Yucatàn e Chiapas

di Alberto Sordi –

13 Febbraio – CANCUN

Cancun ci accoglie con una bella zaffata di caldo umido, e noi siamo ovviamente vestiti in maniera troppo pesante, ma va bene così: il Messico freddo non l’avremmo sopportato, avrebbe distrutto tutta l’iconografia mentale che, da Sergio Leone a Pino Cacucci, accompagna il nostro immaginario di turisti.
Zaini in mano, ci guardiamo attorno alla ricerca di un mezzo che ci porti in Hotel, ed individuiamo velocemente un collectivo in attesa. Ad onor del vero, siamo noi ad essere velocemente individuati dagli efficienti ed onnipresenti procacciatori di passaggi presenti all’uscita dell’aeroporto, ed in men che non si dica ci troviamo seduti sui sedili anteriori di un’enorme fuoristrada Made in U.S.A., già carico di altri sette od otto turisti italiani fai-da-te. Il taxi è spaventosamente grande, il motore incredibilmente silenzioso, l’aria condizionata dannatamente efficiente, e (come si meraviglia Morena) privo della frizione. Il silenzioso mostro su ruote ha il cambio automatico, è idroguidato, servoassistito, superpompato, il piccolo messicano lo guida in mezzo al traffico intenso con una sola mano ed un solo piede: lo voglio anch’io!
In poco meno di mezz’ora, il mostro su ruote ci scodella davanti al nostro albergo, ed alla reception recitiamo una piccola sceneggiata, che durante il viaggio ripeteremo spesso:
Messicano: tarocca qualcosa in inglese
Noi: No spic inglis…
Messicano: Habla Espanol?
Noi: No, ma capiamo uguale…
Col tempo poi affineremo questa tecnica linguistica di primo approccio, aggiungendo alle nostre risposte parole orecchiate qua e la, ed un po’ di spagnolo maccheronico (tipo : si prende la parola italiana e si aggiunge una esse alla fine). Sono sicuro di avere detto strafalcioni irripetibili, ma l’effetto complessivo sembrava abbastanza comprensibile a tutti.
Tornando all’albergo, solo una piccola annotazione: era decisamente puzzolente, un po’ fatiscente, leggermente pretenzioso, ma decisamente caro. Probabilmente in altri tempi era un hotel di una qualche pretesa, ma sessanta dollaroni per una notte in una fetecchia del genere ci convincono che Cancun non fa proprio per noi. Fortuna che domani ce ne andiamo.

14 febbraio da CANCUN a VALLADOLID

Zaini in spalla, arranchiamo sotto al sole di Cancun verso la stazione degli autobus, che fortunatamente si trova a poche centinaia di metri dall’albergo, e chi vediamo fare colazione in un barettino lungo la strada? Due ragazze che hanno preso il collectivo con noi la sera prima. Stanno pure loro fuggendo da Cancun, e sono dirette a Chichèn Itzà. Noi ci fermeremo a Valladolid, ma può darsi che ci si possa vedere alle rovine, ciao ragazze, e buon viaggio.
Il primo impatto con la stazione degli autobus è avvilente: i prezzi dei biglietti sono astronomici, e le nostre tasche già tremano! Poi capiamo che i messicani, come simbolo della valuta locale, il Peso, usano una esse del tutto simile a quella del dollaro, ma con una stanghetta in meno, quindi i prezzi, trasformati in lire, vanno ridotti di circa dieci volte. Respirando di sollievo, compriamo due biglietti per Valladolid, ed intanto che aspettiamo di partire, faccio la mia prima esperienza con la comida (cucina) locale, e compro un taco ad un baracchino lì vicino, accompagnandolo con una Coca Cola (avrei preferito una cerveza, ma non ne hanno). Il taco è una specie di piadina di mais (tortilla) imbottita di carne, salsa chili piccante e non so cosa d’altro, non è male, ma il palato italiano, abituato a colazioni con caffelatte e biscotti, è leggermente perplesso. Fa’ niente, si abituerà pure lui. L’autobus viaggia su di una strada drittissima con nulla attorno, e fa un sacco di fermate in mezzo al nulla per raccogliere gente che scenderà più avanti, sempre in mezzo al nulla. A rallentare ulteriormente il viaggio ci pensano le topes, enormi cunette d’asfalto messe nei pressi dei centri abitati, prima dei passaggi pedonali, prima degli incroci, accanto alle fermate, insomma dappertutto. Se non si rallenta fino quasi a fermarsi, le maledette disferebbero sicuramente sospensioni e/o coppa dell’olio. Mentre viaggiamo, le origini contadine di Morena hanno un soprassalto di curiosità: ma perché qui non piantano grano o frumento? L’agricoltore che è in lei si rivolta al pensiero della terra inutilizzata, e guarda perplessa fuori dal finestrino la distesa enorme di ettari ed ettari di boscaglia selvatica che costeggia la strada su entrambi i lati.
Dopo circa due ore e mezza di viaggio, entriamo in Valladolid dove, seguendo le precise indicazioni della Guida EDT (Dio li abbia in gloria!), troviamo subito un albergo in cui dormire. L’Hotel Maria Guadalupe è abbastanza fetente, ma costa decisamente una cicca: una doppia con bagno l’equivalente di 14.000 lire (non a testa, ma a camera). A guardarlo bene non è poi fetentissimo, si tratta in fondo di una pensioncina senza pretese come ne esistono ovunque, ma il rapporto qualità/prezzo la eleva decisamente sopra la media. Facciamo un giretto per la cittadina, molto tranquilla e con pochi turisti, passeggiando intorno alla plaza ed al suo zocalo. E’ un paesotto con niente di particolare, a parte forse una cattedrale di evidente architettura spagnola, con il suo bravo mercatino attorno alla plaza, un paio di banche, un terminal per gli autobus, qualche albergo, ed una farmacia-merceria-ambulatorio medico-clinica ostetrica (tutto in uno!), del Dott. Ortegon. I marciapiedi sono altissimi (capiremo poi perché), ed in compenso i balconi sono quasi al livello delle nostre teste, roba da sbatterci contro, ma del resto in queste zone l’altezza media non è granché, e ci aggiriamo in mezzo alla popolazione locale sentendoci dei giganti.
Camminando e passeggiando arriva sera, e ci fermiamo a mangiare in un ristorantino all’aperto non so bene che cosa, ma era piccante. Da bere Coca Cola, di avere una cerveza (birra) non se ne parla, e riesco bene o male a farmi spiegare il perché: gli alcolici li possono vendere solamente i bar od i ristoranti. Ma come, e questo non è un ristorante? No, al ristorante fanno comida (cucina), qui solamente dejaijunos (colazioni) e mordidas (spuntini). Va be’, intanto con questo spuntino ci siamo abbondantemente riempiti la pancia, spendendo praticamente niente, ma rimango un po’ deluso: a leggere Polvere del Messico sembra che qui la birra esca dalle fontane e dai rubinetti, e poi salta fuori che ci vuole la licenza… Andiamo a dormire, cercando di non disturbare la bestia nera e con un sacco di zampe che si aggira per la camera.

15 febbraio –  CHICHEN – ITZA

Ci alziamo presto per andare a Chichèn Itzà, ma sorge un piccolo problema tecnico: io devo fare colazione, di partire a stomaco vuoto non se ne parla, e quindi perdiamo il primo autobus. Verso le 8.30 ne passa un’altro, saliamo, ma il conducente non accetta dollari. I pesos li abbiamo usati per mangiare, e proprio non ne abbiamo più, ma il tipo dice che al terminal potranno sicuramente cambiarceli. Arrivati al terminal salta fuori che non è vero niente, che per cambiare bisogna andare al banco, nel centro di Valladolid. Morena è inkazzata come una jena  cui abbiano pestato la coda, dice che per colpa del mio stomaco stiamo solo perdendo tempo, che se anche perdo un paio d’etti di ciccia non muoio, ed il fatto che dal terminal degli autobus alla plaza ci siano si e no un paio di chilometri, che ce li stiamo facendo a piedi e fa un discreto caldo, non serve a calmarla. Quando poi arriviamo in centro, altro piccolo intoppo: oggi es domingo, e pure qua hanno l’insana abitudine di chiudere le banche alla domenica…
Già Morena pensa ad un divorzio rapido, quando la tecnologia ci viene in soccorso: c’è uno sportello automatico e, dopo una impari lotta contro una porta elettronica che non voleva aprirsi, riusciamo a prelevare un centinaio di pesos. La globalizzazione e l’informatica tenderanno pure ad appiattire il mondo, ma questa volta S. Billgates grazie!
Alla fine ce la facciamo ad arrivare a Chichèn Itzà, e di fronte alle meraviglie dell’architettura Maya-Tolteca, Morena si calma. E’ incredibile, non avrei mai creduto di riuscire a vedere la piramide El Castillo, di scalarla (sbuffando: le scalinate sono di novantuno gradini, con un rapporto alzata/pedata micidiale) e di restare lassù a guardare il panorama affascinante sotto di me, di passeggiare in mezzo al Gruppo delle Mille Colonne, di sedermi su pietre che (purtroppo per loro) hanno visto il passaggio dei conquistadores … toh, ma guarda chi c’è, le due tizie, piccolo il Messico, dove andate dopo? a Merida, anche noi, ciao, ci vediamo (forse).
E’ magnifico, siamo proiettati in un’altra dimensione, circondati da reperti storici antichissimi, da architetture potenti e sviluppate verso l’alto. Aleggiano nell’aria i movimenti solenni dei crudeli sacerdoti avviati al sacrificio, circondati da un alone di mistero e sapienza: sono forse loro gli eredi di Atlantide?

Alle 11, puntuali sotto un sole a picco, arrivano i carri bestiame da Cancun, facendo scomparire in un attimo ogni miraggio, e scaricano branchi di americani abbronzati, italiani urlanti, francesi sudati, tedeschi arrossati…
Insomma, a parte gli yankees, ci ritroviamo in piena Maastricht turistica, orde di formiche con carta di credito e videocamera seppelliscono la piramide, ed il posto, per quanto bello, perde immediatamente di fascino. E comunque c’è poco da recriminare, senza di loro probabilmente questo posto non avrebbe neppure i fondi necessari alla sua sopravvivenza e parecchie famiglie di messicani non avrebbero un reddito, ma… una cosa bella vorresti che fosse sempre solo tua, e dà parecchio fastidio vedere aggirarsi gente che cerca solo un posto all’ombra ed un chiosco con le bibite fresche!
Verso sera prendiamo l’autobus di ritorno a Valladolid, che risulta in ritardo di un’ora buona e stracarico. In piedi, e puntellato alla bellemeglio per non cadere, mi ritrovo letteralmente faccia a faccia con due tizi (Mauro e Chiara) di Molinella! Della serie il mondo è piccolo: sono pure loro alloggiati a Valladolid, e parla che ti parla, tra uno scossone e l’altro salta fuori che conoscono benissimo Alberta Bignozzi, e che lei è cugina dei Sarasini. Pensa te, ancora un po’ e siamo parenti, ed alla fine decidiamo di ritrovarci più tardi per mangiare qualcosa insieme.
Siamo appena rientrati nella nostra pensioncina, che si scatena un temporale da film, con lampi tipo fuochi artificiali, tuoni di conseguenza ed acqua che sembra buttata giù a secchiate. Quando in estate capitano cose del genere, siamo abituati a vederle durare poco tempo, un’ora al massimo e poi fine, ma qui sembra siano partite le prove generali del Diluvio Universale parte seconda! Dopo tre ore non era ancora finito, e sempre lampi e tuoni e acqua, e acqua e tuoni e lampi, tre ore senza interruzioni,  senza mai calare d’intensità, una cosa incredibile. Quando Dio vuole smette, e noi usciamo per andare a mangiare con i molinellesi, ma sorge un problema: sembra di essere a Venezia con l’acqua alta. Per riuscire ad arrivare nella piazza, facciamo un giro assurdo scavalcando pozze profonde come il Lago di Garda, guadando fiumi che fino al pomeriggio erano strade asfaltate, e finalmente arriviamo, capendo il perché dei marciapiedi dal bordo così alto.
Passiamo una serata carina, la cena è buona e diversa dal solito (spendiamo anche più del solito, e ci dev’essere un rapporto fra le due cose), e poi ciao a tutti, che domani si riparte, destinazione Merida.

16 febbraio – MERIDA



Appena scesi dall’autobus, prima piccola fregatura: decidiamo di prendere un taxi per andare in albergo. Il taxista ci prende 20 pesos (4000 lire, l’equivalente di un pasto), e ci fa’ viaggiare per ben 100 metri! L’albergo era letteralmente dietro l’angolo, ma non avevamo consultato la guida, e ce la siamo cercata.
La Posada del Angel è comunque dove dicevano quelli della EDT (che Dio li benedica!), e ci sono quartos (camere) libere. Posticino pulito, senza pretese ma molto centrale, una doppia con bagno e acqua calda costa più che a Valladolid (150 pesos), ma non si sono scarafoni e/o cucarachas. Inoltre è molto vicino al Terminal Camiones (come abbiamo imparato a nostre spese), ma non così vicino da farceli sentire quando sgasano.
Sistemati i bagagli, decidiamo di fare un giretto per la città. Merida (600.000 abitanti) è più piccola di Bologna, ma il traffico è peggiore di quello di Bangkok (12.000.000 di abitanti): tutti girano rigorosamente smarmittati, pestano sul clacson e sgasano, accelerano e frenano in continuazione ed i pulotti agli incroci dirigono (?) questo bordello fischiando continuamente. Arrivati alla Plaza Major ci guardiamo attorno un po’ perplessi, e ci sediamo in un angolo dell’onnipresente Zocalo; sarebbe anche un posto carino se fosse chiuso al traffico, e se non avessero pensato bene di montare un palco con un’amplificazione degna dei Pink Floyd, che ovviamente spara decibel a volontà. Inoltre, la selezione musicale varia tra la disco-horror ed il melenso andante con brio, ed è tutta roba yankee! Camminando camminando, ci attacca pezza un tipo loquacissimo, che ci racconta delle balle assurde, ci sviolina come pochi (robe tipo: gli italiani preferiscono il turismo culturale),  apprezza le donne italiane (su questo nulla da dire) e ci accompagna in un negozio di articoli artigianali, dove veniamo smollati alla commessa, raccomandandole di farci un buon prezzo. Comunque ci ha fatto un favore sul serio, perché il negozio è segnato sulla guida EDT come il migliore di Merida per quanto riguarda le amache, i cappelli di Panama e tutta una serie di altri prodotti artigianali. La tipa che ci accoglie inizia subito una recita in grande stile, dicendo che a noi farà il prezzo non da turista, ma quello riservato agli acquirenti locali… insomma, per farla breve, dopo una estenuante contrattazione, il prezzo “di favore” per un’amaca in agave (bella) si era ridotto della metà, ed abbiamo accettato per sfinimento, che sicuramente si poteva calare ancora.
Quasi alla conclusione dell’acquisto, chi ti passa sul marciapiede? Le due tizie solite, e ci salutiamo che sembriamo vecchi amici, dove andate dopo, quando siete arrivati, bello qui e bello là, ciao ciao, e non sappiamo neppure come si chiamano.
Torniamo in hotel, dove ci abboffiamo con delle tortas jamon y queso, che dal nome sembrano delle cose estremamente succulente, invece non sono altro che banalissimi panini al prosciutto e formaggio.
Piccanti.
Una curiosità: la Coca Cola che ha accompagnato il nostro lauto pasto, l’ho comprata in farmacia!

17 febbraio – UXMAL

Desiderosi di evitare la ressa, partiamo al mattino all’alba, ed arriviamo ai cancelli di Uxmal alle 7,30. Ovviamente è ancora chiuso e noi a stomaco vuoto, che per non ripetere la tragedia di Chichèn Itzà sono stato costretto a partire senza fare colazione. Di fronte al sito ci sono comunque degli alberghi-ristorante piuttosto belli, con piscina e grande patio con tetto di paglia (posti da turisti con soldi per intenderci), dove ci dirigiamo sperando che non ci caccino via. Invece ci portano da mangiare un’ottima colazione continental (succo di frutta, pan carré caldo, marmellata, burro ed il solito disgustoso caffè americano), non costa neanche tanto e ci fanno pure usare i loro bagni.
Nel frattempo aprono i cancelli del sito archeologico, e ci rendiamo conto che, nonostante la levataccia (5 della mattina!) non riusciremo a scansare i turisti americani, tutti alloggiati negli splendidi alberghi dei dintorni, freschi e riposati dopo una lunga notte di sonno e pronti ad entrare insieme a noi.
Comunque se Chichèn Itzà era bella, Uxmal è meravigliosa, e la nebbia del mattino la rende ancora più affascinante, anche se sicuramente nelle foto non si vedrà un accidente. La Piramide del Mago è strana, con la base ovale, ed io la risalgo immediatamente, rimanendo incantato dal panorama, il Quadrilatero delle Monache si stende di fronte a me, ed un puntino colorato all’interno del suo perimetro mi saluta: è Morena, che anche stavolta ha avuto paura e non è salita; ma dai non è mica difficile salire queste… dov’è finita la scala? Salendo non me ne sono reso conto, ma la pendenza di questa piramide è spaventosa, non riesco più a vedere i gradini, come accidenti faccio a scendere? Sono quasi paralizzato da una fifa blu, le vertigini si fanno sentire, ma non posso mica restare qua in eterno! Scendo lentamente alla  rovescia,
spalle rivolte al nulla, cercando di non pensare a dove sono e bene o male guadagno di nuovo la base. Le gambe mi tremano, e non è solo fatica…
Ritorno da Morena, e per oggi decido di non scalare più piramidi, che di cose da vedere ce ne sono a iosa anche al pianterreno, e che cose!
Il sito è più bello di quel che credevo, con le sue costruzioni disperse in un vasto perimetro di prati, grandi arbusti ed alberi a delimitarlo. C’è silenzio, e passeggiando s’incontrano dappertutto ricordi di come era mille anni fa, il cielo leggermente nuvoloso stempera il calore del sole, e si sta bene. Stiamo talmente bene che non abbiamo nessuna voglia di tornare a casa…
Quando verso le 10 esce il sole, arrivano pure le orde dei barbari ed un caldo mica da ridere. Girelliamo ancora in po’, e Morena raccoglie qualcosa da in terra: una Olympus con zoom incorporato! Non faccio in tempo a decidere se infilarla nello zainetto di Morena oppure nelle mie tasche, che un piccolo giapponese si precipita verso di noi profferendo suoni disarticolati e cacofonici: immagino che sia sua, maledizione! Gli allungo la macchina e quello comincia a sorridere ed arretrare, inchinandosi a più riprese e gli sorrido anch’io, augurandogli d’inciampare in un sasso: per poco non facevamo giornata…
Vicino all’uscita, assistiamo ad una scena che credevo facesse parte dell’iconografia barzellettiera più becera: un gruppo di giapponesi sta fotografando un cartello! Uno stupido cartello, con qualche indicazione sui luoghi ed un breve riassunto storico, scritto in tre lingue, con qualche macchia di ruggine e niente più, e quelli lo fotografano! Bah, de gustibus …
All’uscita del sito, guarda un po’ chi c’è, le due solite ragazze, altri saluti e poi ognuno per i fatti suoi. Passeggiamo un po’ nel piccolo centro commerciale fatto ad uso e consumo dei turisti, ed andiamo a sbattere contro ai molinellesi: decisamente piccolo il Messico, si incontra sempre la stessa gente! Perdiamo tempo guardando i turisti americani (molto grassi e molto buffi) ed aspettando un autobus per tornare a Merida, che arriverà soltanto alle 15.30, sarà pure pieno e ci toccherà fare il viaggio in piedi. Uffa!
Finalmente a Merida, mangiucchiammo qualcosa di piccante (tanto per cambiare. Morena comincia a sognare maccheroni col ragù, io faccio finta di niente, dico ma dai, bisogna sapersi adattare, ed intanto m’illanguidisco al pensiero di una pizza), compriamo l’anatra (di ceramica) per Alberto e poi a letto, che domani si parte (via aerea) per Villahermosa.
 

18 febbraio – VILLAHERMOSA

Nel pomeriggio atterriamo a Villahermosa nel Tabasco, fa un bel caldo umido, e sembra che trovare una camera libera (da poco) sia una piccola impresa. Dopo diversi rifiuti, e capendo come si sentivano Giuseppe e Maria a Betlemme, troviamo una camera all’Hotel Madero. La guida ne parla bene (cito): Hotel Madero, tra Reforma e 27 de Febrero, è un vecchio edificio non privo di un suo stile. Le stanze sono tra le migliori della città in rapporto al prezzo… Che sia un vecchio edificio, su questo non ci piove, che costi poco è un’assoluta verità, ma aggiungerei che è pure parecchio squallido, il gestore ha una faccia da delinquente, ed in compenso le persone che lo frequentano sembrano tanti assassini di mamme. Questa volta la EDT sembra averci dato una cantonata, o magari quando ci sono passati loro era meglio, in ogni caso optiamo per una botta di vita: questa notte dormiremo in un Hotel con qualche stella.
L’Hotel Miraflores, all’interno della Zona Remodelada ha camerieri sorridenti in divisa che ti prendono le valige, ti accompagnano alla camera, ti mostrano come funziona l’aria condizionata e la TV, ti informano che in bagno c’è l’acqua calda a qualsiasi ora, e si accontentano di 5 pesos di mancia. E’ decisamente più caro della fetenzia di prima (60.000 lire a notte: circa il triplo del Madero), ma almeno nessuno verrà a rapinarci delle valige!
Appena scaricato gli zaini, partiamo alla ricerca del Terminal Camiones locale, chiedendo informazioni ad un poliziotto che sembra uscito da un film, tanto la sua figura è simile a quella stereotipata delle produzioni americane: basso, grasso, coi baffoni, divisa spiegazzata, grosso revolver al fianco, uguale a quelli dei telefilm! Però è gentile, e si sforza di farci capire dove dobbiamo andare, ma parla un messicano talmente stretto e strascicato da lasciarci nell’indecisione più totale. Alla fine, dopo aver camminato per un altro po’, decidiamo di prendere un taxi, che ci fa fare un bel giro inutile e vizioso, visto che eravamo poi piuttosto vicini alla stazione degli autobus! Niente da dire, i turisti vengono potati anche da noi ma, dopo esserci informati sugli orari per Palenque, in albergo ci torniamo a piedi, che intanto ci guardiamo un po’ intorno.
A dispetto del suo nome, la città non è molto graziosa ma molto caotica (almeno la parte che abbiamo visto), con il solito traffico assurdamente fragoroso, tranne la parte remodelada (ricostruita) che è pedonale. Peccato che, come al solito, abbiano pensato di piantarci un paio di palchi con della musica a brocca! Va be’, farà parte del colore locale, tanto vale non farci troppo caso, ed ordiniamo un paio di tacos in un posto assurdo, dove una ragazzina grassa e svogliata ci porta il conto senza averci portato nulla da mangiare, e rimane ad aspettare che la paghiamo… Non è che il locale sia molto affollato, ci siamo solo noi ed un paio di pedofili locali, ed alle nostre rimostranze si meraviglia: tacos? Quali tacos? Ma quelli che ci devi ancora portare, adelante!
Abbiamo mangiato da un’altra parte, dove prima ci hanno portato la pappa, e poi la cuenta. Dopo la pappata, ci siamo messi a letto, ma prima di dormire, vai coi cartoni di Batman in spagnolo!
 

19 febbraio – PALENQUE

Facciamo un biglietto ADO di 1a classe per Palenque, e saliamo su di un autobus non male, con aria condizionata e TV color, dove ci fanno vedere “I ponti di Madison County” in inglese coi sottotitoli in spagnolo, e Morena riesce pure a commuoversi! Il viaggio non ha storia, solite topes e soliti villaggi, ogni tanto un posto di blocco ci ricorda di essere vicini alle zone degli Zapatisti, ma i soldati ci lasciano passare senza nessun tipo di controllo, e senza problemi raggiungiamo la nostra meta.
Palenque è il nulla, sembra fatto apposta per passarci in mezzo e non vederlo neppure, ma è vicino al sito archeologico omonimo, che rappresenta pure la sua principale fonte di reddito. Troviamo da dormire in un alberghetto economico e pulito, senza pretese ma pure senza scarafaggi, passeggiamo un po’ per il posto, mangiamo una frittata molto unta e con poco sale, accompagnata dalla solita Coca-Cola, diamo un’occhiata alla chiesa del paese, contrattiamo un Palo de la uja da un negoziante indio che non ha nessuna intenzione di calarci il prezzo, ed andiamo a dormire. La mattina dopo, cerchiamo e troviamo un collectivo per andare alle rovine, ed ingenuamente chiediamo quando parte: che domande, ma quando è pieno!
Eccoci dunque a Palenque ruinas: reperti Maya immersi in una fitta jungla subtropicale, caldo umido e urla di scimmie: mi sento molto Indiana Jones mentre scalo la piramide, ma il gruppo di veneti che trovo in cima mi riporta alla realtà. Comunque è fantastica, la scenografia naturale in cui sono immersi gli edifici sotto di me li fa risaltare in modo superbo. Le parole sono decisamente inadeguate per descrivere il panorama ed il fascino che emana da questo posto, come sicuramente saranno inadeguate le foto. Rimango ancora un po’ a guardarmi intorno, compiangendo Morena che ha paura e non è salita, poi inizio la discesa della ripidissima scalinata, pavoneggiandomi una volta a terra: Non sai cosa ti sei persa, è bellissimo, ecc… Parlando infiliamo un sentiero in salita, che dolcemente entra nella fitta vegetazione, svoltiamo a destra e… siamo alle spalle della piramide, ben oltre i tre quarti della sua altezza, ed una decina di gradini ci portano in cima.
Morena ride e mi prende per  i fondelli.
Giriamo un altro po’,  inoltrandoci nella jungla: fantastica, liane dappertutto, foglie gigantesche ed una vegetazione che definire lussureggiante è un eufemismo, squittii di animali ed uccelli invisibili, rumori strani che provengono dall’alto. Il sole non si vede, siamo sommersi dal verde, solo ogni tanto un raggio di luce si fa strada attraverso l’intrico fittissimo delle piante, proiettando la sua luce ad illuminare delle piccole radure: probabilmente il Paradiso Terrestre assomigliava a questo posto…
Dopo una mezz’ora di passeggiata, incrociamo un tizio scurissimo con in mano un machete lungo più di un metro che ci fa : Holà amigos!. E noi di rimando: Holà! Tranquilla come se fosse un vecchio amico, Morena si avvicina, gli prende il coltellaccio dalle mani e ne saggia la lama, facendo commenti sulle dimensioni dell’arnese, che è veramente notevole: una roba del genere ti schianta la cabeza come un cocomero! Il tizio ci dice che sta andando a disboscare intorno ad altre rovine nascoste all’interno. Buon lavoro amigo, ma noi torniamo verso le radure, il caldo e soprattutto l’umidità mi tagliano fiato e gambe…  Rimaniamo ancora per un’altra ora, camminando fra le strutture semi-sommerse dalla vegetazione, meravigliandoci dell’incredibile intrico di terra, roccia e pietre intorno  a   noi,   rendendoci conto di cosa significa lasciar fare alla natura, e di quanto il nostro passaggio sulla Terra sia insignificante ed aleatorio: qua esisteva una civiltà organizzata, in grado di creare una struttura sociale e tecnico-economica efficiente, con vaste conoscenze di matematica ed astronomia, ma è bastata una spinta esterna a farla crollare, e la Vita si è rimpossessata di tutto, sommergendo palazzi e strade, nascondendo piramidi enormi, travolgendo, con il suo implacabile e lento avanzare, opere costate fatica e vite umane, monumenti alla vanità di chi si crede superiore…

Decidiamo di tornare in centro, e sul collectivo del rientro conosciamo uno di Sassuolo che fa i mercati: ogni due anni molla tutto e parte, va in Sudamerica per un paio di mesi, e quest’anno è il turno del Messico. Bravo, così si fa.
In centro a Palenque trovo un negozietto di computer che offre un servizio di e-mail. Entro subito, ma “No esta linea. Manana …(Non c’è linea. Domani…)” Ti pareva. Ma domani non saremo più qui.

20  febbraio – S. CRISTOBAL DE LAS CASAS

Chiedetemi cosa ricordo meglio del Messico: i terminal degli autobus. Non ho mai viaggiato tanto in autobus in vita mia! Belli, brutti, con aria condizionata o coi finestrini rotti, smarmittati o silenziosi, ne ho visti veramente un sacco. Questo ci sta portando nel centro del Chiapas, a S. Cristobal de las Casas. Bella cittadina, molto “messicana”, tutto stile coloniale spagnolo, e col suo bravo mercato degli indios.
Ci guardiamo attorno alla ricerca di un hotel, ma l’immancabile turista italiano di passaggio ci dà una dritta non richiesta: “Quello è un buon hotel, carino ed economico”. Il tipo aveva veramente ragione, a parte il nome (Hotel Capri, ma pensa te…), è veramente buono, 125 pesos una doppia con bagno è un buon prezzo, la stanza è pulita, il bagno decente, la gente cordiale, e per arrivarci si sale su di una balconata in stile coloniale. Bellino, mi aspetto di vedere Zorro spuntare da qualche parte, ma siamo ancora troppo a nord, non sono le sue zone queste. Strano, qua ci sono le finestre…
Il perché delle finestre lo scopriamo la mattina dopo: fa frescolino, e bisogna girare con il giubbotto. Del resto siamo in montagna, e 2500 metri S.M. raffreddano la temperatura pure in Messico. La cittadina è veramente simpatica, decisamente la più bella di quelle sino ad ora visitate. Le case sono tutte dipinte a colori pastello, i marciapiedi altissimi ed il traffico tranquillo e quasi ordinato. Camminando per le sue vie scoviamo pure un negozietto che sembra fatto apposta per la felicità degli italiani in trasferta: CAFFÈ’, CAPPUCCINO E TORTE AL CIOCCOLATO! Non ci sembra vero, il cappuccino non sarà come quello di un bar di Roma, ma ci assomiglia abbastanza, e le torte sono buone. Claro che bisogna avere un po’ di pazienza per il servizio, e Morena si agita sulla seggiola, ci siamo solo noi ma il cappuccio non si  decide ad arrivare… bisogna adattarsi ai ritmi locali, la ragazza che gestisce il posto sta facendo delle chiacchiere con una sua amica, non si può pretendere che ci serva subito! Qua la fretta è un concetto sconosciuto, e probabilmente hanno ragione loro.
Finalmente ci servono, e noi spazzoliamo via tutto, il mio stomaco ormai assuefatto a tacos e frittate ha un momento di perplessità, poi ricorda e digerisce felice…
Passeggiamo tranquillamente, guardandoci attorno, ed intanto il giorno avanza, la temperatura sale e ci togliamo i giubbotti, ma non siamo ancora ai livelli di Palenque, qua l’aria è bella secca, ed anche al sole si sta bene. In centro, sul sagrato della chiesa, troviamo il mercato degli indios: tutto è steso in terra, i colori sono sgargianti  e quasi violenti, e piccole persone dalle facce bruciate vendono incredibili coperte fatte a mano, treccine portafortuna multicolori, cappelli, maschere, piatti, coltelli, tazze … bello, e decisamente autentico, questi scendono dalle montagne per vendere le loro produzioni, e di Made in Japan qua non se ne parla, probabilmente non sanno neppure dove sia il Giappone… Compriamo un paio di maschere in legno da una donna accovacciata in terra, e non contrattiamo neppure più di tanto, quasi vergognosi della nostra appartenenza alla privilegiata casta dei ricchi Europei. Una sorpresa: i bambini girano vendendo pupazzi che rappresentano il Subcomandante Marcos, l’inafferrabile e quasi mitico capo dei guerriglieri Zapatisti, una bancarella vende magliette con la faccia (perennemente mascherata) di Marcos e di altri guerriglieri. Tutta questa merce è rigorosamente venduta a prezzo pieno, di sconti non se ne parla assolutamente: Amigo, i soldi servono a finanziare la rivolta, mi spiega il venditore di magliette, quindi niente contrattazione. Sono perplesso e meravigliato, ma qua siamo in pieno Chiapas, e le truppe governative evidentemente ci vanno piano, lasciando correre per non scatenare casini troppo grossi. Comunque io rimango lo stesso perplesso: non sapevo che le rivoluzioni si finanziassero anche con i gadgets per turisti.
In centro poi, davanti ad un’incredibile chiesa dalla evidentissima influenza spagnola, troviamo un’altro baraccotto che sponsorizza la rivoluzione, con esposta una bella bandierona rossa con stella al centro, e tre lettere stampate sul bordo inferiore: F.L.N. che stanno ovviamente per Fronte de Liberacion Nacional, dove si vendono libri, videocassette, poster e si raccolgono sottoscrizioni. Strana rivoluzione, ho sempre pensato che i fiancheggiatori dei guerriglieri stessero un po’ più defilati, non dico alla macchia, ma che almeno agissero in segreto. Macché, Viva Zapata! e poche balle, cacciate la grana che dobbiamo fare una rivoluzione! Penso al Bertinotti, che è venuto qua a farsi fotografare con Marcos, e facendo credere a chissà quali misteriosi percorsi attraverso segreti sentieri di montagna… ma va là! Basta chiedere un po’ in giro, ed una foto con Marcos non te la nega nessuno, basta smollare un po’ di pesos, ed il gioco è fatto. Va be’, magari non sarà proprio così che funziona, ma ciò non toglie che una rivoluzione così alla luce del sole non credevo che potesse esistere.
Terminiamo la giornata prenotando un aereo per Cancun, ma salta fuori che diretti da Tuxla Gutierrez non ce ne sono, e ci tocca accontentarci di un volo un po’ strano: Tuxla-Ciudad De Mexico-Cancun, praticamente il giro del Messico via aerea, ma ce lo offrono scontato, ed è sempre meglio che farsela in corriera.
Intanto che stiamo cercando il volo, un paio di turisti italiani fai-da-te come noi ci avvicinano, chiedendoci se veniamo dal nord dello Yucatàn. Effettivamente è così, e gli diamo alcune dritte su dove andare a dormire e mangiare a Valladolid. Sfogliamo insieme la pianta della cittadina sulla Bibbia dei Viaggiatori che anche loro possiedono (EDT ovviamente), e ciao e grazie. Chissà chi erano?

Il giorno dopo decidiamo di andare a vedere il Canyon Sumidero, descritto come una meraviglia naturale, rivale del Gran Canyon statunitense, e ci imbarchiamo su di un pullman per Chiapa de Corzo, a circa 70 Km. da S. Cristobal. La corrierina non è niente di speciale, un tipico mezzo di trasporto locale, non di prima classe ma neppure troppo sfasciato, carico di varia umanità, compresi un paio di altri turisti italiani.  Partiamo di mattina, e l’aria è fresca, quindi siamo abbastanza vestiti: Jeans, camicia a maniche lunghe, giubbino. Ovviamente, dato che Chiapa de Corzo è abbastanza più in basso, quasi in una valle, quando arriviamo c’è un bel caldo estivo e cominciamo subito a sudare. Inoltre Morena non è troppo entusiasta della gita, lei sarebbe voluta andare a visitare i villaggi indios dei dintorni, ma io mi sono opposto, dicendo che mi sembrava poco opportuno andare a fare i turisti sulle miserie altrui.
Insomma, tra il caldo ed i vestiti sbagliati, l’atmosfera non è delle più distese, aggiungiamo pure che il Canyon Sumidero, nonostante i suoi 1000 metri di profondità, è abbastanza deludente, imbrancati come siamo a bordo di una lancia carica di altri turisti, che c’è un coccodrillo (chiaramente drogato) che galleggia pigramente per farsi fotografare… insomma, aveva ragione lei, era meglio andare dagli indios.
Il ritorno però merita di essere ricordato: dopo una lunga attesa, si ferma un autobus che, ad una prima occhiata, sembra malmesso. Dopo aver pagato il biglietto ci attacchiamo ai sostegni (ovviamente solo posti in piedi) e ci guardiamo attorno: non è malmesso, è proprio sfatto. I finestrini sono rotti, i vetri rimanenti non sono tutti dello stesso colore, i sedili spaiati, e l’autista è  pazzo e/o ubriaco. La strada è una tipica stretta strada di montagna, e la prudenza vorrebbe che si guidi con particolare attenzione, ma quella specie di Nuvolari coi baffi al volante della carretta sorpassa a tutto spiano, sia in discesa che in salita, sia nei rettilinei (pochi) che nelle curve (molte). La gente a bordo mormora “es loco, es loco”, e tutti hanno gli occhi fissi sulla strada. Ma il Dio Maya dei pazzi ci assiste, ed arriviamo sani e salvi, magari sudati ma interi.

23 febbraio – TUXLA GUTIERREZ/CIUDAD DE MEXICO/CANCUN/TULUM

Mattina prestissimo, quasi notte. Saliamo su di un Collectivo con destinazione aeroporto di Tuxla Gutierrez, carico di pendolari messicani. A bordo le uniche facce bianche sono le nostre, Morena è stretta fra due tizi mezzo addormentati, ed io fra un tizio ed una tizia.
Dopo più di due ore, arriviamo, e sbarchiamo finalmente nel piccolo aeroporto di Tuxla, dove facciamo colazione guardando cartoni animati. Al momento dell’entrata in sala d’attesa si verifica un fatto strano e spiacevole: una delle guardie presenti mi fa aprire il bagaglio, e pretenderebbe di sequestrarmi il Palo de la uja acquistato a Palenque. Lo guardo allibito, cosa vuol dire questa storia? Il tipo mi dice che secondo lui si tratta di un’arma impropria (?), che potrei sbatterla in testa a qualcuno! Alè, adesso mi metto a dirottare aerei con un souvenir. Protestiamo vivamente, ma guarda cosa c’è scritto su, Recuerdo de palenque, altro che arma impropria! Ma quello niente, irremovibile. Intanto si avvicina una sua collega che ha seguito la scena, e fa in modo che lui molli la pezza e ci lasci andare, facendoci segno di passare. Ringraziando e borbottando passiamo i cancelli e ci mettiamo ad aspettare il nostro volo: ma pensa te, un’arma impropria! Pensandoci bene, poteva essere una scusa assurda per farsi dare qualche peso sottobanco dai grassi turisti, ma la sua collega gli ha stroncato il mercato sul nascere, a quel figlio di ottima donna.
Arrivati a Ciudad de Mexico, giù dall’aereo e via a cercare la coincidenza (abbiamo solo mezz’ora), altra saletta d’aspetto, ed altro aereo. Mentre decolliamo, guardiamo la città sotto di noi: è immensa, non se ne vedono i confini… Arriviamo a Cancun nel pomeriggio, e da lì via alla stazione degli autobus, e poi via di nuovo per Tulum, dove contiamo di farci qualche giorno di mare prima del ritorno.

Arriviamo a Tulum che è quasi sera, ed ovviamente non sappiamo dove andare. Via, altra botta di vita, decidiamo di rovinarci facendoci scarrozzare da un taxi per tutta la costa, alla ricerca di un posto per dormire. In cabanas non se ne parla, i posti più belli sono già al completo, e di alberghi, per quanto riguarda la guida EDT c’è ne uno solo, ma è talmente fetente che lo sconsiglia.
Ormai il buio è vicino, e ci facciamo potare il portafoglio da un puerco che gestisce una fetida serie di bungalows e cabanas proprio a ridosso della spiaggia. Lui posto ne ha, e per forza, coi prezzi che pratica! Ma non abbiamo molta scelta, e ci lasciamo sfoltire la moneta. Bisogna ammettere però che la posizione è invidiabile, ed il mattino dopo ci appollaiamo su di una spiaggia bianchissima, al riparo dal sole sotto una palma da cocco, e facciamo diversi bagni in un’acqua perfettamente trasparente dai riflessi verde-azzurro-oro. Ritemprati, controlliamo con più calma i dintorni e… voila! proprio davanti al fetido hotel El Crucero, salta fuori un’altro albergo, nuovo di trinca, magari dal gusto un po’ pacchiano-yankee per quanto riguarda le finiture, ma con comode camere con bagno, TV e ventolone sul soffitto, a neanche 800 metri dalla spiaggia, e con i prezzi che sono la metà del puerco! Ovviamente trasferiamo immediatamente baracca e burattini, felici come non mai.
Passiamo così un paio di giorni di una noia totale, assoluta e meravigliosamente rilassante: bagno in acque cristalline, relax all’ombra delle palme, raccolta di conchiglie, attenta osservazione dei nostri ombelichi, poi ancora bagn… Unica nota di movimento quando decidiamo di dare un’occhiata a Playa del Carmen, una località  un po’ più a nord, dove scoviamo una riserva di americani. Pensa un po’, credevamo di essere in Messico ed invece ci troviamo all’improvviso a Miami: strade lisce, guardie all’ingresso, casette tutte uguali, piscine e bar cromati sparsi dovunque, ci sono pure delle finte rovine piazzate in mezzo ad una finta jungla! Ma che se ne fanno delle piscine con un’acqua così? Mah, valli a capire gli yankees.
Una cosa interessante c’è: la Posada Corto Maltes, con tanto di facciona di Corto con sigarillo sopra l’insegna! Grande, se lo sapevo ci venivo a dormire.
Purtroppo si avvicina la partenza…

28 febbraio – CANCUN/VERONA/CASA

Piccolo guaio: prima di partire mi faccio un male cane alla schiena (che poi si risolverà in una bell’ernietta), e quindi la tribolazione che ho fatto nell’affrontare il ritorno la lascio solamente immaginare! Meno male che Morena ha fatto allenamento in gioventù con le cassette di pere, perché le valige da ora in poi se le sbatte tutte lei da sola.
Dopo ore di pullman (in piedi!), arriviamo all’aeroporto di Cancun con la mia schiena in condizioni disastrose, quasi non riesco a camminare, e cerco di stendermi su di  una scomodissima panchina, provocando le irate rimostranze di una tedesca. Morena cerca di spiegarsi, di farle capire che sto da cani, ma quella o non capisce, o non gliene può fregare di meno. Chi capisce, è un ragazzo italiano che mi offre del balsamo di Tigre: bengentile, ma non conta niente!
Per evitare di litigare con la frau,  mi trascino in un angolo dell’aeroporto, e mi stendo in terra con lo zaino sotto la testa, mentre Morena va ad informarsi per il check-in. A farmi compagnia rimane il ragazzo del balsamo di tigre, che si rivela una compagnia divertente ed interessante: è diplomato al conservatorio, ha lavorato per un po’ in Germania, poi è andato a trovare degli amici in California, e si è stabilito negli U.S.A. Adesso vive ed insegna musica a New York, si è sposato con una portoricana, ed a Cancun è di passaggio per andare a Cuba, dove terrà  dei concerti. Praticamente ‘sto tizio ha fatto la vita più tranquilla e banale del mondo!

…E dopo undici ore di aereo siamo finalmente a casa! Giuro che questa è stata la prima volta che ne sono così felice: devo coricarmi, sennò muoio qua dove sono!

Il Viaggio Fai da Te – Hotel consigliati in Messico

 

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