Asia

Asia 2023 con Etihad Airways

di Mario Pistoi
diario  di una vacanza nel mese di Marzo (in giro per Thailandia, Cambogia, VietNam e Laos)
Nel ricordo e assieme a “GIANNA“.

Non avrei mai pensato di riuscire a concludere il mio programma, pensato ed organizzato alla fine di gennaio di quest’anno, di ripercorrere da solo un insieme di paesi del sud-est asiatico, già peraltro conosciuti, e visitati in compagnia di Gianna.

E così, ai primi di marzo, mi ritrovo a prendere il Flixbus che mi porterà a Milano all’aeroporto della Malpensa.

Il Flixibus è un marchio tedesco che offre servizi di autobus interurbano.

E’ la più grande rete di autobus in Europa e si può scegliere tra oltre tremila destinazioni, viaggiando in 35 Paesi.

Il volo Milano Bangkok lo effettuo con la Compagnia Aerea del Golfo Etihad che ha il suo Hub ad Abu Dhabi e qui ci sarà la sosta intermedia di quattro ore e mezzo, prima di riprendere l’aereo fino a Bangkok.

La Etihad Airways è la seconda Compagnia Aerea degli Emirati Arabi Uniti, la prima è l’Emirates. Il nome di Etihad in arabo significa “Unione” e la sua base principale è l’aeroporto Internazionale di Abu Dhabi.

Abu Dhabi si trova su un’isola nel Golfo Persico ed il rapido sviluppo per la produzione del petrolio e del gas l’hanno trasformata in una metropoli grande e sviluppata.

Abu in arabo significa “padre” e Dhabi significa “gazzella” e quindi Abu Dhabi si può tradurre come “padre della gazzella”, forse per l’abbondanza di gazzelle in tempi non recenti.

Prima della scoperta delle riserve di petrolio (circa anni ’50), l’attività della pesca delle perle era un’industria chiave per l’economia della zona ed il Golfo Persico era il luogo migliore per la ricerca delle ostriche.

Oggi, la Grande Moschea dello Sceicco Zayed rappresenta un elemento chiave del patrimonio architettonico di Abu Dhabi.

La sua costruzione è iniziata nel 1996 ed aperta nel 2007, abbastanza grande da contenere circa 41.000 persone.

Nel 2023 Abu Dhabi è stata classificata come la città più sicura al mondo per il sesto anno consecutivo, dal sito di analisi statistiche NUMBEO, ma le organizzazioni per i diritti umani hanno criticato pesantemente le violazioni a causa del trattamento non adeguato che ricevono i lavoratori stranieri ed a causa anche di molte aziende, sia governative che private, che debbono ancora migliorare le condizioni di lavoro.

Dal 2009 è entrato a far parte del calendario di Formula 1 il Gran Premio di Abu Dhabi, che , pur essendo un impianto permanente, ha l’animo del circuito cittadino.

E’ posto sull’isola di YAS MARINA a 30 minuti d’auto dalla Capitale ed è immerso tra campi di golf , parchi a tema, come il Ferrari World, ed hotel molto esclusivi e costosi.

Volendo, si può godere di un’esperienza individuale al volante di una Ferrari a doppi comandi con un istruttore qualificato.

Ecco, ed ora mentre aspetto nella Lounge dell’Etihad, abbastanza comoda e ben fornita di tutto ciò di cui ha bisogno un pellegrino affamato e assetato, il trascorrere delle quattro ore e mezzo di sosta in aeroporto, ripasso i programmi che ho intenzione di intraprendere.

All’aeroporto Suvarnabhumi di Bangkok giungiamo la mattina presto e noto subito che non è più necessario compilare un modulo per ottenere il visto non immigrant.

Il visto te lo stampano direttamente sul passaporto e dal giugno 2022 non è più richiesto il Green Pass legato al Covid 19 per le formalità di ingresso.

Il Visto Elettronico per i cittadini italiani permette di rimanere nel Paese per un massimo di 60 giorni consecutivi, raggiunti i quali bisognerà uscire dalla Thailandia per poi rientrare ed avere, al momento del nuovo ingresso altri 60 giorni di permanenza massima.

Bangkok è la solita capitale in continua rivoluzione urbanistica e ciò consente ancora di vedere enormi grattacieli, comparsi anno dopo anno, convivere con catapecchie destinate anche loro a diventare altri grattacieli.

E’ diventata da molti anni una delle più attrazioni turistiche e la città è nota per la sua vita di strada e per i punti di riferimento culturali, così come il Gran Palace ed i templi Wat Arun (tempio dell’aurora) ed il Wat Pho, così come il suo quartiere a luci rosse (Patpong).

La città è attraversata dal fiume Chao Phraya il cui estuario termina una venticinquina di chilometri a sud gettandosi nel Golfo del Siam.

Questa è la quarantesima volta che mi fermo tanto o poco a Bangkok, quindi posso dire di conoscerla abbastanza bene, e la città rileva le solite contraddizioni asiatiche di sempre.

Bangkok la sia ama o la si odia

Io personalmente l’amo, così come l’amava Gianna ed i nostri ragazzi.

Una curiosità : in thailandese “Bang” significa “villaggio su un ruscello” e “Ko” o “Koh” si traduce con “isola”, di conseguenza è molto probabile che il nome Bangkok potrebbe significare “villaggio dal paesaggio acquoso”.

La rete dei corsi d’acqua della città è stata il principale mezzo di trasporto fino all’inizio del 1900 quando iniziarono a costruire strade moderne sopra i numerosi canali d’acqua, che sono stati interrati e pavimentati, ma alcuni ancora attraversano la città.

Sotto l’influenza dei “monsoni dell’Asia Meridionale”, come in tutta la Thailandia, c’è “il clima tropicale della savana” vivendo le tre stagioni : calda, piovosa e fresca, con una temperatura minima di 22 e massima di 36 gradi.

Dopo aver trascorso i primi due giorni a Bangkok mi preparo a raggiungere Chiang Mai al nord della Thailandia.

Lo si può fare in quattro modi. A piedi, ma non lo consiglio, sono 700 chilometri, in treno, ci sono dei comodissimi vagoni letto, in Bus Vip con sedili un po’ reclinabili, o in aereo, e vi sono tantissime compagnie a buon mercato.

Se poi si considera che a piedi avrei impiegato almeno due mesi, in treno ed in autobus o con una vettura noleggiata 10/12 ore, ed in aereo più o meno un’ora, scelgo quest’ultimo mezzo ed eccomi a Chiang Mai.

Chiang Mai, la seconda città più grande della Thailandia è dominata dai monti Doi Suthep e Doi Pui (1.600 metri di altezza)

La città è attorniata da una cerchia di mura e da un fossato.

E’ stata sotto il regno birmano per 216 anni fino al 1767 quando i birmani furono cacciati.

Il turismo oggi è un’importante risorsa per la città che ogni anno viene visitata da circa un milione di turisti.

Il clima è più temperato, rispetto a Bangkok, ed offre attrattive simili alla Capitale , seppure in scala minore, ma è molto meno congestionata dal traffico ed il ritmo di vita è più rilassato.

Nelle vicinanze vi sono molti templi famosi ed è punto di partenza per escursioni sulle colline e giungle del nord.

Il tempio più visitato e più vicino alla città è il Doi Suthep, una decina di chilometri ad ovest ed auguri a chi vuole visitarlo, con le infinite scale per raggiungere la cima.

Merita comunque la fatica.

Di solito, all’estero, non amo tanto frequentare ristoranti italiani e tendo a scoprire locande locali ed assaporare i piatti del luogo. Naturalmente non tutto è di mio gradimento, ma a pensarci bene la cucina orientale è nelle mie corde.

A Chiang Mai sono in un hotel abbastanza centrale e nella stessa stradina ed a poca distanza è attaccato un cartello con una freccia RISTORANTE ITALIANO e l’immancabile tricolore scudettato.

Ci provo e chi ti trovo?

Il gestore e cuoco è thailandese che ha lavorato per cinque anni in Liguria e parla approssimativamente un po’ d’Italiano.

Preso e mi fa tanto per cominciare una bella insalatona con sopra delle fette di salmone affumicato.

Mi racconta il locandiere italo–thai che sua moglie una volta ha passato la notte fuori casa, ed ha spiegato al marito che ha dormito dalla sua migliore amica.

Il marito telefona alle dieci migliori amiche della moglie, ma nessuna conferma il fatto.
Quando poi è la volta del locandiere a passare la notte fuori casa,
la mattina dopo spiega alla moglie che ha dormito dal suo migliore amico.

La moglie telefona quindi ai dieci migliori amici del marito e sette confermano il fatto e gli altri tre dicono addirittura che si trova ancora lì…

Ora salgo sul pulmino che in tre ore e mezzo mi porterà a Chiang Rai lontana 180 chilometri e da qui altri settanta per arrivare sulla riva del Mekong al “triangolo d’oro”.

Autostrada montagnosa a due corsie e piena di curve, ma tenuta bene. Poi di colpo il guardrail sparisce e l’autostrada diventa pericolosissima. Di rallentare neanche parlarne.

Dopo un’ottantina di chilometri facciamo una piccola sosta al BLU TEMPLE (Tempio Azzurro) di costruzione abbastanza recente e riconoscibile per la sua brillante tonalità dello zaffiro blu.

Tutte le pareti, il tetto e le statue circostanti sono tutte ricoperte da questa singolare ed insolita tonalità.

Questo moderno tempio è stato progettato da uno studente dell’artista che ha costruito l’eccentrico WHITE TEMPLE (Tempio Bianco) che troveremo più avanti.

E’ conosciuto anche come “Tempio della tigre danzante” e si dice che un tempo le tigri vagassero liberamente per i terreni circostanti.

La costruzione del Blu Temple è stata ufficialmente completata nel 2016 ma è ancora considerato Work in Progress (Lavori in Corso).

Durante la sosta, moltissimi i turisti sudati che si rifocillano con bibite e souvenir varie.

Poi altra sosta alle sorgenti minerarie di acqua caldissima. Solite vecchine che vendono cestini con le uova da lessare

WHITE TEMPLE (tempio Bianco)

Ad una quindicina di chilometri prima della città di Chiang Rai, troviamo un tempio buddista ed induista, anche questo di recente costruzione, realizzato tutto in gesso bianco e di proprietà di un privato che vi ha realizzato un piccolo museo.

E’ una singolare costruzione dell’architettura classica thailandese con abbondante uso di serpenti Naga, sempre presenti nella religione e nella mitologia induista.

Poco prima di arrivare a Chiang Rai, ci fermiamo nei pressi di un villaggio che avrei preferito non vedere.

Un piazzale per parcheggiare le auto ed un sentiero abbastanza scomodo che porta in una radura dove sono allineate capanne e banchettini per la vendita di ricordini, tessuti, medagliette ed altre piccole cose molto artigianali.

E’ uno dei villaggi delle “DONNE GIRAFFA”, una delle attrazioni turistiche più deprimenti ma redditizie per il governo thailandese.

Appartengono alla tribù KAYAN di origine birmana e si sono rifugiate in Thailandia a causa del conflitto con il regime militare di quel Paese.

Erano in cerca di asilo politico e di aiuto, ma credo sia andata diversamente.

Il nome Donne Giraffa deriva dal fatto che già dall’età di cinque anni mettano degli anelli d’ottone intorno al collo e qualcuna anche alle gambe e braccia.

Con l’avanzare dell’età aumentano anche gli anelli ed il loro peso provoca uno slittamento della clavicola , dando l’illusione di un collo molto allungato, “da giraffa”.

Il motivo ? Un collo lungo è considerato un simbolo di bellezza femminile e di prosperità, nonchè attraente per gli uomini che, bastardi, godono di questa mutilazione.

Non vedo l’ora che anche i mariti si facciano inanellare i loro membri sin dalla loro giovane età per il divertimento delle loro giovani signore.

Sono state confinate in diverse zone dentro villaggi ghetto vicini alla frontiera birmana, ma non hanno pieni diritti come i thailandesi, né accesso all’energia elettrica, né alle strade, alla sanità, alle scuole.

In pratica sono come bestie in gabbia senza poter decidere di vivere una vita propria, non condizionata.

TANTISSIMA TRISTEZZA e tanti cadono nella tentazione di andare a guardarle, ma io dico che questa è una trappola turistica.

Non c’è molto da vedere. Una fila di bancarelle e persone costrette a vendere souvenir per riempire le tasche dei Tour operativi thailandesi.

Attaversiamo Chiang Rai, che si trova nella provincia più settentrionale della Thailandia, ma non ci fermiamo e proseguiamo fino a raggiungere “il triangolo d’oro”, area montuosa dove si incontrano i confini di Thailandia, Myanmar ex Birmania e Laos, a circa 60 chilometri della città.

Arriviamo al porto fluviale thailandese sul Mekong, molto importante per i trasporti nella regione.

TRIANGOLO D’ORO

E’ un’area immensa racchiusa tra questi tre Stati. Le tribù che si dedicano ancor oggi alla coltivazione dell’oppio sono molto diminuite e sono di origine cinese e sino-birmana.

Ancora oggi viene coltivato sulle montagne coperte dalla jungla e spesso di difficile accesso.

La presenza di guerriglieri e di banditi rende sconsigliabile avventurarsi sulle montagne senza una guida.

Le carovane di oppio scendono dai confini birmani, laotiani e thailandesi tra marzo e giugno di ogni anno e trasportano fino a 30 tonnellate del papavero.

Alla fine della guerra del Vietnam nel 1975, l’80 per cento dell’oppio mondiale proveniva dal triangolo d’oro.

Oggi solo il 16 per cento.

I governi dei tre stati hanno prodotto leggi dal 1970 che hanno permesso la distruzione di molte piantagioni di papaveri che fino a non molti anni fa arrivavano fino ai margini delle strade asfaltate.

E’ stata così incentivata la produzione di colture alternative quali caucciù, tabacco, thè e caffè.

In Myanmar ed in Laos, non in Thailandia, i loro governi hanno permesso la costruzione di diversi Casinò, riconoscendo una grossa fetta di guadagno ai gruppi ribelli che detenevano il potere del commercio dell’oppio.

I tre Paesi Thailandia, Myanmar e Laos si abbracciano nella confluenza dei fiumi Ruak e Mekong che nasce nell’altopiano dei Tibet e attraversa la provincia cinese dello Yunnan, la Birmania, Thailandia, Laos, Cambogia ed infine VietNam, qui formando il delta costituito da 9 bracci che sfociano nel mar cinese meridionale nei pressi di Saigon, ora chiamata Ho Chi Minh City.

Facciamo con un barcone un giro conoscitivo della zona fluviale fino sulla riva laotiana, dove vediamo una enorme costruzione circondata da altre più piccole.

Si tratta del Casinò KINGS ROMANS edificato in una zona circondata da palme e progettata per attrarre turisti della Cina dove il gioco d’azzardo è vietato al di fuori di Macao e dai thailandesi, dove in patria è illegale.

In questa zona del Casinò laotiano, piena anche di hotel lussuosi, corrono diverse voci secondo le quali sia stata applicata la tratta di esseri umani, oltre che l’accusa di coinvolgimento nel fiorente traffico di droga.

Ci accingiamo a ritornare a Chiang Mai ed è una bella faticaccia. Quattro ore di pulmino con una sosta di mezz’ora a metà strada.

Insomma, ormai è fatta, ma non la ripeterei.

E’ giovedì 9 marzo e riprendo l’aereo per Bangkok.

Bangkok ha due scali aerei internazionali, il vecchio Don Muang, che è stato soppiantato nel 2006 dal nuovo Suvarnabhumi, ma continua ad essere operativo per delle compagnie aeree a basso costo.

Nel 2015 è diventato il più grande aeroporto di vettori low cost del mondo.

Un campo da golf si trova tra le due piste, ma non è separato ed i golfisti sono trattenuti da un semaforo rosso ogni volta che atterrano gli aerei

Mentre lo scalo Suvarnabhumi è comodamente raggiungibile dal centro di Bangkok tramite una linea Sky Train che arriva fino dentro l’aeroporto, ancora è troppo laborioso farlo per il Don Muang, nonostante ci stiano lavorando. Ma le due linee hanno gestioni separate e non c’e l’intenzione di collaborare.

Durante la guerra del Vietnam l’aeroporto Don Muang è stato un importante centro logistico e di comando dell’aeronautica degli Stati Uniti.

Il 10 marzo, in tre ore e mezzo, un pulmino molto comodo, con altri cinque passeggeri a bordo, mi porta da Bangkok a POIPET.

Poipet è una cittadina cambogiana situata vicino al confine thailandese ed adiacente alla città thailandese Arania Pradet.

E’ un punto chiave dell’attraversamento tra i due Stati e sembra che dalla città passi il 70 per cento del traffico dei minori in Cambogia.

Alla città cambogiana sono legate anche molte attività illegali come quelle della prostituzione e del gioco d’azzardo.

Tra i banchi controllo passaporti cambogiano-thailandese c’è una striscia di Casinò ed Hotel che consente di giocare d’azzardo senza dover passare attraverso l’immigrazione cambogiana.

In Cambogia il gioco è illegale per i cittadini cambogiani ma non per i titolari di passaporti stranieri. Ecco perchè tanta gente che prima era in coda con me ad un certo punto devia e non la vedo più.

Tanto per la cronaca il 28 dicembre 2022 un incendio al GRAND DIAMOND CITY HOTEL a Poipet ha ucciso 27 persone.

Uscito dai diversi percorsi necessari all’Ufficio Immigrazione, mi trovo davanti, in strada, una serie di pick-up. Nel cassone posteriore hanno fissato delle poltroncine per i passeggeri e per pochi dollari mi caricano assieme ad altri quattro turisti, destinazione SIEM REAP.

E’ bene avere sempre dei dollari americani in contanti e di piccolo taglio, preferiti ai RIEL cambogiani.

Il Dollaro americano, contrariamente all’EURO che cambiano solo nelle banche, è praticamente la seconda moneta non ufficiale della Cambogia e gli stessi prezzi, nei negozi o nei ristoranti ed anche nelle bancarelle, sono molto spesso espressi anche nella moneta statunitense.

Tre ore per percorrere 150 chilometri, poco traffico e strada buona, tutti al vento, ma un po’ sballottato, forse l’unica via decente, e siamo in hotel e credo che l’autista si sia presa la provvigione dall’albergatore che mi ha preso in consegna. Ma tant’è, questi sono i tempi.

Devo ricordarmi di cambiare i Rial che mi rimarranno, prima di lasciare la Cambogia fra due giorni, perchè altrimenti diventeranno souvenir per parenti ed amici essendo la moneta non convertibile e nessuna banca fuori dalla Cambogia li vorrà cambiare.

In Cambogia non vi sono monete, solo banconote ed il cambio medio è di 1 Dollaro statunitense per 4.000 RIEL.

Quindi consiglio di cambiare solo piccole quantità di dollari per non avere le tasche gonfie di Riel.

Qui sembra che quasi tutto costi 1 Dollaro.

Un dollaro per un piatto di riso con pollo al curry, un dollaro per un cappellino para sole al mercato, un dollaro per una collanina, un dollaro per un trasporto in tuk-tuk, quella specie di motorette a tre ruote con sedile per passeggeri, un dollaro per una mancia graditissima per due o tre persone.

SIEM REAP (si pronuncia pressappoco Siem rip)

In lingua Khmer significa letteralmente “il luogo in cui fu sconfitto il Siam” e tale nominativo deriva dal fatto che nel 1549 il Sovrano ANG CHAN riuscì a respingere un’offensiva sferrata dalle truppe dei Regno di Ayuttaya (ex Siam)

E’ la seconda città più grande della Cambogia con un’architettura coloniale francese.

In città ci sono musei. spettacoli tradizionali, villaggi culturali, alberghi per tutte le tasche, negozi di souvenir e artigianato, allevamenti di bachi da seta e villaggi di pescatori sul Lago TONLE’ SAP, grande come 7 volte il lago di Garda, lungo 250 chilometri fino quasi a raggiungere la Capitale Phnom Penh, e considerato come la più grande riserva d’acqua dolce del sud est asiatico.

Durante il regime dei Khmer Rossi (1975 – 1979) la città fu praticamente abbandonata ed i turisti iniziarono nuovamente a “ripopolarla” solo dopo la morte di POL POT, nel 1989, il responsabile della carneficina cambogiana.

Negli ultimi vent’anni sono sorti numerosi Hotel ed importanti infrastrutture fra cui la ristrutturazione e ampliamento dell’aeroporto internazionale.

Pub Street è il centro della “nightlife” con ristoranti, locali con musica dal vivo, massaggi, negozi e bancarelle di ogni genere ed anche tante zoccole.

Ma la chicca più dolce del territorio per cui sono voluto tornare a visitarlo per la terza volta, sono i templi di ANGKOR WAT ed in particolare il TA PROHM.

Angkor Wat si trova a pochi chilometri a nord di Siem Reap ed è un complesso di templi considerata la più grande struttura religiosa al mondo.

Fu costruito all’inizio del 1100 dall’Impero Khmer come Tempio di Stato del Re e come Capitale.

Nel tempo è stato saccheggiato, poi restaurato da un nuovo Re, che stabilì, pochi chilometri a nord, altri templi come ANGKOR TOM e BAYON, convertiti poi in buddisti.

I primi visitatori occidentali lo hanno visitato alla fine del 1500 e nel 1861 un antropologo tedesco ha intrapreso un viaggio di quattro anni nel sud est asiatico fra Cambogia e Laos.

Il ventesimo secolo ha visto un consistente restauro di Angkor Wat e squadre di operai ed archeologi hanno respinto la giungla e scoperto le distese di pietre.

La rappresentazione di Angkor Wat viene esibita stilizzata nella bandiera cambogiana e nel 1992 è stata nominata Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO.

Il muro esterno di Angkor Wat misura 1.024 metri per 802 metri con un muro alto 4,5 metri circondato da un fossato largo 190 metri per oltre 5 chilometri di perimetro.

E’ UNA COSA ENORME.

I lavori su Angkok wat furono sospesi durante l’era dei Khmer Rossi nel 1975 e ripresi poi nel 1992.

Nel 2020 la Pandemia di Covid – 19 ha portato l’introduzione di restrizioni di viaggio e di conseguenza il numero di visitatori è crollato, fino alla fine del 2022 quando hanno riaperto ai visitatori internazionali.

Ma l’oggetto che per me è più importante e più incredibilmente impressionante e che voglio rivisitare, per cui sono venuto qui appositamente, è il TA PHROM.

Ad un chilometro ad est dall’Angkok Wat ci sono le rovine di un Tempio il cui nome moderno è TA PROHM costruito in stile Bayon in gran parte fra il 1100 ed inizio 1200.

Fu fondato dal Re Khmer JAYAVARMAN come Monastero buddista.

A quei tempi quasi 80.000 persone dovevano campare o visitare il Tempio, inclusi 2.700 funzionari e 615 ballerini.

Il Tempio è indicato oggi come “Tempio di Tomb Raider” o “Tempio di Angelina Jolie” a causa della sua rappresentazione nel film “Lara Croft : Tomb Raider” dell’anno 2001.

Era stato costruito senza malta e dopo il suo abbandono gli alberi hanno messo radici nelle pietre smosse.

Gli alberi crescono tra le rovine e la giungla circostante lo hanno reso uno dei Templi più popolari tra i visitatori dei siti archeologici di Angkor.

Al tempo della sua edificazione il Re intraprese un massiccio programma di costruzioni e lavori pubblici.

Una stele datata 1186 ricorda che il Ta Prohm, che a quei tempi si chiamava RAJAVIHARA (Monastero del Re), fu costruito in onore della sua famiglia.

Un’altra stele registra che il Sito ospitava più di 12.500 persone (inclusi 18 Sommi Sacerdoti e 615 ballerini), con altri 80.000 abitanti nei villaggi circostanti che lavoravano per dare servizi e rifornimenti.

La stele rileva inoltre che il Tempio aveva accumulato notevoli ricchezze tra cui oro, perle e seta.

Dopo la caduta dell’impero Khmer nel 1500 il Ta Prohm fu abbandonato e trascurato per secoli. Quando all’inizio del 1900 iniziarono a restaurare i Templi di Angkor, si decise che il Ta Prohm sarebbe stato lasciato, in gran parte, come era stato trovato, concedendosi al gusto per il pittoresco.

Secondo alcuni, è stato scelto perchè era uno dei Templi più imponenti e quello che si sarebbe fuso meglio con la giungla.

Tuttavia, molto lavoro è stato fatto per stabilizzare le rovine, per consentirne l’accesso e per mantenere “la condizione di apparente abbandono”

Sono state restaurate la maggiori parti del complesso del Tempio, alcune delle quali sono state costruite da zero.

Attorno al Sito sono state installate passerelle in legno, piattaforme e ringhiere in corda per proteggerlo da ulteriori danni causati dai turisti.

Gli alberi, che crescono dalle rovine, sono forse la caratteristica più distintiva del Ta Prohm, rispetto a tutto il resto di Angkor.

Predominano due specie di piante, la più grande è l’Albero Del Cotone Da Seta (Ceiba pentandre), poi il Thitpok (Tetrameles nudiflora) e infine il Fico Strangolatore (Ficus gibbosa) e la Mela d’Oro ( Diospyros decandra).

Lo studioso di Angkor MAURICE GLAIZE, architetto francese morto nel 1964 osserva “Da ogni parte, in una fantastica scala eccessiva, i tronchi degli alberi di cotone di seta si librano verso il cielo sotto un baldacchino verde ombroso, le loro lunghe gonne larghe che strisciano sul terreno e le loro radici infinite che si attorcigliano più come rettili che come piante”

E siccome domani 12 marzo domenica prenderò l’aereo per Saigon, ora chiamata Ho Chi Minh , in Viet Nam, non posso oggi non rammentare una brutta pagina di Storia della Cambogia, il recente regime dei KHMER ROSSI (1975 – 1979)

Durante la dittatura dei “KHMER ROSSI”, seguaci del Partito Comunista Cambogiano, dal 1975 al 1979, la popolazione di Phnom Penh, Capitale della Cambogia, circa due milioni di persone, furono costrette a lasciare la città, in quella che fu “una delle più grandi migrazioni forzate” della Storia recente.

Gli Khmer Rossi, con Pol Pot come leader, instaurarono una delle dittature più violente e terribili nel ventesimo secolo.

Nei quattro anni di regime costruirono in diverse parti del Paese prigioni e campi di sterminio.

Furono uccisi monaci buddisti, insegnanti, preti ed appartenenti a classi sociali elevate, funzionari ed ufficiali dell’esercito. Anche chi portava gli occhiali era arrestato perchè associato ad un alto grado di istruzione.

Tutti avrebbero dovuto contribuire solo a creare una società agraria completamente autosufficiente.

Centinaia di migliaia di persone furono portate a lavorare nei campi ed il lavoro in campagna era massacrante e durava più di dieci ore al giorno.

Normalmente il rancio consisteva in solo due scodelle di riso, una a pranzo, l’altra a cena.

Pol Pot è stato un rivoluzionario, dittatore e politico cambogiano, che , come Primo Ministro della Kampuchea “democratica”, tra il 1976 ed il 1979, fu diretto ispiratore e responsabile della tortura e del massacro di circa un milione e mezzo di persone.

Ciò a causa del lavoro forzato, malnutrizione e scarsa assistenza medica, in quello che è più noto come “genocidio cambogiano”.

L’alta scuola liceale TUOL SLENG a Phnom Penh, capitale cambogiana, fu trasformata in campo di prigionia dove veniva praticata la tortura e la morte.

Ora è diventata “il Museo del Genocidio” dove sono esposti i dispositivi di tortura e le foto ed i teschi delle loro vittime.

Ad una quindicina di chilometri dalla Capitale vi erano i campi di sterminio, dove coloro che furono uccisi o che venivano assassinati dal regime, venivano sepolti in fosse poco profonde.

Li avevamo già visitati qualche anno fa , ma sarebbe stato meglio non ricordarlo, se non per pietà, per non stare ancora male al pensiero di quella visione.

La ferocia dei Khmer Rossi si fermò solo con l’intervento del Viet Nam, che invase la Cambogia (guerra cambogiana-vietnamita) e Pol Pot fuggì verso il confine thailandese.

In quegli anni molti ragazzini furono costretti ad arruolarsi nell’esercito e furono indottrinati a seguire ed a far seguire i dettami del regime. I più feroci erano loro.

BRUTTA PAGINA

In quaranta minuti di volo atterriamo a Saigon (ho sempre preferito continuare a chiamarla così) e faccio un breve (insomma….) riepilogo della più recente Storia del Viet Nam.

Per non dimenticare e per rinfrescarci la memoria, vediamo come era il Vietnam prima del 1975, anno della Riunificazione, ossia della conquista del sud da parte delle Forze Nordiste.

Dire Vietnam, immediatamente, l’immaginario collettivo vede films di guerra nelle risaie, John Waine, Rambo, truppe americane con elicotteri e cacciabombardieri da una parte, e Vietminh e Vietcong, a piedi, piccinini, dall’altra.

Né una, né l’altra ricostruzione è esatta.

E allora vediamo come si sia arrivati a questo.

Nel 1954 vi fu la caduta di Dien Bien Phu che segnò la sconfitta dei francesi colonizzatori di tutta l’Indocina, cioè le attuali nazioni del Vietnam, Laos e Cambogia. Fautore della vittoria sui francesi fu il Movimento Nazionalista VIETMINH guidato da Ho Chi Minh, chiamato in seguito “lo Zio Ho”.

I Vietminh erano comandati dal Generale Giap, che anche in seguito guidò le Forze Nord Vietnamite.

La vittoria dei Vietminh, con la sconfitta dei francesi, portò agli accordi di Ginevra del 1954 ed il Vietnam fu diviso in un NORD comunista e filosovietico, ed un SUD filooccidentale, in attesa che le due parti proclamassero le elezioni nazionali, da effettuarsi nel 1956.

La linea di demarcazione dei due Vietnam fu stabilita nel 17° parallelo, che cade pressappoco a Nord di Danang, poco dopo Huè.

Gli USA appoggiarono subito il governo del Sud, guidato da NGO DINH DIEM, che si oppose immediatamente agli accordi.

Quindi iniziò la competizione per l’intero Vietnam, che sarebbe poi sfociata nella “guerra del Vietnam” o “Guerra Americana” come la chiamano i vietnamiti.

Il cattolico e autoritario Diem si autoproclamò Presidente, ma non indisse alcuna elezione, anzi mise fuori legge l’opposizione e l’elezione dei Capi Villaggio.

Ciò nonostante il Presidente americano Eisenhouer, nel 1957, riconfermò a Diem il sostegno al suo regime

John Kennedy, successore di Eisenhouer, nel 1961 inviò 1364 “Consiglieri Militari”, ma nessuna riforma promessa venne eseguita.

Lo spiccato nepotismo di Diem ed il suo favoritismo nei confronti della minoranza cattolica, scatenarono violente proteste e clamorose manifestazioni autodistruttive da parte dei Monaci Buddisti, come il sacrificio di THICH QUANG DUC, a Saigon, che si immolò dandosi fuoco dopo essersi cosparso di benzina.

Il deterioramento della situazione politica convinse alcuni Funzionari dell’Ambasciata Americana a prendere accordi con alcuni capi militari sudvietnamiti, per un eventuale Colpo di Stato che avvenne il 1° Novembre 1963, ove fu ucciso lo stesso Diem.

Ancor oggi non è del tutto chiaro il ruolo tenuto da Kennedy in questa confusa macchinazione per rovesciare Diem.

Sappiamo solamente per certo, che dopo tre settimane, anche Kennedy venne assassinato ed il suo Vice Presidente Johnson continuò a confermare l’appoggio al sud.

La morte di Diem rese il Sud ancora più instabile ed i nuovi Presidenti del Sud Vietnam, l’ultimo dei quali fu Van Thieu, erano ancora più corrotti ed inefficenti.

I Viet Cong, guerriglieri comunisti vietnamiti del sud, si infiltrarono sempre di più con la popolazione rurale e la lotta contro di loro fu costellata da numerosi ed umilianti fallimenti, nonostante l’aiuto americano.

Dall’altra parte, i Vietnamiti del Nord, foraggiati dalla Russia e dalla Cina, avevano creato “il sentiero di Ho Chi Minh”, che bordeggiava il confine del Laos e della Cambogia, per i rifornimenti strategici ai guerriglieri Vietcong, fino dentro Saigon.

La popolazione civile statunitense e l’opinione pubblica mondiale si divise nettamente sul problema della guerra e si iniziarono i complessi e difficili colloqui di pace.

Intanto le elezioni presidenziali americane del 1968 furono tra le più turbolente della Storia degli Stati Uniti.

Il 6 giugno venne assassinato Robert Kennedy, fratello del Presidente ucciso, possibile candidato pacifista dei Democratici.

Di stretta misura vinse Nixon che coadiuvato dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale Kissinger, ripiegò su una politica basata sempre sulla forza, ma più accorta e segreta.

In pratica, si continuarono sia i colloqui di pace che i bombardamenti al Nord, ma in segreto, nascondendoli all’opinione pubblica mondiale.

Nel 1970, l’inaspettato incremento delle operazioni, dopo tante assicurazioni su ritiri e vietnamizzazione, fece esplodere, senza precedenti, proteste negli Stati Uniti, culminate tragicamente il 4 Maggio nei sanguinosi incidenti alla Kent State University dove la Guardia Nazionale aprì il fuoco sugli studenti, uccidendone quattro.

Alla fine, con i secondi accordi di Parigi del 17 Gennaio 1973, il ritiro totale americano venne completato il 29 Marzo 1973 e di conseguenza, il governo di Saigon, sempre più fragile ed instabile, venne abbandonato al suo destino.

All’inizio del 1975, l’esercito del Nord, venendo meno agli accordi di Parigi, scatenò l’offensiva finale.

L’esercito del Sud si disgregò e crollò di fronte alle superiori forze nord vietnamite.

Gli accordi di Parigi prevedevano l’autodeterminazione del popolo sud vietnamita, la cessazione dell’attività militare USA, con ritiro di tutte le forze americane e la riunione pacifica del Vietnam.

Il personale statunitense ancora presente a Saigon venne evacuato con una disperata operazione di salvataggio effettuata da elicotteri e aerei militari.

In precedenza il nuovo Presidente americano Gerald Ford aveva dichiarato il suo disinteresse per le nuove e drammatiche vicende belliche.

La guerra del Vietnam si concluse quindi con la vittoria totale delle forze comuniste del Nord e con il completo fallimento politico e militare americano.

Era il 30 Aprile 1975.

Le vittime americane sembra che siano arrivate a 60.000 uomini, mentre il Vietnam parla di 1 milione di combattenti vietnamiti e 4 milioni di civili uccisi durante la guerra.

Mi sono prenotato nuovamente per un giro sul DELTA DEL MEKONG.

E’ anche denominato “il drago a nove teste”per la sua caratteristica della diramazione del corso del fiume in nove bracci principali che poi sfociano nel Mar Cinese Meridionale.

Il Delta, enorme superficie come la Toscana e l’Umbria messe assieme, rappresenta un’eco-sistema naturale unico al mondo.

Un’ampia e variegata flora e fauna caratterizza la regione che nel 1859 passò sotto il diretto controllo della Francia (diventando la Cocincina).

Durante il periodo coloniale francese la regione del Delta del Mekong fu soggetta a numerose opere di bonifica.

Ma durante l’ultimo conflitto (1960 – 1975) il Delta fu teatro di violenti scontri tra guerriglieri Viet Gong e truppe americane. Quest’ultime bombardarono pesantemente la zona usando spesso anche sostanze chimiche quali il Napalm ed il defogliante Orange, ma con scarsi risultati, in quanto i guerriglieri si rifugiavano all’interno di una fitta rete di tunnels a diversi metri di profondità (Cu Chi Tunnels).

E in tal modo i più sventurati furono i contadini ed i civili che abitavano in quei luoghi.

L’economia della regione ed il sostentamento primario della popolazione locale è rappresentato dall’agricoltura ( riso e frutta ), dalla pesca, e dall’acquacoltura (allevamenti di pesce).

In particolare il Mekong è famoso per la produzione del PANGASIO, un pesce di acqua dolce esportato in tutto il mondo.

Il principale scalo aereo del Delta è il nuovo aeroporto internazionale di Can Tho. Originariamente fu costruito dagli americani nel 1965 e durante la guerra del Viet Nam la struttura fu utilizzata sia dall’aviazione militare americana, che da quella sud vietnamita fino al 1975.

Il nuovo aeroporto è stato inaugurato nel 2011.

Partiamo da Saigon in Bus la mattina presto con meta BEN TRE (circa ottanta chilometri) fino a raggiungere l’imbarcadero che ci permette di salire su un vecchio battello che ci porterà fino nel fitto dei canali dove prenderemo una piroga molto più piccola per navigare nei meandri del fiume dove solo gli americani potevano illudersi di individuare “i ribelli”.

Oggi Ben Tre è diventata una piccola città ma è stata un famoso bersaglio della guerra americana e quasi totalmente distrutta dai bombardamenti.

Un ufficiale dell’esercito statunitense dichiarò ai giornalisti dell’Associated Press che “è stato necessario distruggere la città per salvarla”.

Disse che era l’unico modo per distruggere il Viet Cong che aveva preso Ben Tre come Base.

Questo fu anche il luogo dove nel 1959 avvenne l’assasinio di 12 soldati del Sud Vietnam, dando inizio alla terribile guerra.

Oggi è una tappa attraente per ammirare la vita di tutti i giorni nelle zone rurali del Sud Vietnam.

Ben Tre rimane un sito fuori dai sentieri battuti ed è una piccola città con una vita dinamica nel Delta del Mekong, famosa per gli alberi di cocco, piena di frutteti e “regno dei bonsai”..

Tuttavia sta anche cambiando molto rapidamente e gli Hotel cominciano ad apparire lungo le rive degli affluenti del fiume.

Anche in Viet Nam si può pagare indifferentemente con dollari americani o con DONG vietnamiti. I commercianti conoscono a memoria la conversione ed in banca ti danno circa 23.000 Dong per ogni Dollaro USA.

Va da sé che il cambio andrebbe eseguito un poco alla volta per evitare borsate di moneta asiatica-

La vita rurale tradizionale persiste oltre i massicci viadotti che si sono creati e oltre le vie di comunicazione a tre corsie.

Differentemente dal ritmo crescente, gran parte della campagna in questa provincia è però un paradiso adatto a tutte le attività turistiche.

E’ per questo che ci sono voluto ritornare.

Il 15 marzo, mercoledì parto dall’aeroporto internazionale TAN SON NHAT di Saigon per arrivare in un altro aeroporto internazionale, quello di Luang Prabang nel nord del Laos, il cui nome ufficiale è Repubblica Democratica Popolare del Laos.

Il Laos si trova nel sud-est asiatico e fino al 1954 faceva parte dell’Indocina francese, assieme alla Cambogia ed al Viet Nam.

Ha una superficie pari a quella italiana senza le due grandi isole, ma con una popolazione di soli sette milioni di abitanti.

Il Laos è stato da sempre foraggiato dalle grandi potenze mondiali, sia occidentali che orientali, prima dai francesi, poi dagli americani, e per finire ai vietnamiti, ai cinesi ed ai russi.

Insomma coccolato da tutti, forse come Stato cuscinetto fra potenze comuniste e quelle dell’ovest.

Il Pathet Lao, movimento politico laotiano di ispirazione comunista, nato nel 1950 con l’intento di liberare l’allora Indocina, sotto protettorato francese, è tutt’ora la denominazione ufficiale dello Stato Laotiano.

Dopo il 1954, con la disfatta dei francesi a Dien Bien Phu, furono gli USA che si presero carico di finanziare il Governo Reale Laotiano, nell’ombra, naturalmente, dopo che la Conferenza di Ginevra ne aveva dichiarata la neutralità.

Nell’aprile del 1975 dopo la caduta di Phnom Penh in Cambogia e di Saigon in Vietnam, nelle mani delle forze comuniste, il Pathet Lao costrinse i dirigenti politici ed i generali della destra a lasciare il Paese.

Tutte le città furono “liberate” pacificamente l’una dopo l’altra ed il Pathet Lao entrò trionfalmente a Vientiane, la Capitale, nell’agosto dello stesso anno.

Centinaia di ufficiali di grado elevato e di funzionari pubblici accettarono di essere internati in remoti campi, per un periodo di “rieducazione politica”, la stessa praticata nel Vietnam riunificato, convinti di rimanere al massimo per qualche mese.

Ma il Pathet Lao aveva altri progetti e tenne rinchiusi nei campi di rieducazione centinaia di queste persone, per diversi anni.

I laotiani furono costretti a partecipare ad interminabili “seminari”, indottrinati sulla visione del mondo del Pathet Lao.

L’inflazione aumentò vertiginosamente e fu introdotto il controllo dei prezzi.

Alla fine, più del 10 % della popolazione, compresi l’imprenditoria, l’aristocrazia e gli intellettuali fuggirono all’estero.

La conseguenza di questo esodo fu drammatico.

Lo sviluppo economico del Laos subì un grave rallentamento almeno per una ventina di anni ed il nuovo governo comunista dovette affrontare enormi problemi quando anche gli americani interruppero i finanziamenti nelle città del Mekong.

Un maldestro tentativo di pianificare la produzione agricola peggiorò ulteriormente la situazione.

Nel 1979 apparve chiaro che era necessario cambiare politica.

La popolazione potè finalmente lasciare le cooperative e coltivare le proprie terre.

Furono consentite le imprese private.

Ma anche ciò non fu sufficiente a rilanciare l’economia.

Alla fine il Partito si convinse ad aprire il Paese al libero mercato ed agli aiuti ed investimenti da parte di stranieri.

Il regime si stava lentamente aprendo alla democrazia ed all’inizio degli anni ’90 l’economia cominciò a riprendersi.

Oggi il turismo è un’industria in rapida crescita, ma la corruzione, che ancora esiste, rimane un problema rilevante e le leggi sono spesso disattese poiché la magistratura è sotto il controllo del Partito, ma fino al 1975 il Laos fu sconvolto dalla guerra civile che avrebbe insanguinato il Paese.

Il conflitto cominciò ad infuriare nel 1960 ed in breve si fuse con “la guerra del Vietnam”.

I nord vietnamiti iniziarono la costruzione del “sentiero di Ho Chi Minh”, che in buona parte attraversava la regione montuosa del Laos, per infiltrare rifornimenti alle truppe impegnate nella guerriglia nel Vietnam del Sud.

Il “sentiero” era un drammatico dedalo di camminamenti e gallerie sotterranee in cui per anni si svolgeva una vita “parallela” con la costruzione di strade, ospedali, officine, alloggi.

Tra il 1961 ed il 1973 il governo degli Stati Uniti combattè in Laos una guerra segreta, mai dichiarata e mai votata dal Congresso americano.

I lanci di bombe aeree divennero sempre più drammatici, ma gli americani negarono sempre di averli eseguiti ed i vietnamiti del nord, da parte loro, rifiutarono sempre di riconoscere l’esistenza di questo “sentiero”.

Ma questa è un’altra storia.

Il Laos mantenne dopo il 1975 una relativa tranquillità sociale e non rimase coinvolto nei drammatici conflitti che insanguinarono la vicina Cambogia.

Fonte invece di continua preoccupazione furono per il Governo le ripetute azioni di guerriglia messe in atto dai ribelli “hmong”, che ebbero supporto dai reduci della CIA americana e dai superstiti, in esilio, della famiglia reale.

Ad oggi la “rivolta hmong” non si è ancora definitivamente conclusa, nonostante gli accordi di pace siglati con il governo centrale.

Questi “ribelli” si annidano nelle montagne del nord-ovest del Laos e sono una costola dell’Etnia Hmong, da sempre irriducibile nemica del Pathet Lao.

Durante la guerra civile laotiana, la “Piana delle Giare”, un territorio collinoso situato nel nord-est del Laos e comprendente una serie di circa 90 Siti Archeologici, risalenti all’età del ferro, cioè circa nel 150 a.C., fu per diversi anni contesa fra le forze del Pathet Lao, spalleggiate dal Nord Vietnam e Unione Sovietica, e dall’altra dall’Esercito Reale Laotiano, finanziato dagli USA.

In tali Siti Archeologici vi erano e vi sono tutt’ora centinaia di giare in pietra arenaria con un’altezza variabile fra i 50 cm. ed i 3 m.

Le giare vennero avvistate nel 1909 ma gli scavi cominciarono solo nel 1931 e portarono alla luce resti umani ed offerte funerarie.

Sono urne cinerarie e non contenitori per alimenti o bevande, come attestato dai diversi archeologi che hanno preso parte ai ritrovamenti.

Al centro della Piana è stata esplorata una grotta naturale che fu usata come crematorio grazie a dei fori nella parte superiore, che funzionavano da camino.

Nel 1992 i Siti sono stati inseriti tra le candidature alla lista dei Patrimoni dell’Umanità.

Nel periodo in cui fu occupata dai cosiddetti ribelli del Pathet Lao, l’aviazione statunitense sottopose il territorio ad intensi bombardamenti tra il 1964 ed il 1973 per un totale di 580.000 raid aerei.

Circa il 30 % delle bombe lanciate non scoppiò nell’impatto e molte si trovano tutt’ora sul terreno e ancora causano gravissime menomazioni fisiche, in special modo a contadini o bambini che ritrovano questi congegni mortali, nei campi o in mezzo alla foresta.

Molti di tali ordigni sono le micidiali “bombe a grappolo”, che erano state da poco introdotte sul mercato.

Ad oggi solamente 7 su 90 Siti, dove si trovano le giare, sono stati bonificati dalle bombe ed aperti alle visite turistiche.

Gli Stati Uniti intrapresero la più grande campagna di bombardamenti aerea e le sue inaudite dimensioni, costrinsero nel 1964 le forze del Pathet Lao ad asserragliarsi nelle grotte di Vieng Xay, una fittissima rete di 486 cunicoli naturali che dettero rifugio a circa 23.000 ribelli.

Nei nove anni successivi, le grotte sarebbero diventate la base principale del Pathet Lao, fornite di tutto quanto necessario, compresa l’attrezzatura ospedaliera.

Le operazioni di dogana e rilascio dei visti per l’ingresso nel Paese, con presentazione di due fotografie già preparate, sono veloci, come in una batteria di montaggio.

Sono in sei, i militari che eseguono queste formalità, ciascuno con la propria mansione, ed il turista scivola da uno all’altro fino all’ultimo che gli riconsegna il passaporto timbrato.

La città di Luang Prabang, antica capitale del Laos, è racchiusa da una cerchia di montagne presso la confluenza di due fiumi, il Nam Khan ed il Mekong.

La città è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO e nel centro storico non possono circolare autocarri ed autobus, per cui nelle strade si incontrano soprattutto pedoni, ciclisti e monaci.

Benchè vi sia una folta presenza di visitatori stranieri, la città non è una destinazione per chi ama la vita notturna e dopo mezzanotte cala il silenzio.

I templi color oro e rosso violaceo sono circondati da palme silenziose, mentre numerosi monaci dalle tuniche arancioni sembrano fluttuare lungo le vie alberate.

Nel 1887 numerose milizie fuggite dalla Cina meridionale dettero vita ad eserciti mercenari ed a gruppi di banditi ed una di queste bande, l’Esercito delle Bandiere Nere, devastò Luang Prabang, distruggendo e saccheggiando ogni monastero della città.

In seguito a questo attacco, il regno di Luang Prabang decise di accettare la protezione dei francesi, che consentirono il mantenimento della monarchia.

La città divenne ben presto uno dei luoghi preferiti dai colonialisti francesi fino agli ultimi anni di vita dell’Indocina francese.

Nel corso delle guerre d’Indocina, dopo la disfatta dei francesi a Dien Bien Phu,

la città rimase una roccaforte monarchica riuscendo ad evitare i bombardamenti americani che distrussero tutte le altre città del Laos settentrionale.

Negli anni ’80 subito dopo la vittoria dei Nord Vietnamiti e quindi dopo la Riunificazione del Vietnam, vi fu un massiccio esodo di imprenditori, aristocratici ed intellettuali provocato dalla “collettivazione dell’economia”.

Luang Prabang, come tutto il Laos, divenne l’ombra di se stessa, priva di risorse economiche, fino al 1989 quando il governo legalizzò nuovamente l’impresa privata.

Vennero riaperti negozi che erano chiusi da anni e ville fatiscenti furono trasformate in alberghi e guesthouse.

Nel 1995 l’UNESCO ha inserito la città nei siti considerati Patrimonio dell’Umanità, accelerando questo processo di rinascita.

Ad oggi, la popolarità internazionale della città ha raggiunto livelli tali per cui in alcuni quartieri il numero delle guesthouse, dei ristoranti e delle boutique è addirittura superiore a quello delle abitazioni.

Dall’aeroporto, un taxi a tariffa fissa (5 USD) mi porta al Resort Le Vang Bua Villa.

La miseria del popolo è palpabile, ma c’è tanta buona volontà in tutti.

E’ già sera e mi faccio portare in centro al Night Market dove si accentrano migliaia di turisti al di più molto giovani.

Qui c’è una strada dove numerose bancarelle cuociono tutti i cibi al momento ed è strapiena di turisti affamati che per 1 USD si possono riempire il piatto fino all’orlo, con quattro o cinque pietanze diverse.

La moneta corrente è il Kip o il dollaro americano ed indifferentemente si può pagare con l’una o con l’altra, come in Cambogia.

Il cambio medio corrisponde a 10.000 Kip per 1 Dollaro.

Centinaia di altri banchi vendono tutte quelle cose che interessano il turista, come foulard in seta, arazzi, coperte ricamate, capi di abbigliamento, calzature, argenterie, borse, ceramiche, lampade in bambù, e molto altro ancora, ma la maggior parte “made in China”.

Anche qui un fiume di gente.

Alle 21,00 io crollo ed un taxi comune, per 3 USD mi porta al Resort facendo un lungo giro.

Potrei anche tornare a piedi attraversando il Nam Khan sul “Bamboo Bridge” un ponte di bamboo instabile e stretto, dove ci passano solamente i pedoni, ma sono troppo stanco.

Al mattino verso le 6,00 assisto alla processione dei monaci lungo la strada del mio Resort, per raccogliere le offerte di cibo.

Tutte le mattine, all’alba, monaci scalzi con delle tuniche arancioni camminano per le vie della città, mentre persone caritatevoli depongono piccole porzioni di riso glutinoso nelle ciotole usate per chiedere l’elemosina.

Si tratta di una pratica svolta nel silenzio e nella meditazione, attraverso la quale i monaci dimostrano i loro voti di umiltà e di povertà , mentre i buddisti laici possono conseguire meriti spirituali compiendo inginocchiati una donazione rispettosa-

Io ero l’unico turista ad assistere a questa esperienza, forse perchè sono defilati rispetto al centro città, ma purtroppo ne consegue che, nella “down town” , i “ricchi europei” stanno diventando più numerosi delle persone che eseguono questa usanza, ed i più, sempre invadenti e senza alcun rispetto, sembrano incapaci di non puntare le loro macchine fotografiche davanti al volto dei monaci, senza mantenere una certa distanza.

Mi piacerebbe molto domani proseguire il mio viaggio per il sud del Laos come feci qualche anno fa con i ragazzi, ma il tempo vola e voglio andare a riposarmi a Phuket.

Però mi ricordo ancora le terribili strade a sterro da percorrere per arrivare alla cittadina di Vang Vieng ed allora voglio qui ricordarla.

Un van privato, prenotato il giorno prima, ci porta a Vang Vieng, in cinque ore, inclusa una sosta pranzo, su e giù, attraverso montagne, valli, dirupi, pinnacoli in pietra calcarea, con dei panorami mozza fiato, coprendo una distanza di 185 kilometri e toccando villaggi rurali ad etnia mista khamu e hmong, dove iniziano i trekking fra le tribù di montagna.

A questi, però noi rinunziamo.

Intorno, attraversiamo alcune tra le alture più spettacolari del Laos.

A Kasi, una cinquantina di kilometri prima di arrivare a Vang Vieng, facciamo una sosta per il pranzo, al centro di una fertile vallata costellata di asciutte risaie.

La zona circostante è disseminata di piccoli villaggi e da alcune grandi grotte calcaree, ma ci dicono che in pochi si fermano perchè mancano le infrastrutture turistiche.

Arriviamo alle 15,30 ed in hotel, il Plaza Hotel, niente di speciale, ci danno le stanze con i bagni aventi il rosone della doccia al centro del soffitto, quindi allagamento sicuro.

Siamo vicino al centro e subito vi facciamo una bella passeggiata, prendendo anche due motorini a noleggio per girare domani.

La principale caratteristica ed attrattiva di Van Vieng è costituita dal suggestivo paesaggio che la contorna.

Gallerie e grotte inesplorate, pareti calcaree nei dintorni, sono un paradiso per gli speleologi.

Il Nam Song, il fiume che costeggia la città fa da richiamo ai numerosi appassionati di kayak e di turisti che solcano le acque del fiume su grandi camere d’aria colorate.

Il tubing, come viene chiamato questo sport, è diventato così popolare che Vang Vieng è diventata una tappa imperdibile per tutti i viaggiatori zaino in spalla in giro per il sud-est asiatico.

Tuttavia, ultimamente, la bellezza naturale della zona è stata sempre più oscurata da una Vang Vieng festaiola, e quindi i dintorni assomigliano ora più a parchi divertimento-rav all’aperto, con abuso di alcool o droghe.

Alla mattina si alzano in volo palloni aerostatici e piccoli alianti a motore, per il sollazzo dei turisti.

Questa tranquilla località è però anche il posto più pericoloso per i villeggianti che visitano il Laos. Ogni anno diversi visitatori perdono la vita a causa di incidenti sul fiume, problemi legati alla droga o nel corso di escursioni speleologiche.

Il termine “happy” (felice) ha assunto una connotazione completamente diversa da quella consueta, qui nel Laos.

Nei TV Bar di Vang Vieng la parola happy prima di “skake” o “pizza” o di qualunque altra cosa, non sta ad indicare l’aggiunta di succo di ananas.

In realtà, dopo questa ordinazione, il cuoco lascia cadere nel frullato o sulla pizza una generosa dose di “marijuana”.

Qualche volta al posto della marijuana vengono utilizzati funghi, yaba, metanfetamine oppure oppio, che però essendo più costosi vanno ordinati in modo più diretto.

Per molti turisti si tratta di cose risapute, ma sappiamo di viaggiatori che ignari di questa usanza, si sono ritrovati completamente su di giri dopo aver mangiato e bevuto, senza neppure sapere il perchè.

Col motorino, attraverso strade polverose ed accidentate, andiamo verso la grotta di Tham Sang che all’inizio del diciannovesimo secolo era utilizzata come rifugio contro i predoni cinesi dello Yunnan.

Detta anche “dell’elefante” è una piccola cavità che contiene alcune immagini del Buddha ed “un’impronta” del suo piede.

Si può vedere inoltre la stalattite dalla vaga forma di elefante, che ha dato nome a questa grotta.

Attraversiamo poi piccole distese di risaie, tutte asciutte, fino ad arrivare nella “Blu Lagune”, piena di gente, grandi e piccoli, ove in una grande pozza d’acqua i più coraggiosi si tuffano dall’alto degli alberi, alcuni alti fino a nove o dieci metri.

Più su nella foresta, dopo una salita abbastanza faticosa vi sono 12 postazioni di “zipline”, per il “volo sulla giungla”, ponti di corda e carrucole che trasportano i turisti legati ad una imbragatura attraverso la foresta ad altezze che superano i cinquanta metri da terra.

Con i motorini ci siamo tutti e tre riempiti di polvere e rinunziamo ad andare avanti per raggiungere altre grotte.

A sera riconsegniamo i motorini al noleggiatore, che ieri avrebbe voluto avere in cauzione e deposito il passaporto, e gli abbiamo invece consegnata solo la nostra patente.

Dopo poco riempiamo la nostra doccia di mota e fango rosso.

I vestiti, tutti, scioccolati dalla polvere, e da lavare.

Il nostro albergo è strapieno di cinesi.

A tutte le ore di giorno e di notte fanno casino, urlano, sbattono porte, scatarocciano come è loro abitudine, quando camminano non si scansano, ti investono imperterriti e sono di una maleducazione planetaria.

Però loro sono più di un miliardo e noi siamo in minoranza.

Finchè siamo nei loro territori bisogna subire questo loro comportamento.

Quando verranno in Europa poi…..uguale.

Il nostro albergo a Vang Vieng, il Plaza Hotel, nome altisonante, è grande, è un casermone. Il gestore dice che è nuovo ma io non ci credo.

La struttura è stata parzialmente rifatta ed adeguata ad albergo.

Ha le caratteristiche inconfondibili degli edifici di regime, comunista in questo caso.

Probabilmente prima era una prigione, notando il grande cavedio protetto da griglie sul quale si affacciano le camere.

La manutenzione è assente.

Alcuni scarichi dei bagni sono intasati, le pareti sono sottilissime.

Se uno starnutisce, quello accanto, dall’altra parte si bagna.

Ogni rumore è amplificato.

Porte che non chiudono se non sbattendole.

Salone deprimente per la prima colazione, nello stesso luogo ove c’è il ricevimento degli ospiti.

Nella cucina, accanto alla sala del breakfast, alcune donne lavano le stoviglie per terra dentro a dei grandi catini.

Non hanno un lavello o una lavastoviglie industriale.

L’hotel non ha né bar, ne ristorante, però è catalogato come 4 stelle.

Insomma un edificio raffazzonato, che ricorda molto quelli della DDR in Germania, regime comunista, prima dell’abbattimento del muro di Berlino nel 1989.

Del resto il Laos dipende tutt’ora dalla Cina e dal Vietnam, regimi comunisti.

Ma tutti sono molto contenti e beati.

Lo staff invece è efficientissimo.

Si prodiga in tutte le maniere.

Il Capo cerca di porre rimedio a tutto, ci chiede se siamo soddisfatti, correndo di qua e di là e tutti sono gentilissimi.

Ma questa non è una corsa.

Ed è una lotta contro i mulini a vento.

Colazione che più misera non si può.

In un Paese ove la frutta è una risorsa naturale nell’economia nazionale, ci sono due piccoli piattini, uno con dei pezzettini di cocomero e l’altro con dell’ananas.

Naturalmente sempre vuoti per l’arrivo delle orde di Khengis Khan.

La colazione comprende anche il caffè ed il succo d’arancia ma anche queste brocche sono sempre vuote.

Devi gridarlo in cucina ed allora assieme a due uova al tegamino te li portano al tavolo.

Quindi tanta buona volontà, ma sempre residenza di regime.

La piscina, non molto grande e situata in posizione infelice, all’ingresso dell’albergo, è sporca e sempre piena di foglie.

Mi ripeto, il rosone della doccia al centro del bagno.

Allagamento ogni volta che si usa.

Architetto cretino e non temo smentite.

L’unica recensione decente che possiamo fare su Booking riguardo questo hotel, per agevolare il gestore e lo staff, è non farla.

E questo è il mio ricordo di VANG VIENG

Oggi è Venerdì 17 Marzo e contro tutti gli scongiuri della data inizia il mio lungo viaggio per raggiungere Phuket, l’isola più grande della Thailandia, dove mi potrò riposare per una settimana prima del mio ritorno in Italia.

Phuket

Le uniche forme di guadagno, fino a qualche decennio fa, per gli abitanti dell’isola di Phuket, erano le piantagioni delle noci di cocco e gli alberi della gomma.

Alla fine degli anni 70, Phuket è prima diventata mèta di saccopelisti senza troppe pretese, e poi residenza per il turismo di massa, con l’ingrandimento dell’aeroporto, diventato internazionale, ed investimenti sempre maggiori, facendola diventare la seconda provincia thailandese più ricca, dopo Bangkok.

L’isola è lunga pressappoco una sessantina di chilometri per una larghezza media di quindici ed al largo delle sue coste vi sono 32 isole minori, una più bella dell’altra.

Ultimamente, con Gianna ed i ragazzi, assime a Giorgio Thai abbiano visitato le più vicine a Phuket , nella sua barchetta, le Racha.

Koh Racha è composta da due isolette a 12 chilometri a sud di Phuket , Racha Yai, la grande e Racha Noi, la piccola.

La Noi, attualmente è disabitata e la Yai di recente si è evoluta con la creazione di un numero sempre crescente di bungalow e resort disponibili.

Nell’isola, paradiso per gli appassionati di diving e snorkeling, non vi sono strade né macchine, ma si trova ogni comodità come ristoranti sul mare, internet, telefono, spiagge con ombrelloni.

Koh Yai è conosciuta anche come l’isola dei varani, ma piccoli ed inocui.

L’isola di Phuket è collegata alla terraferma dal ponte SARASIN e si trovava, nei tempi non recenti, su una delle principali rotte commerciali tra India e Cina.

Un tempo la sua ricchezza derivava dalle miniere di stagno e dalla produzione di caucciù con l’incisione dell’albero della gomma

Ora dal Turismo.

Alla fine dell’anno 2004 Phuket ed altre aree della costa occidentale hanno subito gravi danni quando sono state colpite dallo tzunami, causato da un terremoto al largo di Sumatra in Indonesia.

A Phuket sono stati segnalati circa 250 morti, compresi turisti stranieri.

Dopo un paio di anni, ritornato in zona, ho notato che era già tutto ricostruito, solo le palme erano piccole perchè appena messe a dimora.

Nel 2020 la Pandemia Covid-19 ha combinato un’altro bel disastro economico, bloccando il novanta per cento del turismo, duramente compito, e con migliaia di persone ritornate o scappate al proprio paesello abbandonando attività ed imprese, e molti imprenditori ancora adesso non hanno ripreso il loro cammino.

Ma nel dicembre 2022 , terminato il blocco restrittivo, è lentamente iniziata la fase post pandemia che a tutt’oggi sta di nuovo riempiendo l’isola di maree di turisti.

L’isola di Phuket si trova nel Mare delle Andamane, nel sud della Thailandia ed è prevalentemente montuosa o meglio collinosa . Ma nella parte occidentale ha diverse spiagge sabbiose per il godimento e la felicità di parecchi turisti.

In particolare, in questo periodo, russi, russi, russi in quantità industriale.

Ovunque tu vada vedi russi, giovani, accompagnati solitamente da mogli bellissime e tanti, tanti bambini.

Mi raccontava un mio amico albergatore italo-thai, che già verso Natale 2022 sono cominciati ad arrivare , prima i mariti da soli e dopo qualche settimana le mogli con i piccoli.

E il percorso per arrivare non è stato semplice. Dalla Russia in Kazakistan o Turkmenistan, poi Cina o Vietnam e infine Phuket.

Naturalmente provengono dalle grandi città e con molta probabilità sono tutte persone benestanti , sfuggite alla chiamata alle armi per la guerra russo – ucraina.

I poveri saranno ancora là e rimasti a combattere, come è sempre successo.

Bene, i russi li noti subito.

I più, con fisico palestrato, con accanto donne altrettanto “a piombo” e caratteri somatici impropriamente chiamati “slavi”.

Insomma, non me lo spiego, ma io un russo, o almeno quella che scegliendo fra le numerose etnie sembra “una specie di bolscevico” di una volta, lo riconosco subito.

Di solito non amano sorridere, né salutare se non quando debbono forzatamente rispondere.

Sono per lo più avvezzi al freddo, perché a Phuket, notorio posto con temperature abbastanza elevate, torso nudo, braghette corte ed infradito ai piedi.

Sempre, per la strada, nei seven eleven, nei family mart, nei caffè (da poco a Phuket hanno scoperto che i turisti amano il caffè), nelle “osterie” e dentro ai ristoranti anche più esclusivi.

Un po’ di decoro, neanche parlarne.

Tutti soddisfatti, masticano quel po’ d’inglese per non morire di fame e per farsi capire dagli indigeni e quando pagano tirano fuori dei rotoloni di Bath, la moneta locale, che per loro sono una vera manna.

Alcuni anni fa, una decina, li avevo adocchiati in Vietnam, e così come allora, i menù nei ristoranti, ma anche nella bancarelle o negli street food, erano tradotti in inglese ed in russo. I thailandesi sono del gruppo mongolide, mica sono mongoloidi.

Una cosa però l’hanno imparata subito.

Guidare il motorino (ce ne sono a migliaia in giro), senza casco (che sarebbe obbligatorio, ma non ci sono i controlli) e con il figlio fra il conducente ed il passeggero che di solito è la moglie.

Se poi i ragazzi sono due, uno sta davanti con i piedi sul predellino e le mani sul manubrio. E tutti beati e felici, stì buzzurri.

Ora la Thailandia sta facendo guerra al fumo.

Cartelli ovunque con il divieto di fumare e particolarmente vietate sono le sigarette elettroniche.

Divieti nei giardini, nelle spiagge, vicino alle scuole , nel bar e ristoranti, anche all’esterno. I russi imperterriti si siedono e accendono la sigaretta. E più ancora coglioni i thailandesi che subito portano il portacenere.

Non vorrei, ma non è detto, che a Phuket succeda ciò che è accaduto a Pattaya una ventina di anni or sono.

Perché da quando il vecchio Gorby è stato silurato e la Santa Madre Russia è diventata quel gran casino che è oggi, a Pattaya si è verificato un fenomeno che dai ricchi thailandesi è stato salutato come la manna dal cielo: sono arrivate le russe!!!!!

E così adesso si possono togliere la soddisfazione di frullare delle donne farang, che fino a pochi anni fa era un sogno proibito.

E questo penso che lenisca non poco anche l’incazzatura sotterranea che sicuramente dovevano avere, per il fatto che invece, i maschietti farang, con le fanciulle orientali, per un motivo o per l’altro, hanno sempre avuto un discreto successo.

Ciò è buono anche per le russe, che hanno visto salire le loro quotazioni.

Purtroppo per loro però, a differenza di quanto avviene con le thailandesi, al loro seguito è arrivato un nutrito drappello di mafia russa, e quindi credo che la maggior parte di quei baht finisca nelle tasche di qualche Don Calogero moscovita (il quale sicuramente non si limita a “multare” gli sgarri).

Ciò è molto visibile.

Infatti a Pattaya i russi vivono in una specie di circuito chiuso che ha le caratteristiche di un ghetto.

Hanno i loro bar, i loro alberghi e i loro ristoranti (con le regolamentari scritte in cirillico). Quando mettono il naso fuori, sono estremamente malvisti.

Gli albergatori, a meno che non siano russi essi stessi, quando vedono un passaporto dell’ex Unione Sovietica, dichiarano il tutto esaurito.

Tutti i russi a Pattaya sono considerati mafiosi e visti come il fumo negli occhi.

E con ragione, perché uno dei loro divertimenti principali, quando vanno di sera in qualche altro locale che non sia dei loro, è quello di ubriacarsi e poi innescare una rissa da Far West, con tavoli, sedie e bottiglie che volano.

Una volta tanto parteggio per i poveri, piccoli poliziotti thailandesi i quali in questi casi, dopo che sono riusciti con fatica e con rischio (in sette o otto) ad acchiappare uno di questi giganti biondi, alti due metri e pesanti cento chili, lo mazzolano di santa ragione, prima di portarlo in caserma per spiegargli che non deve rompere i coglioni.

Spero con questo di essere riuscito a comunicare un po’ di confusione,

e se è così, ho raggiunto il mio scopo.

In Oriente infatti c’è da preoccuparsi quando qualcosa sembra chiaro.

Alla base di questa chiarezza c’è molto probabilmente un equivoco.

Se invece un fenomeno appare incasinato, inspiegabile e contraddittorio, be’…….di solito si è sulla buona strada, se non per capire, almeno per “constatare” come funzionano le cose.

Per tentare una razionalizzazione occorre ampliare moltissimo la visuale e fare un’analisi dettagliata di tutta la società thailandese, della sua storia, dei rapporti tra le sue varie componenti, nonché delle complesse interazioni con il resto del mondo.

Ci si trova poi inevitabilmente a fare le pulci a tutto il pianeta e si finisce, come spesso accade in questi casi, a parlare di aria fritta.

Speriamo solo che questo a Phuket non accada.

Ieri sono andato in giro per l’isola con una vettura presa a nolo.

Su e giù per le montagne “russe” per arrivare da una spiaggia all’altra, sulla costa occidentale.

Le strade sono buone e tenute bene, ma di una ripidità incredibile.

Alcune superano il 25 per cento di pendenza con tantissimi motorini in giro, come detto poc’anzi. Poi, quando si scollina, si gode di un panorama incantevole.

Per strada vedo una thailandese un po’ bruttina che esce di casa in vestaglia e ciabatte per andare a gettare la spazzatura. Non appena vede il camion dell’immondizia corre per raggiungerlo e buttare il suo sacchetto. Arrivata vicino al mezzo, chiede allo spazzino:
“Sono arrivata in ritardo?”.
E l’autista: “No, no signora, salti pure su !”.

Oggi, invece, faccio parte di una gita, la più classica e turistica, in battello con partenza dal porto di Phuket : andata e ritorno verso le PHI PHI ISLAND.

Si tratta di due isole spettacolari in un arcipelago costituito da sei isolotti di cui solo due risultano abitati.

Manco a dirlo il novanta per cento dei passeggeri è russa.

Queste isole si trovano rispettivamente quaranta chilometri a sud di Krabi e quarantotto chilometri ad est di Phuket e sono diventate molto famose dal 1999 quando hanno prestato la propria bellezza al film “THE BEACH” con Leonardo Di Caprio.

Oggi, Koh Phi Phi Don (abitata) e Ko Phi Phi Leh (disabitata) sono diventate un fiorente centro del turismo thailandese su cui si affacciano le magnifiche MAYA BEACH e LAGOON BAY.

Le Phi Phi, nonostante che la massa di turisti le abbiano fatte diventare “un porto troiaio” da una moltitudine di persone , impazzite di gioia, per essere giunte in questo posto magico, il turismo non ha fatto ancora sparire tutto ciò che può essere assimilato al concetto di paradiso naturale.

Scogliere spettacolari a picco su un mare verde smeraldo, spiagge bianche con soffice e finissima sabbia, barriera corallina senza paragone e con fondali all’insegna della ricchezza e biodiversità marina, perfetta per immersioni e snorkeling.

Koh Phi Phi Don (Koh vuol dire isola), ove sbarcano i turisti, è in realtà costituita da due distinte isole collegate tra loro da una doppia baia perfettamente simmetrica.

Nel terreno tra le due baie vi sono beach resort, guesthouse, internet cafè. ristoranti, negozi e centri diving.

E’ il teatro di esotici beach party e di una frizzante vita notturna.

Qualche decina di minuti prima di arrivare alle Phi Phi ci fermiamo accanto a delle caverne e grotte su minuscole isole di roccia, che caratterizzano questo paesaggio.

Negli anfratti delle pareti interne, una rondine molto particolare forma il nido dove allevare i piccoli, usando la propria saliva.

Scalatori esperti costruiscono impalcature di bambù e salgono pericolosamente fino ai nidi per asportarli.

Sto parlando dei “NIDI DI RONDINE” che i cinesi tradizionalmente usano da secoli e che costituisce una delle più prestigiose abitudini della cucina e medicina cinese.

I cinesi li consumano con un brodo caldo (e mi dicono anche insapore), dove vengono sciolti i filamenti.

De gustibus …..

Torniamo a terra e la serata la trascorro a casa di Giorgio Thai dove Moon, sua moglie, ci prepara le orecchiette al tonno, preparato e conservato da lei stessa, e tre pescioni cucinati al cartoccio.

Poi un’altra ora di considerazioni geopolitiche e dopo aver riassestato il mondo intero, Giorgio mi riaccompagna alle Villas.

Domani ritorno in Italia

Per la strada di ritorno, in un praticello un po’ discosto dal mare, troviamo un pastore che ha due pecore, una nera e una gialla, e incuriosito chiedo al pastore:” Salve pastore, che belle pecore che hai, ma quale mangia di più la nera o la gialla?”

“La nera”, risponde.

“E quella gialla?”, “Eh anche quella gialla”.

Disorientato ci riprovo: “E quale beve di più la nera o la gialla?”

“La nera” risponde

“E quella gialla?”, “Eh anche quella gialla”.

“Pastore, e quale bela di più la nera o la gialla?”

“La nera”, nuovamente ripete.

“E quella gialla?”, “Eh anche quella gialla”.

“Pastore e quale si muove di più la nera o la gialla?”

“La nera”,

“E quella gialla?”, “Eh anche quella gialla”.

Spazientito chiedo al pastore:”Scusa pastore ma perchè dici sempre quella nera, e poi eh anche quella gialla?”

E il pastore: ”Perché quella nera è mia”

“E quella gialla?”, “Eh anche quella gialla”.

E per terminare, un piccolo curioso aneddoto.

Sono all’aeroporto internazionale di Phuket per iniziare il mio lento e lungo ritorno in Italia. Primo step, volo Phuket – Bangkok.

Eseguo il chek-in e mi avvio nei saloni degli imbarchi aerei, prima però debbo oltrepassare la security.

Bisogna quasi spogliarsi del tutto, qualche volta richiedono anche di togliersi le scarpe e di farle passare attraverso il tunnel raggi X assieme a telefonini, portafogli. computer, cinture calzoni, borse, zainetti e quant’altro non necessario al decoro corporeo del passeggero.

Io passo sotto “le forche caudine” (ma i Thai sicuramente non sapranno cosa erano), senza alcun suono ad indicare oggetti metallici, ed aspetto l’arrivo delle vasche con l’altra roba depositata poc’anzi.

Ma due addette alla sicurezza, in divisa, prendono il mio zaino, che era stato fermato qualche secondo dentro al tunnel, me lo portano davanti e mi chiedono di aprirlo.

Eseguo e le vedo rovistare e tirare fuori tutto il contenuto.

Poi lo palpano nuovamente e sentendo qualche cosa di duro, aprono una piccola cerniera all’interno e tirano fuori una piccola scatoletta rossa.

La aprono, prendono in mano il contenuto, e sospettose mi chiedono cos’è.

Allora la prendo dalla mano della gendarme, l’avvicino alla mia bocca, ed eseguo un concerto country del tipo “Oh Susanna” .

Prima meraviglia di tutti gli astanti e poi applausi graditissimi.

E così anche la mia fidatissima armonica a bocca Hohner -Piccolo, ha avuto la sua giornata di gloria.

Ecco ora sono sul volo della Etihad che mi riporterà indietro, in Italia.

Non credevo di riuscire a concludere il programma che tutto sommato è stato anche abbastanza faticoso.

Ma eravamo d’accordo così con Gianna, e debbo dire che mi ha fatto anche molta compagnia ed è stata contenta di rivisitare quei luoghi che anche lei ha tanto amato.

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Pubblicato da
Marco

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