affascina tanto è monotono.
La tappa successiva è Alice Springs una sonnolente cittadina trasformata dal turismo grazie alle attrattive dei siti famosi che la circondano. Il centro è un susseguirsi di alberghi, ristoranti, gallerie d’arte, negozi di souvenir e tour operator, anche se nelle vicinanze ci sono un paio di attrattive interessanti: Il Desert Park è ben realizzato, soprattutto per gli habitat desertici ricostruiti e per l’interessante padiglione notturno, in cui sono visibili marsupiali ormai quasi scomparsi in natura. Il Cultural Centre offre diversi punti di vista sulla storia australiana: la galleria d’arte, il padiglione dedicato al lavoro di Strehlow, una delle prime persone che si sono avvicinate con rispetto alla vita aborigena, l’Hangar dedicato ai primi pionieri del volo e il piccolo cimitero in cui sono sepolti Namatjira e i primi cammellieri afghani. Il territorio è diverso da quello ammirato nel Kakadu, con pochissimi alberi e solo qualche arbusto che emerge in un mare di terra rossa, ma presenta la stessa affascinante monotonia. Nel tragitto verso Uluru abbiamo scelto di fermarci al Kings Canyon percorrendo il giro completo (Rim Walk), possibile per le elevate temperature solo nella nostra stagione estiva. Il trekking è abbastanza faticoso, soprattutto per la prima parte in salita, sebbene venga presentato peggio di come sia in realtà; i panorami, la Lost City e soprattutto la pace che infonde la pool della Garden of Eden, rendono questo Canyon una delle scoperte più affascinanti dell’intero nostro viaggio. Guidando su questa strada poco a poco compaiono le icone (insieme all’Opera House) di tutto il Paese: le sagome inconfondibili di Uluru e Kata Tjuta. Uluru però non rappresenta solo il monolite, ma anche lo sfruttamento turistico che lo caratterizza. Yulara, il resort villaggio costruito nelle vicinanze, ha un impatto devastante per il fragile ecosistema della zona (anche se perlomeno rispetto a qualche decennio fa non ci sono strutture ai piedi del sito) e come nel Kakadu fa specie l’enorme possibilità ricettiva di questi santuari naturali, anche se ad onor del vero la gestione anglosassone dei parchi fa sì che gli accessi siano permessi solo su ben delimitati e circoscritti percorsi. Lo stupendo spettacolo del tramonto e dell’alba, momenti in cui cambia il colore della roccia del monolite, sono da condividere con un centinaio di persone, rendendo così l’atmosfera meno spirituale, sebbene la cosa che ci ha reso più tristi è stato vedere la fila di incivili arrampicarsi sulla sua vetta. Ad ogni modo sembra che si stia cercando di dare una svolta a questo stato di cose attraverso il centro culturale e gli operatori di Anangu Tours, guide aborigene che non solo accompagnano e spiegano il significato del Sogno di Uluru, ma propongono altre attività tra cui l’istruttivo workshop sulla pittura. Il loro modo di punteggiare su tela ha fatto scuola sin dagli anni 60, ma la cosa che sorprende è “vedere” i loro “quadri naturali” dall’alto, quando si sorvola il loro territorio. Lasciando queste terre, disseminate purtroppo di carcasse di canguri travolti dalle automobili, vogliamo sperare che, anche se lentamente, ci si accorga dell’importanza culturale e naturalistica di questa zona.
Il nostro viaggio, che ci ha permesso di tagliare da Nord a Sud l’Australia, ha ora destinazione Kingscote, capoluogo di Kangaroo Island. Da qui percorriamo la South Coast Road, cosa che ci ha permesso di ammirare gli scorci delle fattorie e dei boschi che costeggiano la strada, guidando però attenti ai balzi dei marsupiali che si rischia di investire. Siamo rimasti meravigliati dalla baia di Hanson, ma la nostra prima giornata sull’isola è stata tutta un susseguirsi di emozioni difficilmente classificabili in ordine di preferenza. La passeggiata a naso all’insù scrutando tra i rami degli eucalipti le sagome buffe dei lentissimi koala rimane un ricordo indelebile, come pure le corse sulle bianchissime dune di Little Sahara, o lo spettacolo offerto dalla cima di Bald Hill verso la Murray Lagoon. Seal Bay è stata un’occasione unica per sostare, in compagnia dei preparati guardaparco, a pochi metri da un folto gruppo di rumorosi e assonnati leoni marini, che utilizzano questa spiaggia come riposo dalla battute di pesca. Sappiamo però che le emozioni di questa prima giornata non sono finite, perché abbiamo deciso di ripercorrere tutta l’isola per passare la notte a Penneshaw in una fattoria magnificamente restaurata, base per l’escursione serale che ci ha consentito di passeggiare in mezza alla colonia di pinguini minori, più popolosa d’Australia.
Il giorno successivo è stato dedicato completamente al meritevole parco di Flinders Chase che offre diverse possibilità di percorsi naturalistici partendo dal visitor center. Il più famoso è quello che dovrebbe, con grandissima dose di fortuna e pazienza, permettere di avvistare l’ornitorinco, uno dei due mammiferi esistenti che depone le uova (l’altro sempre australiano è l’echidna). Noi purtroppo non l’abbiamo avuta, però la zona è abitata tra gli altri dalla specie di canguri più grossa del paese, i western grey, visibili insieme ai wallaby molto più degli echidna e i dei goanna. Lasciamo Kangaroo Island solo dopo aver respirato il profumo del vento e l’odore acre del mare ad Admiral Arch, la punta occidentale di un’isola che ci ha regalato un angolo di Australia che non avremmo potuto immaginare così bello.
Dopo una veloce visita di Adelaide, in cui abbiamo avuto giusto il tempo di vedere la galleria Tandanya e probabilmente di pranzare nel miglior ristorante indiano mai provato, siamo presi da una specie di malinconia perché siamo alla fine di questa parte di viaggio. Meno male che prevale la curiosità, perché il nostro giro del globo ci porterà in Polinesia, dove siamo piacevolmente accolti dalle immancabili ghirlande di fiori e dalla musica tipica dei Mari del Sud. La giornata passata a Papeete ci ha offerto uno scorcio di paese che sembra soffocare nell’affannosa rincorsa dei ritmi occidentali, esattamente come le sue strade intasate dai rumori e dagli scarichi delle auto. Fortunatamente l’atmosfera è ben diversa nelle isole Tuamotu, dove abbiamo deciso di rilassarci. Rangiroa, nonostante sia l’atollo più grande al mondo, ha solo 10km di strade percorribili e il suo ritmo è scandito dai voli che la riforniscono di turisti e di derrate alimentari, tutte importate tranne gli unici prodotti reperibili in loco : pesce, cocco e perle nere. Le coltivazioni di queste ultime, tutte a gestione nipponica, si possono visitare gratuitamente (sottolineo questo particolare perché i prezzi dei prodotti finiti lo sono tutt’altro). A parte comunque i due minuscoli villaggi con un paio di caratteristiche chiesette, l’isola è godibile soprattutto per la sua unica vita marina. Noi abbiamo passato delle giornate indimenticabili, scandite dal ritmo tranquillo e da alcuni appuntamenti fissi: lo spettacolo pomeridiano e puntuale con le acrobazie dei delfini a Tiputa Pass, l’arrivo verso riva delle razze e dei piccoli squali in cerca degli avanzi dei pescatori e l’attesa serale per gli esemplari un po’ più grandi di pinna nera di passaggio sotto il pontile del nostro hotel. Siamo rimasti estasiati nel vedere i pesci che sembravano sospesi nel vuoto tanto l’acqua del mare era limpida, e nell’ammirare l’elegante manta di due metri emersa a pochi centimetri dalla nostra canoa. Il Kia Ora, dove abbiamo alloggiato, è senza dubbio il miglior resort, molto ben curato e incastonato in un tratto bellissimo di laguna; noi abbiamo scelta la formula del b&b, cosa che ci ha fatto apprezzare anche altri ristoranti, tra cui Les Relais des Josephine, dove abbiamo assaggiato diversi piatti originali, come ad esempio il filetto di Mahi Mahi al roqueford, mirabilmente cucinati da questa signora francese in riposo nei mari del sud. Il maestrale di quei giorni non ci ha permesso di vedere la laguna blu o l’isola dei Recife, ma nonostante ciò l’atmosfera di questo luogo ci ha coinvolti a tal punto che ci siamo ripromessi in un futuro, speriamo non lontano, di dedicare un viaggio alle isole polinesiane
E’ stato il nostro primo giro della Terra e le emozioni che conserveremo sono tante. Torniamo a casa arricchiti dall’incontro con genti, luoghi e culture diverse e portando con noi lo splendido quadro aborigeno dal titolo “women dreaming sitting around waiting to dance”, che farà bella mostra nella nostra casa piena di ricordi di mondi, ora non più tanto lontani.
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