Colpiti al cuore e… un po’ fuori di testa! Cosa vuol dire? Semplicemente che stiamo facendo una cosa fuori dell’ordinario, almeno per “A, B, C, solidarietà e pace – ONLUS”: stiamo tentando di mantenere il numero di giovani affidati a qualunque costo, anche chiedendone altri senza prima avere sentito, come facciamo di solito, i vecchi sostenitori se vorranno affidarne un altro o lasciare il progetto. Proseguiranno? Speriamo di sì.
Oggi, tra Serbia e Bosnia, siamo a quasi 600 bambini (595 per l’esattezza), due anni fa erano 700. Stiamo tentando di fare questo perché c’è ancora bisogno di aiuto.
Non possiamo dimenticare alcune cose: quanto è accaduto a quella gente è anche colpa nostra; sono nostri vicini e un braccio di mare di divide da loro; ci amano, nonostante tutto; hanno passato un sacco di guai e ancora ne passano.
Non sappiamo quello che sarà possibile fare nel futuro prossimo. Dipende da voi, dalla vostra volontà di continuare a sostenere il progetto di affido a distanza di giovani serbi e bosniaci; dalla nostra capacità di comunicare come stanno veramente le cose.
Ora cominciamo a raccontarvi
Domenica 16 – Siamo a Backa Topola, in Vojvodina. Seduti davanti al televisore, in casa di amici, facciamo lezione di Politica. Vediamo scorrere sul piccolo schermo le immagini di quelli che saranno i protagonisti delle elezioni presidenziali del 13 giugno. Il favorito, Tomislav Nikolic del Partito radicale serbo (per intenderci quello di Seselj, in prigione all’Aja) accreditato, secondo uno degli ultimi sondaggi, con il 29,9% dei voti; Boris Tadic (18,8%) del Partito democratico (quello di Zoran Djindjic); Dragan Marcicanin, buon ultimo, il “Signor nessuno”, come lo hanno ribattezzato alcuni giornali serbi, candidato di governo del Partito democratico serbo (quello di Kostunica). Si attaccano tra loro e ognuno parla male dell’altro. I problemi sono tanti, enormi! Riusciamo a capire che l’attuale governo, di minoranza, è formato dal DSS (Partito Democratico Serbo, conservatore), dal G17 (centrista liberale) e dal SPO (Movimento per il Rinnovamento Serbo, monarchici conservatori), il tutto con l’appoggio esterno del SPS (Partito socialista serbo, quello di Milosevic). Kostunica, nonostante il numero limitato dei seggi ottenuti (il primo partito alle ultime politiche dello scorso dicembre è stato Il Partito Radicale Serbo, ultranazionalista, che ha conquistato 82 dei 250 seggi del parlamento serbo, mentre il secondo, appunto quello di Kostunica, ne ha presi 53 e quello del defunto Djindjic 37), è stato capace di assicurare al suo partito nove ministeri su 17 e controlla cose importanti come economia, polizia, scuola ed esercito. Anche a Backa Topola si usa fare lo “zapping” e così ci ritroviamo sulla rete (una delle due che ha) di Bogoljub Karic, candidato outsider alle presidenziali e uomo più ricco della Serbia, proprio nel momento in cui nomina il partito che, comunque andranno le presidenziali, intende fondare: “Napred Serbia”, vale a dire: “Forza Serbia”. Sentiamo nominare anche il nostro primo ministro, Silvio Berlusconi, quando, rispondendo alla domanda di un giornalista, Karic dice: “ci somigliamo”.
I politici hanno i macro-problemi da risolvere, la gente comune, invece, deve confrontarsi con i maxi-problemi quotidiani. Quali? Semplificando, pane e lavoro. Ce ne rendiamo conto quando cominciamo il nostro giro nelle scuole e nelle fabbriche per consegnare le borse di studio.
Lunedì 17 – La nostra prima tappa è Kriavaja, una scuola ad una decina di chilometri da Backa Topola. Tutti, come sempre, gentili e cordiali. Ci aspetta una sorpresa: tre fratellini, Nicola Gianluca (10 anni), Stefano (9) e Cinzia (8), oriundi italiani. Mamma serba e padre italiano (evidentemente molto prolifico, in tre anni tre figli). Mamma ora in Serbia, sola e povera e senza alcun aiuto, papà italiano “riparato” chissà dove. Situazione disperata, come tante altre. Non possiamo fare finta di niente anche perché restiamo interdetti a sentirli parlare italiano! Li aiutiamo in qualche maniera. Le cose non sono quasi mai semplici e le emergenze si rincorrono, così, nella scuola ungherese “Caki Lajos”, veniamo a sapere che c’è un bambino pressoché denutrito. Ma perché non ci pensano loro? Ci pensano, ma i casi sono tanti e se possono coinvolgere qualcun altro, tanto meglio. E’ giusto! Interveniamo anche qui. Pensiamo: è un bambino serbo-ungherese (ne abbiamo affidati anche altri) e, nel “piccolissimo”, vogliamo dare il nostro contributo al dialogo tra la comunità ungherese e quella serba in una cittadina, Backa Topola, e in una regione, la Backa (che insieme alla Srem e alla Banat forma la Vojvodina), che si stanno complicando la vita. Infatti, le forze autonomiste sono aumentate, tanto che nello scorso aprile hanno organizzato una “convention” con lo scopo di formare una coalizione unitaria in vista delle prossime elezioni locali. Cosa chiedono? Alcuni di andare, con tutta la terra, in Ungheria, altri si rivolgono alla comunità internazionale perché difenda le ambizioni della provincia autonoma a divenire “una moderna regione europea”, mentre i serbi, la maggioranza assoluta, cominciano a temere la vichiana teoria dei corsi e ricorsi storici, anche perché la ferita del Kosovo è ancora aperta. Non vogliamo interferire in nulla, non è nel nostro modo di lavorare, ma, alla prima occasione, vorremmo chiedere alla direttrice della “Caki Lajos” perché va in Ungheria a comprare i libri scolastici per i suoi alunni quando ce ne sono di serbi, naturalmente in ungherese, ottimi. In questo contesto, sarebbe anche interessante capire perché il governo ungherese eroga crediti agli ungheresi in Vojvodina per consentirgli di comprare le aziende serbe che con la privatizzazione sono in svendita. Chi ha ragione? Tutti e nessuno, come il solito.
Anche con i bambini funziona così. Ci sono cose incomprensibili che ormai accettiamo rassegnati: la mamma di una bambina, di nome Jelena, rifiuta la nostra offerta di far controllare da un dermatologo la sua piccola che ha la guancia sinistra rovinata da una dermatite o da un angioma. Ci dice semplicemente e graziosamente: “No grazie!”. Perché? Sembrerebbe appartenere ad una non meglio identificata setta (forse quella del “Golgota”? Alcuni dicono sovvenzionata da servizi segreti occidentali) che gli ha insegnato la rassegnazione, ad accettare quel che arriva dal Cielo, in questo caso, probabilmente, le conseguenze ambientali dell’inquinamento da bombardamenti o dell’acqua inquinatissima e che si insinua dappertutto del Canale grande di Backa, parte integrante dell’idrosistema Danubio-Tisa-Danubio, che non si riesce a bonificare per un conflitto di competenze, anche se il governo norvegese ha già stanziato un milione e mezzo di Euro per l’opera di risanamento.
Martedì 18 – Andiamo a Nov Sad, alla scuola “Svetozar Markovic Toza”. Novi Sad, seconda città serba e capoluogo della Vojvodina, presenta un quadro politico opposto a quello nazionale: sono i Ds (quelli di Diindjic, per intenderci) a governare, mentre chi gestisce il governo centrale qui è all’opposizione. La Vojvodina, e in particolare Novi Sad, è un po’ il bastian contrario dl Paese: il partito di maggioranza relativa a livello nazionale, i Radicali, qui è stato emarginato con successo, ed anche i Dss, che governano insieme con altri il Paese, sono all’opposizione. Sarà forse perché tre dei sessanta ponti bombardati sono a Novi Sad o per il loro carattere? L’”infarto” fluviale, come qualcuno chiama il danno economico causato dallo sprofondamento di sei ponti sul Danubio, ha complicato la vita un po’ a tutti: ai serbi, per ovvi motivi; agli ungheresi, perché sono costretti a far fare a grano e mais assurdi itinerari via terra; da tedeschi e austriaci, perché non arrivano più, dall’Ucraina e dalla Romania cemento e materiale siderurgico.
Comunque: a dicembre, grazie soprattutto agli aiuti dei paesi “danubiani”, saranno ultimati i lavori al ponte della Libertà. Gli altri ponti? Uno è finito e il terzo è in progetto. Ancora oggi, il ponte provvisorio che unisce la collina all’università, ogni due giorni, è aperto per consentire il passaggio delle chiatte con i loro carichi.
Arriviamo davanti alla scuola. Abbiamo una foto fatta pochi giorni dopo i bombardamenti (maggio ’99) dove si vedono i danni causati da una bomba impazzita. Un’auto con le ruote verso il cielo ribaltata dallo spostamento d’aria ricoperta di terra. Dietro, le finestre dissestate della scuola. Cerchiamo lo stesso luogo e facciamo una foto, il prima e il dopo, il passato, da non dimenticare, e il presente da cambiare.
Il direttore, Dragan, lentamente sta cominciando ad apprezzare la nostra presenza. S’intrattiene a parlare con noi e ci accompagna a visitare la scuola. Arranchiamo dietro di lui arrampicandoci sui due piani dell’edificio: aula di fisica, di chimica, tecnica, inglese, ungherese, lingua madre, ecc. E’ orgoglioso e frettoloso! Sempre meglio del freddo distacco di due anni fa quando subentrò al signor Milorad costretto a fare un bel salto indietro “degradato” a fare il maestro! Ci accompagna persino all’esterno della scuola per mostrarci il luogo dell’esplosione della bomba e racconta che ha aperto un cratere con un diametro di 15 metri. Le aule di chimica e fisica ne portano, ancora oggi, i segni. Distribuiamo le quote ed una bambina, alla domanda cattiva “cosa farai con la borsa di studio?”, risponde: “ho promesso ad una mia amica di pagargli il gelato”. Servono altre parole? Si parte subito per Belgrado.
A Belgrado approdiamo dopo due ore. Belgrado è caotica, ed anche la scuola non si sottrae a questa testimonianza di vita. La scuola è nel sobborgo di Rakovica dove, il 17 aprile 1999, in una notte di “intenso fuoco” fu bombardata una caserma che sorgeva in mezzo alle abitazioni, a poche decine di metri dalla scuola “Nikola Tesla”. Per non fare aspettare i genitori già raccolti in una grande aula andiamo subito a consegnare le borse di studio. Riconosciamo quasi tutti. Qui, come sempre, non riusciamo a sottrarci alle tradizionali mini-controversie: alla fine della distribuzione delle borse di studio si presentano delle mamme e dei papà di ragazzi ormai usciti dal progetto. Più o meno consapevolmente, e comunque comprensibilmente, come diciamo a Roma, “ci provano”. Spieghiamo loro che non abbiamo il denaro e non possiamo consegnare loro alcuna quota. Lo sanno e, con cordialità, nonostante il diniego, ci salutano e se ne vanno. Andiamo nell’ufficio del direttore.
C’è anche una vecchia amica di ABC, che ha avuto importanti responsabilità nel dicastero della Sanità serba. Cominciamo a parlare con il direttore e definiamo tutte le situazioni lasciate in sospeso a novembre. Molte famiglie sono state costrette a cambiare casa ed è stato impossibile rintracciarle, altre verranno la prossima volta. I problemi non mancano. Ne parliamo tutti insieme. La vita è difficile, i prezzi sono stabili (inevitabilmente), ma la vita delle famiglie è sempre più difficile e, anche se l’infazione è sotto controllo e in tre anni è scesa dal 40,7% del 2001 al 7,8% del 2003 (dati ufficiali della Banca Nazionale Serba), chi si alza la mattina e deve mangiare non è confortato da questo dato. Ci sono, infatti, sempre meno soldi e, da un documento della Banca che ci siamo portati dietro, emerge un elemento molto negativo: rispetto al 2002 la percentuale dei disoccupati è aumentata dal 31,2% al 33,9% della forza lavoro (in realtà è di almeno il 40% con punte pià alte in alcune aree del Paese). Troveremo conferma di questi dati a Kragujevac dove arriviamo la sera.
Mercoledì 19 e giovedì 20 – Siamo a Kragujevac. Abbiamo l’intenzione di cercare dati precisi sulla situazione sanitaria dei lavoratori, che sono poi i papà e le mamme di tutti i ragazzi affidati. Non ne troviamo. C’è “legittima reticenza” e chi promette documenti (analisi e altro) ci delude. Pazienza! Abbiamo notizia, verbalmente, che i morti ci sono e che le malattie sono in aumento. Spesso, nel giro di un mese, si svelano patologie letali e piccoli manifesti mortuari tappezzano gli alberi che conducono al cancello della Zastava. Riusciamo però, in ogni caso, a trovare il testo trascritto e tradotto di un’intervista, andata in onda sull’emittente serba B92 il 15 aprile scorso, fatta ad alcuni operai che hanno partecipato al risanamento della Zastava. Dragan Stojanovic, responsabile di una delle équipe che ha partecipato alla bonifica della fabbrica, spiega che la rimozione delle macerie è stata fatta senza alcuna precauzione e che in un mese ci sono stati sei funerali. Paunovic, invece, è stato operato ed ha un polmone in meno. Con i 4.500 dinari (circa 65 euro) del sussidio deve sopravvivere e comprare le medicine. In tutto questo, asseriscono entrambi, l’aspetto che dispiace di più è che l’azienda non riconosce l’esistenza di questi problemi e si defila da qualsiasi sostegno agli operai che hanno avuto patologie derivate dal lavoro all’interno della fabbrica. Dice Matic: “se l’uranio si può bere come una limonata io mi scuserò”. Ma, evidentemente, l’uranio delle bombe non è limonata anche perché, non a caso, lo scorso novembre siamo stati testimoni diretti della presenza di una delegazione dell’UNEP (United Nations Environmental Programme, Programma Ambientale delle Nazioni Unite). La commissione dell’UNEP cosa faceva a Kragujevac? Era in ferie? Probabilmente ha ragione Knut Krusewitz, professore all’università di Berlino di Pianificazione ambientale, che ha tentato, inascoltato, di spiegare al mondo quello che era accaduto, contrapponendo la sua relazione a quella dell’UNEP. Riportiamo soltanto le ultime righe del suo lavoro: “si tratta del significativo danneggiamento delle risorse naturali ed economiche, in un caso per lo sprigionamento di PCDDs (la diossina di Seveso) e, nell’ altro, per l’effetto di prodotti radiotossici e chemiotossici derivati dalla disintegrazione delle munizioni all’uranio impoverito. I cancerogeni saranno immagazzinati prevalentemente nei prodotti agricoli e, al 95%, introdotti nella catena alimentare”. Siamo propensi a dare ragione a lui e all’operaio Matic: l’uranio e la diossina non sono limonata.
In due giorni a Kragujevac distribuiamo più di 250 borse di studio. I ragazzi ci sono quasi tutti. La maggior parte dei non presenti sono impegnati nei compiti in classe. Continuamo a fare foto. Alla fine del viaggio saranno più di 1.200. I ragazzi assenti le consegneranno al sindacato che le spedirà in Italia. Durante la distribuzione delle quote vediamo le stesse persone. C’è “il ministro” (il suo soprannome deriva dal fatto che ha preso a schiaffi il vecchio ministro del Lavoro), la signora Al Mamuri, il cui marito, nel frattempo (lo scorso novembre non c’era), è tornato dall’Iraq in Serbia, dopo un periodo di “riposo” con le tre mogli irachene, per eludere il destino beffardo e sfuggire alla situazione locale. La sera partiamo per Nis.
Venerdì 21 – Tomasevic Bojana, alla Min Fitip, una delle affidate, arriva accompagnata dal nonno. Sì, lo riconoscono, è proprio lui, l’ex direttore generale della fabbrica. Un signore simpatico e dimesso che sorride senza alcun compiacimento e che firma la ricevuta della borsa di studio per sua nipote come uno dei tanti operai che sono stati suoi dipendenti. Arrivano tutti, pian piano. Ci salutano. Vorremmo scattare qualche foto all’interno della fabbrica. Ci spiegano che non è possibile. Lo sapevamo, ma abbiamo tentato. Probabilmente anche la Min-Fitip è nell’elenco delle aziende, grandi e piccole, in vendita. Nel luglio 2001 è stata creata, appositamente, un’Agenzia per le Privatizzazioni e, secondo gli ultimi dati ufficiali pubblicati, su 366 aziende, 274 sono state vendute con un introito di 350 milioni di dollari (fonte: Banca Nazionale Serba). A quanto saranno vendute la Min-Fitip e l’Elktronska Industria? Ogni volta che una fabbrica o un’azienda sono alienate aumentano il numero dei disoccupati, la povertà, le malattie, la disperazione, la sfiducia nelle istituzioni, la rabbia, e chi più ne ha più ne metta. Si è poveri e lo si diventa sempre di più.
A Niska Banja (Nis) siamo ospiti di amici e, nel pomeriggio, andiamo a distribuire le “skolska stipendia” nella scuola “Ivan Goran Kovacic”. Nell’atrio ci attendono i ragazzi. Non appena entriamo cominciano a cantare. Sono tornati da poco da una “gara canora” tra tutte le scuole della Serbia e sono arrivati secondi. Sono bravi! Subito dopo cominciamo a consegnare le borse di studio. I problemi anche qui non mancano: cerchiamo di capire come affrontare tre emergenze. Un bambino leucemico, un secondo con problemi di crescita e la terza operata al cuore e con una deformazione del palato.
Tenteremo di trovare tra i tanti amici dell’associazione una possibilità di cura per il piccolo leucemico, un farmaco, il Genotropin, per il secondo, e faremo controllare in Serbia la terza dal medico che l’ha in cura e che è il figliolo di una nostra cara amica serba. Ci capita di chiedere a molti affidati se hanno corrispondenza con i loro amici italiani, alcuni dicono di sì, altri no, altri ancora ci dicono di avere scritto ma di non avere avuto risposta. Spieghiamo a tutti che come per loro non c’è alcun obbligo a corrispondere con i loro sostenitori, così non c’è per chi li aiuta. Comunque, la “skolska stipendia” è già un segno d’amicizia importante e tangibile.
Sabato 22, riposo. Con alcuni amici parliamo del Kosovo partendo da una domanda: cosa ne pensate della possibilità, prefigurata da Kostunica, di una cantonalizzazione (un’ amministrazione serba e albanese all’interno della provincia sul modello della divisione interna della Bosnia ed Erzegovina) partendo dal presupposto che un “paradiso multietnico” non è realizzabile? Quasi tutti sono convinti che è impossibile convivere con gli albanesi, la maggior parte vede nella cantonalizzazione l’unica strada, pochi pensano che si debbano mandare (dimenticando gli accordi internazionali che lo impediscono) esercito e polizia serbi. Molti parlano bene dei militari italiani che hanno difeso i serbi e i loro monasteri, dove possibile. Tutti dimentichiamo due cose: 1) la Ue continua a sostenere un’unica soluzione: una regione multietnica; 2) contro la cantonalizzazione si è schierato il leader albanese Rugova il quale ha detto che è una cosa impossibile. Rugova, d’altra parte, ormai si comporta da vero e conciliante padrone di casa: ha promesso ai serbi che farà ricostruire le loro case e le loro chiese distrutte dai suoi amici lo scorso marzo.
Domenica 23. La famiglia Zuza parte per l’America. Profughi dalla Bosnia, per la precisione da Konjic, tra Mostar e Sarajevo, da più dieci anni vivono, madre, padre e due figli, un maschio, Miroslav, 15 anni, e una femmina (affidata), Jovana, 16 anni, nell’hotel “Serbja” di Niska Banja. Il Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite gli ha dato questa possibilità. Partono per Las Vegas. Andiamo a salutarli, insieme ad altri amici. Manca un’ora alla partenza. Piangono e noi con loro. Ci tratteniamo il tempo per augurargli ogni bene. Lo meritano. Hanno il coraggio della disperazione indispensabile per un passo del genere. Vorremmo poter comunicare meglio di quanto non sappiamo fare quello che percepiamo in loro: paura dell’ignoto e speranza in un futuro migliore. Alle 8 prendono i loro bagagli. Arriva l’autobus per Belgrado. La disperazione dei genitori, vecchi, che sanno di non poter più vedere i loro figli; il pianto degli amici, giovani, che presto dimenticheranno. Non rischiamo il patetico! Andiamo avanti!
Sono i ragazzi e i genitori della piccola scuola di Donja Vrezina, dove andiamo dopo la partenza della famiglia Zuza, a farci dimenticare la tristezza di queste prime ore di domenica. Mentre distribuiamo le quote arriva, a piedi, un vecchio giornalista che vuole sapere qualcosa sul nostro lavoro. E’ stato a Roma per diversi anni ed ora è rientrato in Serbia e per arrotondare una pensione inesistente si è messo a fare il “free-lance”. Fa foto e si informa. Il Comitato dei genitori della scuola ha preparato un gran rinfresco. Ci dicono che i serbi sono fatti così: sono disposti a non mangiare pur di accogliere bene degli amici. I bambini sono tutti lì ed anche i genitori che si prendono in giro. Il “soggetto” è soprattutto il marito di una bella signora che torna ogni due mesi dalla Slovenia dove è andato è riuscito a trovare lavoro.
Facili allusioni, ma quale ironia quella del destino di Predrag: trovare lavoro proprio dove avvennero i primi scontri, nel giugno del 1991, tra la Difesa territoriale slovena e l’armata jugoslava. Ma sono passati 13 anni… e quasi tutti bambini che oggi hanno preso la “skolska stipendjia” a quel tempo non erano neanche nati. E questa è la grande speranza, dimenticare e ricominciare!
Lunedì 24 – Fa un freddo cane! All’orizzonte vediamo le montagne bulgare. Entriamo nell’Elektronska Indusrtrija, ex colosso locale e nazionale che produceva elettrodomestici. All’E.I. le cose vanno ancor peggio che alla Min- Fitip. Dei circa 20.000 dipendenti sono 800 quelli che lavorano e 2.400 quelli a disposizione che sperano di essere chiamati. Gli altri sono disoccupati. Le retribuzioni vanno dai 4.000 ai 18.000 dinari , vale a dire da 60 a 250 euro (a prendere 18.000 dinari sono soltanto 15 tecnici superspecializzati). Andiamo dai bambini e dai genitori riuniti, come il solito, nella vastissima mensa. Stiamo al buio: non si accende la luce e non c’è acqua. Ci si è abituati a risparmiare in qualsiasi circostanza e per tutto. Cominciamo a chiamare e, come abbiamo fatto, in tutte le scuole e le fabbriche, spieghiamo che scatteremo due foto da spedire ai loro amici italiani. Sono lì “docili” e pazienti. Cominciamo la consegna delle “skolska stipendia” e, com’è avvenuto in tutti i posti dove siamo stati, anche qui sul volto di questa gente rassegnazione. Parlando con loro sentiamo che sono scoraggiati. Hanno poche speranze nel futuro e credono poco nella classe politica che li governa. Sono sempre gli stessi (non possiamo dargli torto), anche i partiti sono sempre gli stessi (anche questo è vero), se capita la disgrazia di ammalarsi ci si può anche rassegnare a morire (verissimo, tanto che tutt’intorno è tappezzato di piccoli manifesti con l’annuncio della morte di qualcuno, spesso prematuramente), il lavoro non c’è e i giovani non hanno un futuro. C’è anche chi ha un sussulto e si arrabbia mentre parla, ma la maggior parte sono quieti.
Da un caro amico, riusciamo ad avere, per la prima volta durante il nostro viaggio, un documento ufficiale sottoscritto dal direttore dell’Ufficio di collocamento. Proviamo a capirci qualcosa. Scopriamo che i disoccupati a Nis, al 5 aprile scorso, sono 46.036 dei quali 24.488 donne. I posti disponibili, all’Ufficio di collocamento, sono invece 5.540 (2.363 a tempo indeterminato e 3.177 a termine). Proviamo a capire di quale tipo di lavori si tratta, ma non ci riusciamo. Facendo i conti a “maniera nostra” la percentuale ufficiale dei disoccupati a Nis dovrebbe essere di circa il 40 (la Banca Nazionale Serba parla, per il 2003, di 33,7%).
Con i sindacalisti cerchiamo di capire poi la situazione politica. E’ praticamente dall’inizio del viaggio che andiamo in giro con un pezzo di carta, dove abbiamo disegnato un semicerchio (il Parlamento serbo) e scritto, cercando di collocarli nella loro posizione “fisiologica” , i nomi dei partiti. Da questo schema esatto e semplice, ne viene fuori un’immagine sbilanciata completamente a destra del Parlamento, anche se il Partito democratico (ex Djindjic) lo scorso ottobre è entrato nell’Internazionale socialista. A sinistra sembrerebbe essere presente soltanto il Partito socialista serbo (ex Milosevic), messo storicamente fuori gioco dagli eventi. Tutti, dopo aver osservato lo schema, concordano che è una situazione sbagliata. Alcuni affermano che ci sono dei piccoli partiti a sinistra, altri che hanno tentato di riempire questo vuoto con un nuovo partito il “Labour”, ma per ora l’esperienza è fallita, altri ancora che un partito di sinistra c’è, quello di Milosevic. Tutti concordano su una cosa: non c’è nessuna figura politica, a sinistra, capace di raccogliere consensi e democratizzare così un parlamento sbilanciato e litigioso.
Martedì 25 – Partenza per la Bosnia. Nel primo pomeriggio siamo a Rogatica alla scuola “Sveti Sava”. Sono 1.200 i bambini che la frequentano distribuiti su tre turni (si comincia alle 7,20 e si finisce alle 18 circa). Quest’anno hanno cominciato la scuola anche bambini di sei anni. Qui, contrariamente a quanto avviene in Serbia (la legge non ha trovato attuazione in seguito al cambiamento del governo), la riforma della scuola è stata applicata. Siamo un po’ confusi! Entriamo con bambini e genitori in un’aula per distribuire le quote di affido. Una mamma sale al primo piano della scuola arracampicandosi con l’aiuto di una stampella. Non sta bene, ma vuole salutarci egualmente. Comincia la distribuzione delle “borse di studio”. Un Papà è solo: il piccolo Mihali è all’ospedale. Pochi mesi fa è morta la moglie e ora il bambino, paraplegico, sta accusando il colpo. Storie di disperazione. Vorremmo evitare di raccontarle, ma sono testimonianze importanti. Ci sono però anche i momenti lieti: l’accoglienza di genitori e ragazzi, le letterine per gli affidatari, i piccoli regali fatti con il cuore e il sacrifico, le foto fatte insieme.
Chiacchieriamo un po’ con il vice preside della scuola. Sarà il tempo che passa, ma ci rendiamo conto che c’è una maggiore disponibilità, in tutti, a parlare di più, ad affrontare argomenti da anni elusi (con l’eccezione di Lukavica, dove il direttore, continua a dirci, in italiano, “Milan, grande squadra”). Durante il colloquio ci colpiscono alcune cose dette dal nostro amico: “passo la frontiera con la Serbia decine di volte al mese e ogni volta devo mostrare il passaporto. Io sono serbo, come i serbi di Serbia! E’ umilitante!”. “Davanti c’è una persona, ma dietro ce n’è sempre un’altra”. “In ogni casa della Republika Srpska, anche la più sperduta, l’ospite è sacro e ci sarà sempre per lui un pasto!”. Stereotipi? No. Risaliamo in macchina e via verso Pale, ex roccaforte di Radovan Karadzic, capo dei serbi di Bosnia e ricercato numero uno per crimini di guerra. Pale, ex capitale della Republika scalzata dalla più moderata Banja Luka. La casa dove siamo ospitati è vicinissima alla chiesa e alla canonica dove, il primo aprile scorso, un commando della Sfor (veniamo a sapere casualmente da “alcuni italiani” che si sarebbe trattato di militari americani che “non vanno per il sottile”) ha fatto saltare la porta con una carica di esplosivo ferendo gravemente il parroco e il figlio. “L’esplosione ha frantumato i vetri delle abitazioni circostanti e non ci si poteva affacciare perché i militari che circondavano gli edifici puntavano i fucili”, ci dicono. Ma lasciamo stare queste cose!
Mercoledì 26 – La scuola “Pale” di Pale nel 2005 compirà cent’anni! Non pochi! I bambini affidati sono una trentina e quasi tutti per arrivare a scuola devono percorrere, ogni giorno, diversi chilometri a piedi. Ad attenderci c’è anche Donato, un socio di San Donato Milanese, che è venuto a trovare il suo “figlioccio”, Bosko, ed è ospite della famiglia del bambino. E’ entusiasta di questa esperienza e ci parla di come è stato accolto e della situazione difficile della famiglia. Per lui è stata organizzata una gran festa alla quale hanno partecipato tutti i vicini.
Ognuno ha portato qualcosa e, in poco tempo, è stato allestito un vero e proprio banchetto! Cominciamo a distribuire le borse di studio e facciamo le foto. Al direttore chiediamo, come abbiamo fatto in tutte le altre città, schede di nuovi ragazzi da affidare. Finiamo presto. Vorremmo andare a fare una camminata nei boschi. Ce lo sconsigliano. Ancora troppi posti contaminati da mine e ordigni inesplosi. Notizia ufficiale: in Bosnia sono 1.366 i centri abitati contaminati e, secondo il Centro per lo sminamento, sono registrati oltre 10.000 campi minati. Meglio evitare per non correre il rischio di aumentare il numero delle vittime, 1.048, registrate dalla fine della guerra (1995).
Nel pomeriggio andiamo a Lukavica, enclave serba alla periferia di Sarajevo. Il direttore della scuola “Sveti Sava”, milanista “sfegatato”, è alle prese con il Consiglio d’istituto e ci accoglie il suo vice. Entriamo nell’aula dove ci aspettano i bambini con i genitori. Tra loro Blazic Sasa, “recordboy”: undici tra fratelli e sorelle. A vedere il papà, un poco malridotto, zoppica e si sostiene con una stampella, non ci sembra possibile che sia così “prolifico”. Ci asteniamo da commenti, anche se alcuni suggerimenti gli servirebbero. Distribuiamo le quote e riceviamo tre baci da ciascun affidato. Arriva anche il direttore e, dopo i saluti, ci chiede subito se vogliamo aiutarlo a costruire una palestra. Infatti, la scuola di Pale è un dono della cooperazione giapponese e loro costruiscono le scuole senza palestre. Gli diciamo che siamo una piccola associazione che non può permettersi una spesa del genere. Di fronte al diniego ci svela che ha, comunque, un probabile donatore. E’ una vecchia volpe mr. Milovan. Uomo eccezionale, capace di fare il bene dei suoi alunni senza esporre se stesso e chicchessia. Cauto al punto di rispondere “tutto OK” alla banale domanda: “come vanno le cose a Lukavica?”. Ma basta dare un’occhiata ai bambini e ai genitori ed è evidente che le cose non sono per niente OK a Lukavica che, come tutta la Republika Srpska, ha problemi enormi: 43% di disoccupazione, miseria, fame, disperazione. Possiamo dare torto al direttore? Sfogliamo i giornali locali e riusciamo a capire: guerra di spie! Rastrellamenti, controlli, morti ammazzati, suicidi, processi, fosse comuni…. queste le notizie. Giovedì ripartiamo per l’Italia!