di Max –
Ed eccomi finalmente qui, pronto come non mai a volare via, in alto, lontano, verso un sogno che da anni era testimone delle mie notti passate a leggere, a cercare di capire ed immaginare come sarebbe stato, ed in quel preciso momento mi trovavo a vivere nella realtà quello che ormai da sempre era mio nelle fantasie. La decisione la presi da sempre, il coraggio di farlo, purtroppo, da poco, e con immenso dispiacere.
Fu quasi una fuga da una realtà e soprattutto da una vita che scorreva lenta ed inesorabilmente uguale, come milioni di miei simili, in un momento di profonda solitudine ed angoscia a dir poco esistenziale, ruppi il lieve velo di normalità che, comunque in fretta si stava lacerando. Intere giornate passate a parlarne, ad organizzare il viaggio della vita, senza che nessuno si preoccupasse più di tanto per fare qualcosa di concreto, i sogni restano tali quando l’incapacità di realizzarli prende il sopravvento, io presi il sopravvento sulla mia stessa incapacità .
Organizzai tutto da solo, rilessi i libri mille volte letti e mille volte riposti nello scaffale, riaprii la cartina geografica ormai ingiallita dal tempo e corsi in agenzia, con la data fissata ed il biglietto tra le mani, mi sentii veramente cittadino del mondo e padrone del mio destino, Spartaco spezzò le catene della quotidianità.
Cuba, la Isla grande, la perla dei Caraibi, era li da secoli è nonostante le guerre, i dominii e le Rivoluzioni aveva ancora la pazienza di aspettarmi, aspettare questo invasore che anziché carico di armi era carico di speranze e dollari, che in posti come quello mietono più vittime di dieci bombe H e causano più danni di mille kamikaze nipponici in preda ad una sbronza di quelle che si narrano nei libri di Boucowski.
Arrivammo che era già notte, pioveva ed il calore mescolato all’umidità tipica di quei luoghi si attaccava addosso attraverso i primaverili abiti che indossavamo dall’Italia.
Dopo mille peripezie e centomila “trattative” riuscimmo a trovare un taxi che per 20 miseri dollari ci accompagnava all’hotel tre stelle reperito a buon mercato, nelle mie fantasie immaginavo sempre che appena arrivato avrei fatto chi sa quante cose, non tenendo conto del fusorario di circa sette ore avanti rispetto al loro orologio, per chi lo possedeva, il tempo è talmente relativo in quei posti che scandirlo con un battito, anche impercettibile come il titctio delle lancette, era causa di gravi stress.
Crollammo sulle brande disposte alla buona nella squallida camera che rappresentava per noi Europei l’equivalente di un dormitorio pubblico è per loro un albergo da sogni……sempre a causa del fuso orario mi svegliai alle 06.30 del mattino, la pioggia della sera precedente lasciava lentamente il posto ad un sole pallido che timidamente ci dava il bien venido.
Avevo venti giorni a disposizione per fare tutto quello che volevo ma la mia proverbiale impazienza mi rendeva frenetico al punto da farmi uscire alle otto di mattina mentre quel mondo ancora dorme e neanche i fornai sono aperti…… Il desiderio di un caffè espresso Italiano era immenso, il quotidiano, il cornetto caldo, il tabaccaio sotto casa, già mi mancavano dopo appena un giorno che ero ospite.
In posti poveri come quello ti mancano anche le cose più semplici ed apparentemente meno utili, come il telefonino per citarne uno.
I colori del Malecon erano straordinari, le case quasi distrutte racchiudevano il fascino di una vita passata che era degna di essere chiamata vita, i trabiccoli che transitavano lungo l’unica grande strada dell’Avana erano preistorici, auto del 1920 perfettamente funzionanti, a pezzi ma efficienti, trasportavano di tutto, il misero tutto che si può trasportare in un paese del terzo mondo, ricco di storia, di personaggi e di miseria…quella miseria che non trapela dai corpi dilaniati dalla fame come in Africa, corpi magri ed inermi che sono il vero simbolo della povertà, della sofferenza provata, dalla sconfitta vincente. L’aria dell’Avana era densa come il fumo delle mie sigarette, acre e pungente, fastidioso all’olfatto, in breve tempo mi abituai a tal punto che oggi mi manca come la stessa aria che non riuscivo a respirare all’ora, trascorsi tutto il tempo ad ammirare le strade, i palazzi, la gente che lentamente si preparava ad organizzarsi una nuova giornata fatta di fame e rhum, di sigari e proposte. A proposito delle proposte, a Cuba cercano di proporti di tutto, dal coche particular alla casa particular, dall’aragosta allo zio che lavora nella fabbrica di sigari cubani, una cassa 50$..
Dopo due giorni di albergo compresi nel biglietto aereo, decidemmo di fittare una casa particular a buon mercato, 24$ al dia per due persona, fu cosi che incontrammo Jhulio dalla barba bianca, un neurologo dell’Avana che guadagnava 24$ al mese svolgendo la professione di neurologo, contro i 24$ al giorno che guadagnava come fitta camere (semi abusivo), aveva vent’anni di studio sulle spalle ed un’incredibile conoscenza del suo lavoro, probabilmente salvava delle vite, ma continuando a fare solo il medico, inevitabilmente avrebbe compromesso la sua e quella della sua famiglia, anche perché la moglie aveva viaggiato, una volta era andata in Spagna a Madrid e non aveva visto la corrida.
S. Maria a la playa, tipica spiaggia Caraibica con le palme e l’acqua verde-azzurro, i gazebo di paglia di cocco e il barman gioviale ed accondiscendente, e tu contento, come il primo uomo bianco che vi mise piede, con la differenza che da allora di uomini bianchi che hanno messo, non solo il piede ne sono passati milioni, tutti con la stessa stupida frase, lo stesso stupido cappello, bermudino, occhialino da sole e marsupio a spalla…..il colonizzatore, falso e bugiardo come sempre, approfittatore per eccellenza.
Conoscemmo dei tipi che mi indussero a pensare, e che ora mi convincono, su quello che io penso di noi turisti nei paesi del terzo mondo.
Passeggiavo per l’Avana con l’aria di chi ci vive da sempre, mi sentivo come loro e come loro per alcuni giorni, per fatti che più in là esporrò, ho vissuto nella miseria più nera di un pezzo di carbone a mezzanotte.
I viottoli stretti e semi distrutti erano strapieni di gente, affollati prevalentemente da bambini, tutti vestiti nell’identico modo, gonnellina e camicetta marrone le bambine e pantaloncini e maglietta i bimbi, tutti con lo stesso identico sorriso sulle labbra, con un’incredibile gioia che ti penetrava nelle ossa, quella gioia di vivere che i nostri bambini hanno ormai perduto, gioia vera ed autentica barattata con i giocattoli costruiti su misura da noi adulti per assecondare non i loro desideri ma il nostro irrefrenabile desiderio di danaro, di ricchezza.
Si avvicinavano con la stessa indifferenza dei nostri bimbi bianchi, a quella età si è incoscienti…
Che ci frega se i palloni di cuoio sono cuciti a mano dai bambini indiani, o le bambole assemblate da piccole ed economiche mani di bambini cinesi, in nome del business tutto è lecito, tutto è consentito, tutto, anche l’illecito diventa elemento di giusta causa e giustificato sfruttamento, la ricchezza raramente sposa il concetto di rispetto se non per un proprio tornaconto.
Un pezzo di pane razionato ed uno straccio arrotolato sono forse le uniche ricchezze che possiede un bambino del terzo mondo, la nostra “immondizia” rappresenta per loro il benessere.
E noi Occidentali abbiamo bisogno di queste cose, abbiamo bisogno di vedere la vera povertà, solo per apprezzare davvero la nostra inutile ed eccessiva ricchezza…..
Il valore del mio orologio avrebbe sfamato 150 persone per una settimana, in molti casi sarebbe meglio non misurare il tempo e non dare importanza alla precisione dell’ora, la fame non bada ai cinque minuti di ritardo, è fame e basta.
Camminavo per le strade con la necessità di vedere la vera vita che vivevano, e non limitarmi a quello che volevano farmi vedere, a quello che tutte le guide si limitano a descrivere, la playa, el sol, la carrettera, avevo bisogno di vera vita, di un vero Cuba libre e non del turistico mojito servito al finto bar di Haminguey dove il clone del vero barman serviva come in una catena di montaggio quello che per Haminguey rappresentava un rito irrinunciabile, 3$ per sentirsi come l’autore del Vecchio e il mare, per chi Suona la campana, 3 Dollari per sentirsi finti.
Mentre mi recavo in spiaggia, da lontano notai una ragazza molto carina, in un posto come quello è rara la cosa contraria, fasciata in un elasticissimo pantaloncino rosso che metteva in risalto le sue scultoree forme, con la mano mi fece cenno di avvicinarmi, accettai immediatamente l’invito ed in tre salti ricoprii la distanza di circa trenta mentre che mi dividevano da lei, rappresentante della bellezza nera che con orgoglio mostra il documento privo di segnalazioni al poliziotto, che dopo averla scrutata dalla testa ai piedi, con un umiliante cenno del capo dà l’Ok!
Passammo l’intera giornata sulla spiaggia a parlare del più e del meno, soprattutto del più, avevo una curiosità imbarazzante relativamente al loro sistema politico, alle loro leggi, ai loro diritti e soprattutto doveri, a come vivevano, dove lavoravano, quanto guadagnavano e quanto era dello stato, il corrispettivo delle nostre tasse…
L’importanza della cultura, cosa lecito e cosa no, i limiti imposti dal sistema, dalla gente, dallo stato difensore e garante di vite prive di padrone ma comunque schiave, schiave di un qualcosa che noi opulenti industrializzati chiamiamo comunismo, ma tutto questo, secondo me, non c’entra.
Ebbi la fortuna di incontrare la persona giusta, nonostante la sua giovane età, in ogni parola trapelava la saggezza maturata in secoli di repressione, di umiliazione e di privazioni, un uomo smette di essere uomo quando iniziano a togliergli il superfluo, non il necessario….il necessario non tolto era rappresentato dalla sua stessa esistenza.
Lavorava in un posto che aveva l’aria d’essere il corrispettivo della nostra farmacia.
Quattro barattoli ed un batuffolo d’ovatta era l’inventario all’interno di uno di questi enormi stanzoni dislocati tra i vari quartieri dell’Avana, avverti la sensazione di essere povero quando un semplice mal di testa ti appare come l’inizio dell’inevitabile fine, ed una pillola che qui da noi si butta via perché forse scaduta, li era ostentata come un bene di lusso.
Tre aspirine per sei aragoste…..affare fatto amigo..
Café Paris, calle….arredato alla buona, alcuni tavoli e sedie, un bancone sul quale chi sa quanta storia era passata e quante sbronze sopportate, tra le quali le mie.
Il cameriere nero, alto e massiccio come un’attore americano dispensava sorrisi ad ogni dollaro di mancia, il quarto giorno che mi presentai in quel bar, mi sorrise gratis ma non mi offri da bere, le regole sono regole Hombre, ed in quel posto le regole si rispettano altrimenti regnerebbe l’anarchia.
Molte volte mi capita di pensare che proprio nei luoghi di perdizione per eccellenza regnano le più inviolabili norme comportamentali non scritte, non dette, non raccomandate, sono regole e basta alle quali tutti devono attenersi; intorno ad un tavolo da poker, in un bordello, durante una rapina, la legge è uguale per tutti…..senza eccezione alcuna.
Tutte le sere un gruppo di musica diverso si esibiva nel locale da me abitualmente frequentato.
I pezzi erano i soliti che puoi sentire a Cuba, Compay Secundo, Ruben Gonsales, gli inni al Che, immancabili le lacrimuccie delle turiste nostalgiche di un periodo mai vissuto ma raccontato da chi , a sua volta, non era neanche andato a Cuba….gli storici moralisti, vittime delle loro stesse menzogne.
Un gruppo mi impressionò, era un quintetto con strumenti rigorosamente a corda e fiati, la mancanza di un’adeguata amplificazione obbligava gli artisti a dare il massimo di sé, la cantante solista aveva una voce e due polmoni da fare invidia a Pellizzari (recordman di immersione in assetto costante), per circa due ore immobilizzò i presenti, io ero uno di quelli, la sua voce accompagnata dalla musica dei suoi orchestrali mi consentì di ammirare la vera Cuba, di accarezzare l’anima di milioni di esseri umani, la sua voce ci regalò un tour per l’isola che neanche un mese di cammino ci avrebbe dato.
Alla fine dell’esibizione girò i tavoli con un cestino tra le mani, senza disturbare e con la discrezione di un grande artista chiedeva 1 dollaro, un concerto di Marco Masini costa trentacinquemilalire e la vera tragedia sta’ nel fatto che spontaneamente compri il biglietto, per sentirti dire vaffanculo e brutta stronza, sarà che il benessere induce al masochismo, o che noi, figli di Leonardo, Dante e Verdi ci siamo rincoglioniti davvero.
Immaginate uno straniero che viene in Italia ed ha la sventura di assistere ad un concerto di Masini, dei Luna pop o chi per esso, dopo due ore provate a convincerlo sulla gloriosa storia dei padri della nostra cultura, della rivoluzione letteraria, loro ti citano Josè Martì (poeta e padre della rivoluzione cubana del XIX secolo), noi rispondiamo con vaffanculo e brutta stronza, incidente diplomatico, guerra assicurata. I grandi conflitti possono nascere da un malinteso.
Cucina particular, i ristoranti ufficiali sono quasi inaccessibili, grazie allo zio Sam americano i prezzi sono incredibilmente alti, allora non restava che scoprire i luoghi in cui, abusivamente, potevi mangiare qualcosa di speciale a prezzi “trattati”.
Il Campidoglio, ristorante tipico cubano, sedia e tavolo compresi nel prezzo, aperitivo a base di Rhon invecchiato 7 anni, bevuto rigorosamente liscio, riso e fagioli come accompagnamento, pollo o maiale e per finire la magnifica aragosta con gamberi, scoprimmo più tardi che il padrone di casa era un reduce della gloriosa rivoluzione cubana ed aveva comandato plotoni in nome e per conto del grande Fio, padre della rivoluzione e garante di quel sistema che per nessun motivo deve cambiare percorso, quando non hai nulla da perdere vale la pena rischiare?
Ci narrò una serie di aneddoti relativi ad attacchi, a strategie militari, ad ideologie per le quali aveva combattuto che a parer mio non gli erano ancora chiare, per fuggire da una dittatura qualunque pretesto è buono, anche quello d’abbracciare come fede politica il genocidio, ho letto da qualche parte che all’interno dei campi di concentramento nazisti, i Kapò (l’equivalente dei nostri caporali di fanteria) non era il carnefice ma un suo fidato delegato, la vittima… Il “colonnello” aveva combattuto per la rivoluzione, aveva ordinato ad altri uomini di sacrificare la propria vita in nome della libertà e della giustizia, per quella stessa giustizia che oggi lo obbliga a vendere aragoste di contrabbando per arrotondare lo stipendio, non so se sono le idee ad essere sbagliate o gli uomini che cercano di realizzarle che non hanno capito un cazzo…. Non mi sento di criticare nessuno, né l’uomo, lontano da me 50 anni, né l’ideologia, lontana da noi 1000 anni, io mi sforzo di raccontare quello che i miei occhi inquinati dal benessere hanno visto, cerco di essere imparziale ma l’imparzialità è un dono che spetta al puro, io la mia purezza l’ho persa prostituendomi alle leggi del mercato, alla voglia di avere sempre di più e alla consapevolezza di non sapere il perché.
Cerchiamo di accumulare beni materiali che lasceremo sulla terra alla fine dei nostri giorni, come il corpo di un culturista morto lasciato nel deserto alla mercé degli avvoltoi, carogna….
Tante persone che conosco parlano erroneamente di cose senza averle mai viste o considerate con i diretti interessati, elogiando quello che per altri è il simbolo della tragedia, il concetto di sopravvivenza è lontano anni luce dal concetto di vita, noi bene o male viviamo, chi per un verso chi per l’altro, li si sopravvive, ma con il sole negli occhi, con un’espressione sul viso che sa di mare, e vento nei capelli che sa di immortalità…….
Avete mai visto un tramonto? Non dico “visto” a modo nostro, nel senso di intravederlo infastiditi dal vetro dell’automobile in autostrada con il parasole abbassato e la mano a visiera per alleviare il disturbo della luce accecante; avete mai visto un tramonto?, vi siete mai tuffati nel sole quasi spento che cede il passo alla luna, il sole basso, pigro e stanco dopo una giornata di lavoro che lentamente scivola negli abissi dell’oceano, credere di ascoltare il rumore del fuoco a contatto con l’acqua, sentirlo sbadigliare, vederlo assonnato, dormire.
Raramente si assiste a certi spettacoli della natura, e considerare che il sole in qualunque parte del mondo è lo stesso, in ogni angolo della terra va a dormire e si ritira nel mare, tra le montagne, tra i boschi e tra i palazzi delle nostre caotiche città, ma in quei luoghi è diverso perché siamo diversi noi, è il senso di pace che portiamo dentro che amplifica tutto quello che cento volte abbiamo già visto è non considerato, non credo sia possibile scoprire il sole a trent’anni, a me è capitato.
Su una spiaggia quasi deserta incontrai il nulla, un nulla che sa di tutto, il nulla che noi imborghesiti dal benessere non conosciamo o non ricordiamo più, ho visto una spiaggia pulita, un mare limpido, non ho visto buste bianche o lattine di coca cola lasciate a terra, non ho visto ombrelloni o lettini, e ho sentito solo l’odore del mare e non degli abbronzanti, o sentito solo il rumore del mare e non delle racchette e delle radio a tutto volume, ho visto il mare cosi come lo videro 100 anni fa, ho calpestato la stessa sabbia calpestata 100 anni fa, credo che prima d’allora non avevo mai visto il mare, a parte Rimini d’estate.
Quando si torna da un viaggio, un minimo di esaltazione nutre ed amplifica i nostri ricordi, rende tutto incredibilmente migliore e la nostra vita, a confronto, una merda…
Io dopo 5 mesi ho iniziato a capire, forse, qualcosa, il posto che abbiamo visto, a parer nostro è sempre il migliore, ma quando inizi a capire che il posto in cui vivi è una merda, il paragone non regge, dopo cinque mesi ho compreso veramente quell’odore di mare, di quell’aria irrespirabile, dei sorrisi dei bambini, della spiacevole richiesta di essere accompagnato in chissà quale posto, io stesso mi pento di aver fatto o detto qualcosa a qualcuno in nome di uno stupido modo di pensare che abbiamo noi esseri più fortunati e meno sfruttati di altri, il mondo si divide in due categorie, quelli che hanno dato e quelli che hanno preso, io non ho nemmeno detto grazie, ma ho lasciato la mia piccola e mortificante mancia dando un dollaro al disperato di turno, lavandomi la coscienza per un torto fatto e assolvendomi dalla colpa con il “ma io che c’entro”, invece io c’entro e come, tutti, sicuramente siamo, chi più chi meno, colpevoli.
Dopo il solito mojito al Cafè Paris, passammo la serata in uno di quei locali tipici per turisti, dove tutti ed in particolar modo tutte, sono eccessivamente simpatiche, gioviali e cordiali, per non dire disponibili a tutto per qualche dollaro, conoscemmo Crispino, un Cubano negro con una particolarità, parlava veneto, incredibilmente veneto, aveva un’accento che per telefono avrebbe potuto ingannare anche il sindaco di Verona, era alto e grosso con una faccia segnata da anni di ring, un ex pugile professionista baciato di striscio da una dea troppo bendata per condurlo veramente alla vetta del successo, “la dea della fortuna è bendata, ma quella della sfiga ci vede benissimo” (Freack Antoni).
Con aria minacciosa si avvicinò a me, mi aveva confuso con un mio connazionale che il giorno precedente gli aveva dato una grossa sola, evidentemente si voleva rifare, dopo circa venti minuti lo convinsi dell’abbaglio, diventammo amici per una serata, mi offrì da bere, la sua pacca sulla spalla fu una liberazione dai cattivi pensieri che per venti minuti si impossessarono di me, mi fottetti di paura, Crispino era tipo un capo quartiere, uno di quelli che sanno farsi rispettare e senza troppi scrupoli, la mia abilità nel districarmi e la sua capacità di comprendere perfettamente l’Italiano mi resero salva la vita. Parlava sempre lui, mi riempì di stronzate a raffica, dei suoi incontri fatti in Italia, dei pugni presi e dati, delle cicatrici e dei mille round fatti nella sua carriera, l’autoesaltazione del suo fisico (brutalmente esagerato) e mille altre cazzate, porca troia che palle, a fine serata mi propose una delle sue ragazze, per arrotondare faceva il pappone, figura tipica nei locali del genere.
Ad ogni proposta rispondevo di no, mi portò venti ragazze, e venti volte dissi no, alla fine quasi stremato e confuso sui miei eventuali gusti ed attitudini sessuali, mi propose, prima la sorella, una ragazzina credo di sedici anni, poi il cugino, fu dura fargli capire che ero una persona normale, anzi troppo normale per non riuscire a soddisfare con il danaro esigenze o desideri sessuali, per quanto riguarda il cugino gli offrii una birra e con atteggiamento da messia lo sollevai dallo svolgere compiti al quanto innaturali per uno come lui, chissà se il mio barbiere avrebbe fatto lo stesso?!
Ci scambiammo i numeri di telefono, con Crispino, non con il cugino, perché come si dice, nella vita non si può mai sapere…e se solo avessi saputo di li a poco come sarebbe andata a finire, mi sarei attaccato al Veneto-Cubano con tutte le mie forze, fino a stritolare le sue possenti ossa.
Dopo aver visitato tutto il visitabile e dopo aver fatto in modo che tutti, e dico tutti ci conoscessero, decidemmo di prenderci una piccola vacanza nella vacanza, e qui cominciò il problema.
Finita la parte di contante che ci portammo dietro, mi recai alla ricerca di una macchinetta caccia soldi, un bancomat, brandendo le mie carte di credito come un mio avo brandiva lo stendardo o la lancia per assalire il nemico, scoprii che l’unico modo per prelevare contante non era la “macchinetta” marchingegno creato dall’uomo frenetico per evitare code allo sportello e per essere libero di prendere i propri soldi in qualunque momento della giornata, anche di notte, e che notte trascorsi alla ricerca di un bancomat che aderiva al circuito delle mie carte.
Ore 08.30 della magnana mi presento in banca, immaginate una banca del terzo mondo, volevano impedirmi l’ingresso perché sprovvisto di scarpe, avevo un paia di zoccoli di legno rumorosissimi, dopo dieci minuti di prostrazione nei confronti della guardia all’ingresso, riuscii ad entrare, avevo gli ultimi otto dollari, dopo una estenuante fila di cinquanta minuti arrivò finalmente il mio turno, cacciai la prima carta, chiesi cinquecento dollari alla cassiera la quale, esaminando scrupolosamente la mia carta mi rispose, questa qui non esiste, il panico iniziale fu subito attutito dalla certezza di avere una seconda carta, con altro circuito da loro riconosciuto, ma il problema era l’intestazione della carta, non era stata rilasciato a mio nome ma a quello di mia madre, il panico si trasformò in tragedia, avevo due carta di credito, tutti i risparmi fatti durante l’anno per quella vacanza, il posto sognato da una vita e otto dollari in tasca per dodici giorni di permanenza…mi crollò il mondo addosso, ma la cosa incredibile fu che oltre al mondo, addosso, mi crollo di tutto.
La prima imprecazione fu contro il comunismo, la seconda contro Fidel, la terza contro mia madre per avermi messo al mondo.
Corsi a casa, disperato, dopo aver fatto il giro di almeno altre sei banche, dal mio compagno di viaggio, compagno di una vita, compagno padrone del mio destino.. Corremmo in banca con la sua carta di credito, e per farla breve, a causa delle leggi bancarie ecc.ecc. ci ritrovammo a poter prelevare 250$ da dividere in due e per 12 giorni di permanenza all’Avana, ero prigioniero politico in uno stato che, privo di dollari si presentava alquanto ostile.
Dopo aver “spartito” i dollari per le varie spese fondamentali, quali: taxi per il ritorno in aeroporto, tassa per lasciare Cuba, piccolo souvenir per nipoti e amici troppo stretti per essere dimenticati o passare in second’ordine rispetto alle vere priorità quali alcool e donne….
Hasta la vittoria comandante, hasta siempre, appena entrati nel museo nacional de la revolucion questa scritta era presente ovunque, vecchi cimeli e foto ingiallite ci riportavano indietro di 30 anni, in quella vecchia Cuba tanto amata dagli americani e mafiosi di prim’ordine per gestire e controllare loschi traffici con l’America latina.
Bei tempi per qualcuno.
Batista, Josè Martì, Fidel, El Che, tutti presenti nel museo, c’ero anch’io, destroide convinto semi pentito alla visione di immagini ancora impresse nella mente, l’occhio fotografa ciò che la mente vorrebbe dimenticare in fretta, archivia le immagini in una cartella segreta il cui codice di auto-distruzione è top secret soprattutto a noi.
Vorrei non cancellare le immagini di miseria ma quelle della bellezza vista e toccata offuscano tutto il resto.
Non passa giorno che non ci penso, non passa giorno che con la mente non faccio il viaggio a ritroso rivedendo i colori, sentendo i profumi, toccando le cose, oggi si chiama realtà virtuale, anni fa semplicemente eccessiva fantasia, forza della nostra mente che materializza i desideri, abilità dell’uomo nel desiderare solo quello che in verità vuole veramente per se stesso o per gli altri, tutti desideriamo di vivere in un mondo migliore, ma tutti partecipiamo alla sua distruzione.
Hasta la vittoria siempre fratello, ripetevo ai tassisti sempre pronti a scucirmi qualche dollaro extra, giocando sulla finta amicizia e la pseudo-disponibilità, devono campà pure loro, mi convinsi, ma non del tutto, anche se un po’ d’italianità la si dimostra soprattutto in queste cose, tutto il mondo è paese, e quel tassista faceva solo il suo lavoro mentre io non valevo fare il mio, turista, e non per caso, per esplicita e manifesta volontà.
Una cosa che desideravo fare ma che successivamente è entrata a far parte dei nuovi sogni da realizzare a breve scadenza è prendere una macchina all’Avana ed attraversare tutta Cuba, meta Santiago, circa mille chilometri di strada priva d’asfalto, priva di soste confortevoli, se non per forature o incidenti, mille chilometri di libertà, da ricoprire con calma e tranquillità, senza fretta, senza orologio e senza prendere appuntamenti, stando a quello che mi hanno raccontato, l’inizio del viaggio comincia proprio alla fine, quando la realtà cede il passo alla più realistica fantasia.
Girerei il mondo per scoprire veramente me stesso, per vedere la capacità o l’insuccesso nel gestire situazioni a me estranee, e assurdo come certe persone hanno sempre la spasmodica esigenza di mettersi alla prova, di dimostrare a se stessi, e forse anche agli altri, che in fondo non siamo una nullità, che in fondo siamo in gamba, chi ha determinate qualità può sfruttarle in due modi, o fottendo gli altri o aiutandoli, io non ho idea di avere o meno determinate qualità, ma una cosa è certa, non fotterei nessuno.
Arrivammo a Varadero in un assolato giorno di metà Aprile, un indirizzo in tasca e null’altro, a parte i dollari meticolosamente messi da parte per pagare l’appartamento preso in affitto grazie ad un “amico” dell’Avana. La casa era di legno, blu, al secondo piano con una piccola ma graziosa veranda e due poltrone cariche di storia, il paesaggio era meraviglioso, mare e cielo erano divise da una linea rossa che alle otto di sera compare per avvertire il passaggio dal giorno alla notte.
Maria, la padrona di casa, una donna dal piacevole aspetto non più giovane ma curata, la grazia e la gentilezza mi confondevano, sembrava uscita da un film tipo via col vento, la tata ideale per impartire lezioni di vita, la nonna che ogni bambino dovrebbe avere e la mamma di una ragazzina bellissima ma vittima di un incidente che le aveva seriamente compromesso il movimento delle gambe, delle braccia, era semi paralizzata, ma la forza di volontà e l’amore della madre le avevano dato la forza di recuperare quel qualcosa che nessuna medicina locale o inesistente struttura ospedaliera le avrebbe potuto garantire, fu in quella circostanza che mi convinsi che l’amore fa miracoli, che la forza di volontà è superiore a qualsiasi cosa…
I primi due giorni furono di studio reciproco, poi scattò quella confidenza di circostanza che ci rende tutti amici, amici da sempre con i quali non si è condivisi nulla se non gli ultimi due giorni..
La mattina ci svegliavamo, con calma, la nostra stanza era come quelle che si vedono nei documentari sul colonialismo inglese nell’ottocento, tutta di legno recuperato alla buona non levigato, tendine ricamate di un bianco candido, persiane colorate e tanta serenità, quella serenità che nella mia stanza non avevo mai provato, con televisore a colori, video registratore, stereo, play station, telefono ed ogni forma di comfort che un perfetto occidentale come me può possedere… le troppe alternative mi rendono nervoso, li le alternative erano, leggere un libro, pensare, scambiare due chiacchiere col compagno di viaggio o dormire, qualunque delle quattro cose non ti fa incazzare, ti rilassa mentre nella mia stanza, guardare la tv ti rincoglionisce, stare al computer ti acceca, giocare alla play station ti rimbambisce.br> Quanto tempo occorre per dimenticare determinate cose, quanto ne occorre per dimenticare un amore, una donna incontrata, un luogo, una disavventura, un’avventura, quanto tempo occorre per poter scrivere la parola fine, il tempo nella sua relatività può essere galantuomo o tiranno, a me si è mostrato nei panni del tiranno, panni stretti per potersi mascherare a dovere, panni sporchi, vecchi, usurati dal tempo, l’Italia si ferma a contemplare le vicende di sei deficienti volontariamente chiusi in una casa e non si rende conto che milioni di persone sono chiuse nella morsa dell’indifferenza.
Oggi ho incontrato una persona che era appena tornata da Cuba, mi ha mostrato delle foto scattate li, una ragazzina nuda stesa sulla spiaggia, un finto sorriso spento sulle labbra, in una posa che secondo il mio conoscente era sexy, a parer mio, in quell’atteggiamento era racchiusa la vera umiliazione, questo è il tipico italiano che non riesco nemmeno a giudicare, il tipico italiano che avrebbe tante storie da raccontare, gli auguro di non trovare mai nessuno disposto ad ascoltarlo… Pesce che dorme se lo porta la corrente… ripeteva la mulatta dai lineamenti perfetti, io non capivo e la corrente continuava a trascinarmi via…