di Rosalba d’Adamo –
Si può dire che tutta la
nostra adolescenza non sia stata altro che una lunga attesa del momento in cui saremmo andati a Parigi.
Badate bene, non una qualsiasi località della Francia, peraltro bellissima, ma proprio Parigi; perchè?, vi chiederete- Perchè siamo cresciuti con il commissario Maigret. Il personaggio creato da Georges Simenon che per la mia generazione avrà sempre il volto di Gino Cervi, cappello e pipa compresi, approfondita successivamente dalla lettura dei romanzi.
Anche la sigla cantata dal povero Tenco, non si sa bene perchè, è evocatrice di atmosfere e luci nordiche indimenticabili. Negli spazi lasciati ad un certo punto liberi dalla figura di Maigret si insinuano certi tipi interpretati da Jean Gabin prima e Belmondò poi, seguito negli ultimi anni della nostra giovinezza dalle atmosfere di Truffaut, in atmosfere in bianco e nero indelebilmente concorrenti a formare un cotè di nostalgia, impossibile visto che nessuno di noi due era mai stato a Parigi o in Francia prima, particolare importante visto anche c
he Simenon era belga e non francese.
Tutti voi a questo punto avrete capito che mio marito ed io eravamo completamente innamorati di qualcosa che non conoscevamo affatto dal vero, come il protagonista del film di Emir Kusturica.
L’occasione per colmare la lacuna arriva con un compleanno importante che decidiamo di trascorrere nella capitale francese per una intera settimana.
Il programma è già stabilito dall’Italia: mattinate ai musei e pomeriggi in libertà.
Grazie ai pacchetti che offre l’amministrazione museale della città, siamo entrati comodamente senza file nelle maggiori pinacoteche.
All’antica Abbazia di Cluny, ora Museè du Moyen Age, la mente compie un viaggio a ritroso di mille anni, stanze e stanze stracolme di statue, bassorilievi, oggetti, ori ed arazzi a partire dalla caduta dell’Impero Romano, quando in Europa si instaura la religione cristiana e tutta l’arte vive dell’aspirazione dell’uomo verso Dio.
Tra le miriadi di oggetti e cose, resta scolpita la stanza dedicata alla Dama del Liocorno, allegoria dell’educazione di una fanciulla nobile su arazzi dal fondo rosso meravigliosi. Durante la visita a questo museo, il più antico e dedicato ad un’epoca lontana e difficile, ci siamo imbattuti in scolaresche di scuola primaria con bimbi schierati a terra a gambette incrociate che ascoltavano in silenzio le maestre mentre spiegavano: mai visto niente di simile da noi.
Naturalmente la parte del leone l’ha fatta il Museè du Louvre; l’antica residenza dei Re di Francia risalente al 12^ sec. è nata come fortezza di difesa dalle incursioni normanne, si è trasformata ed ampliata nei secoli sino a quando, nel XVIII sec. su impulso di Luigi XV venne destinata a museo trasformata in immensa pinacoteca che raccoglie il meglio esistente al mondo, come sappiamo frutto anche delle scorribande dell’armata napoleonica; non volendoci perdere nulla, iniziamo dal piano alto, dove sono le opere degli ultimi secoli, e dove per accedervi si rende omaggio alla Venere di Samotracia: a seguire, interminabili corridoi di opere del settecento ed ottocento, spiccano i saloni dedicati alle immense opere di Jacques Louis David, il pittore di Napoleone, attraverso cui ci sono arrivate le immagini dell’incoronazione e del famoso ritratto a cavallo, oltre ad una sconvolgente immagine di Murat assassinato da Carlotta Corday.
Scendendo ai piani bassi, si resta impressionati dalla quantità considerevole di opere italiane presenti: noi siamo rimasti impressionati dalla folla in fila per ammirare il ritratto di Monna Lisa, la Gioconda di Leonardo, mentre in un’altra sala ci siamo fatti una ragione del fatto che anche il crocifisso di Giotto faccia parte del bottino di guerra. Anche i musei italiani hanno opere straniere, ma le nostre al Louvre sono semplicemente le migliori e ne fanno la differenza (forse indulgo un tantino al campanilismo ma non credo di essere la sola). Non è escluso che in una ipotetica restituzione all’Italia di quanto sottratto, la direzione del Louvre dovrebbe chiuderne intere ali.
Una mattina andiamo al Museo Delacroix, in Rue de Furstenberg, 6.
L’autore de “La libertà guida il popolo”, icona del Risorgimento europeo, abitava questo studio luminoso che si snoda ad “elle” attorno ad un cortile interno che ricordava molto quello citato da Bertolucci nei “Dreamers”. Oggi questo studio-abitazione dell’artista nehli ultimi anni della sua vita ( dal 1857 al 1863 quando è morto) è quindi adibita a museo con tutti i mobili dell’epoca, le carte e molte opere: tutto questo grazie all’interessamento di due suoi amici e protetti.
Una mattina di pioggia incessante (siamo andati ad inizio marzo) abbiamo visitato l’Orangerie, museo ubicato in un’ala del palazzo reale e a cui si accede attraverso il giardino delle Tuileriee; in queste sale sono esposte le famosissime “Ninfee” di Claude Monet, simbolo dell’impressionismo; ci si avvolge in queste atmosfere verde-viola liquide e ci si sente veramente come in un bosco o in prossimità di uno stagno al tramonto.
La visita al Musee d’Orsay, peraltro non lontano dal Quai-des-Orfevre quartier generale di Jules Maigret, ci ha portato invece in un’epoca diversa, ottocento-inizi novecento, e rimangono veramente impressi i saloni dedicati a Modigliani, o i padiglioni di mobili biedermeyer di questa vecchia stazione riconvertita in pinacoteca, attraversata da condutture e tutta aperta sul piano terra, in stile liberty.
Ma il nostro viaggio a Parigi non ci ha visto solo visitatori di musei. I nostri pomeriggi erano dedicati invariabilmente, dalle quindici e trenta in poi, alla visita dei quartieri.
Innanzitutto, il quartiere latino, dove era il nostro albergo (chez Maxim’s, delizioso e tipico, con arredamento in ferro battuto e ricchi tendaggi, a due passi dalla Sorbonne e da Rue de la Contrescarpe). Questo quartiere è addossato alla Rive Gauche e collegato attraverso Fabourg Saint Germain, alla Senna e a Notre Dame.
Alla visita a Notre-Dame ed al quartiere circostante abbiamo dedicato un’intera mattinata. Il tempo di quel giorno fu in assoluto il peggiore di tutta la settimana trascorsa nella città, ciò nondimeno l’immensa chiesa affacciantesi sul grande fiume che attraversa Parigi, pur sferzata da un vento gelido che increspava e intorbidiva le acque del fiume, si ergeva in un fascino indimenticabile. Il portale medievale sormontato di statue domina il “parvis” sotto il quale abbiamo visitato l’antica Lutèce romana, la culla di Parigi fondata da Giulio Cesare nel 52 a.c., contendendo l’antico villaggio abitato dal popolo gaulois dei Parisii al grande Vercingetorige e mantenendolo per 452 anni. Il vasto interno della chiesa illuminato da vetrate (purtroppo la visita sul perimetro laterale era interdetta da lavori), restano indelebili nella memoria. Ai lati, Notre-Dame è circondata dall’Hotel Dieu, antico ospedale risalente al 18^ secolo. Dal lato Senna si affacciano bancarelle di libri antichi e vecchi negozi. Di quella giornata non si può dimenticare la visita alla Concièrge, le antiche carceri dove nelle volte sotterranee rimane incancellabile la narrazione delle gesta di Abelardo ed Eloisa, la coppia di amanti medievali simbolo della passione divina, l’attenzione di Parigi per quest’epopea si trova documentata anche al Père Lachaise, il più famoso cimitero della città che ospita un tempietto universalmente venerato come la loro tomba. Della visita al Père Lachaise serbiamo un ricordo dolcissimo; la passeggiata lungo i viali a scalinate, dove ad ogni angolo troviamo tombe di personaggi ed artisti, molti italiani, sognati ad occhi aperti, come ad esempio Modigliani o Piero Gobetti, Rossini o anche la povera Marie Trintignant, e il ricordo delle epigrafi marmoree che attestano vite passate e morti ancor più gloriose sono appena paragonabili da noi alla dolcezza del cimitero inglese o acattolico di porta San Paolo ad Ostiense; nello scolorire del pomeriggio primaverile l’animo si ben predisponeva alla contempazione ed alla pace.
Nel nostro girovagare pomeridiano per i quartieri, che sceglievamo guidati unicamente dai nostri personalissimi “amarcord”, armati di baguette che in Francia si trova appena sfornata praticamente ad ogni ora del giorno nelle boulangerie, abbiamo deciso di spingerci sino a Saint Denis. A tredici fermate di metropolitana dal centro città si trova la banlieu di Saint Denis, dove si può visitare la famosa abbazia, intitolata al vescovo cristiano inviato nel 250 d.c. ad evangelizzare i Galli e martirizzato da Diocleziano o dai Valeri, che custodisce le tombe dei re di Francia. Meta di turismo d’elite, essa mostra ai visitatori i mausolei dove riposano i re dall’epoca capetingia in poi, in sarcofagi monumentali sormmontati da effigie e necrologi.
L’abbazia è stata costruita nel VII secolo e dopo re Dagoberto vi sono state traslate le tombe dei re, sorta di sacro Pantheon, dal X sec. in poi e fino alla rivoluzione francese, con i resti dei Borboni riesumati dalle fosse comuni.
Alla fine della visita, non abbiamo saputo resistere dal visitare le vicinanze del luogo sacro, addentrandoci nel sobborgo parigino a maggioranza di colore; abbiamo preso un caffè in un vecchio bar, il cui arredamento risaliva probabilmente agli anni quaranta, nella strada principale un concertino di artiste di strada, donne anziane abbigliate in modo variopinto ed ispirato a certa moda americana del periodo maccartista, cantavano vecchie canzoni accompagnandosi con una tromba. Uno spettacolo stupendo.
Prima di lasciare il quartiere, dove per’altro si arriva in una modernissima ed efficiente stazione della metropolitana, abbiamo assaggiato uno splendido e succulento doner kebab in un locale turco, dove siamo stati serviti dalla figlia del proprietario nella sala al piano superiore e vista sulla piazza, dove avevano facoltà di mangiare i soli clienti che ordinavano il “piatto”. Inutile dire che durante tutto il pomeriggio a Saint Denis abbiamo nutrito seri dubbi sulla reale uscita della Francia dall’epoca coloniale, o forse era solo un riflesso della nostra inguaribile fantasia, chissà…
Restando nel tema del cibo, voglio chiarire che durante tutta la permanenza a Parigi la regola che abbiamo seguito è stata quella di provare ogni sera una cucina diversa. In questo proposito siamo stati aiutati dal fatto di avere l’albergo nel quartiere latino, zona ad altissima presenza di locali di ogni nazionalità.
Ciò ci ha permesso di scegliere ad esempio già dalla prima sera la cucina basca, a base di ineffabili affettati, vini rossi deliziosi, un locale dai caratteristici piccoli tavoli quadrati in legno addossati gli uni agli altri, cosa che favorisce gli incontri, ed infatti abbiamo socializzato immediatamente con i nostri vicini, una coppia belga con la quale era possibile parlare un francese comprensibile misto ad un discreto italiano da parte loro. Non possiamo d’altronde dimenticare l’esperienza nel ristorante libanese, da Roger, che ha riempito il nostro tavolo di decine di piccole ciotole con verdure e salse di tutti i tipi e l’immancabile fornellino con l’agnello caldo, servendoci di persona. Anche la visita al ristorante greco ci è piaciuta, un locale gremitissimo forse un po’ troppo turistico, ma nel complesso soddisfacente. La novità assoluta è stata invece per noi la visita al ristorante francese, dove siamo andati appositamente per provare la fondue bourgognonne, un’eperienza esilarante dove il proprietario si è esibito in una prova di cottura al momento, visto che non eravamo in grado di capire come si facesse: devo dire che c’è bisogno di un buon coordinamento mani e stomaco per affrontare quel piatto. Inutile dire che tutte le nostre serate sono state accompagnate da ottimi vini, esclusa la serata alla crèmerie, locale stile “bonne maman” dove servono solo crepes e creme varie e si bevono solo succhi, frullati e sidro.
Durante la nostra permanenza a Parigi, come ha già compreso chi mi legge, noi vedevamo non solo la città reale, ma anche ed irrevocabilmente la città che ci è arrivata attraverso le nostre letture giovanili e la vicinanza di alcuni settori culturalmente affini. Eccoci quindi un pomeriggio seduti al Fabourg Saint Germaine nella veranda riscaldata del Cafè du Flore: in questo luogo sono stati concepiti i capolavori di Jean Paul Sartre e Simone de Beauvouir, scrittori francesi molto amati, icone del novecento. Anche la visita della vicina chiesa, un tempo abbazia fuori le mura, ci ha permesso di seguirne la storia nei secoli attraverso un buon percorso didattico sito all’interno.
La domenica mattina non abbiamo mancato l’appuntamento con il “mercato delle pulci” più famoso di Parigi: quello che si tiene alla “Porte de Glignancourt”. Per arrivare in questa periferia il viaggio in metropolitana si svolge anche in tratti a vista, permettendoci di godere di scorci di Parigi indimenticabili, nonché dell’affasciante brulicare dei suoi milioni e milioni di abitanti. Anche se nel viale di accesso somiglia un po’ alla nostra Porta Portese, con venditori di ogni nazionalità, prodotti cinesi, giocatori delle tre carte, dopo si snoda un dedalo infinito di espositori, una periferia industriale struggente nel paesaggio invernale, centinaia di punti vendita con montagne di oggetti, rigattieri specializzati dove è possibile trovare di tutto, da abiti vintage a mobili in perfetto stato, collezioni di dischi, libri, manifesti, chincaglieria, scarpe, occasioni irripetibili e materiali per sognare.
Non si poteva andare a Parigi senza visitare la collina di Montmartre. La metropolitana ci scende a Pigalle, vecchio quartiere malfamato pieno di club, cinema osè e teatri, cafè-chantant e locali con spettacoli per tutte le inclinazioni a tutte le ore anche la mattina a colazione; dal boulevard Pigalle una strada si inerpica tortuosa su su per la collina di Montmartre, la “collina dei martiri cristiani”, come pare derivi il nome dall’antico toponimo latino.
La facciamo a piedi, per non perderci la visione mozzafiato della piazzetta degli artisti e la chiesetta dei Saint-Michel; l’amarcord è feroce, i colori sono gli stessi del secolo XIX^; visitiamo il quartiere che conserva ancora le insegne del “Lapin agile”, vecchio bistrot dei pittori bohemiènne e l’unica vigna di Parigi ancora a cielo aperto, chissà fino a quando si conserverà. La visita al Sacre-Coeur con vista sull’immensa città conclude il pomeriggio in collina: scendendo, incontriamo la casa dove è vissuto Eric Satie, il famoso musicista.
La domenica pomeriggio visitiamo Places de Vosges, piazza alberata secentesca quadrata, delimitata da portici, dove è possibile ammirare artisti di strada, ed infatti quel pomeriggio abbiamo avuto il privilegio di ascoltare un soprano di sesso maachile, qualcosa di unico e sublime.
Tutto il Marais è ammantato di un’aura speciale, avendo conservato intatto il fascino della città vecchia sfuggito agli ampliamenti ed alle demolizioni di Haussmann nell”800. Nel quartiere vive una nutrita comunità ebraica, e ciò lo arricchisce di negozi e librerie molto particolari.
Nel quartiere parigino di Belleville, un tempo paesino che ha dato i natali nel 1915 alla grande Editr Piaf, “il passerotto di Parigi”, la più grande famosa e amata cantante di Francia, abbiamo potuto immergerci in un caleidoscopio di razze, usanze, colori, merci di ogni specie ed in particolar modo asiatiche; vecchie cinesi in antico costume sedevano in minuscoli tuguri vendendo spezie come se fossero al mercato di Shangai, mentre le boucherie musulmane offrivano polli a prezzi stracciati e montagne di legumi semi-estinti troneggiavano pronti ad essere ceduti dietro compenso da vecchi venditori allampanati in palandrana e codino. Incredibile, un pezzo di Asia nel cuore della Ville Lumière!!
L’ultimo giorno della nostra permanenza abbiamo visitato lo splendido Jardin de Plantes (Orto Botanico), ricco di piante fiori alberi arbusti di ogni specie e genere, aperto e pieno di gente che liberamente faceva sport o semplicemente si scaldava al sole. La visita alla Moschea islamica conclude il nostro soggiorno parigino, lasciandoci una incommensurabile voglia di ritornare, consapevoli che sei giorni non potevano bastare per assaporare questa meraviglia della civiltà occidentale che risponde al nome di Parigi.
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