Bertrand l’africano, uno di noi

di Nicola A. Samà  –  
Bertrand, bel giovane di una trentina d’anni, era partito dal Camerun non si sa quando e aveva intrapreso un viaggio di cui presumibilmente non conosceva né la durata né il percorso né le difficoltà. Sapeva solo che l’obiettivo era l’Europa.

Per essere la realizzazione di un progetto di vita ritenuta migliore, questa iniziativa non sembrerebbe una buona base di partenza. Tuttavia, il viaggio l’ha fatto e sappiamo che il giovane è giunto sulle coste italiane l’estate scorsa (2017) con il solito barcone comandato da “esperti” scafisti. Finito, come tanti migranti, in un centro di accoglienza calabrese, sembrava in attesa di essere regolarizzato con un permesso di soggiorno e di ottenere un eventuale trasferimento verso il nord Europa. Questo sarebbe stato, in verità, un progetto andato a buon fine.

Ma non è andata proprio così e lo scopriremo in fondo all’articolo.

Ho esperienza dell’Africa nera, avendo soggiornato come medico volontario, per alcuni mesi dal 2011 al 2014, in un villaggio di bambini orfani HIV+, nel nord del Kenya, quasi sull’Equatore. Potrei ricostruire la vita di Bertrand da bambino fino alla giovinezza, raccontando del suo ambiente familiare, della capanna, delle incombenze domestiche, della scuola, del suo tempo libero, delle malattie che lo hanno colpito. Certo, non ho soggiornato in un Paese con problemi di guerra civile, anche se da alcune zone costiere del Kenya e dalla capitale Nairobi, oltre che dai confini con la Somalia, ogni tanto giungevano notizie di attentati. Il Camerun, del resto, non è un Paese con forti conflitti, anche se non sono rari attacchi armati di gruppi ribelli e rapimenti di turisti.

Dunque, quali possono essere state le valide motivazioni per interrompere la permanenza nella sua terra e nella sua famiglia e partire alla ricerca di una ignota meta lontana, che gli avrebbe regalato una plausibile vita migliore? Non fuggiva da un Paese in guerra, che lo avrebbe costretto eventualmente ad espatriare in un Paese limitrofo, come avviene altrove. Il Camerun risulta uno dei Paesi africani più stabili, c’è sviluppo agricolo e c’è il petrolio. Non mancano, certo, sacche di povertà e probabilmente Bertrand apparteneva a una famiglia di modeste condizioni. Egli, verosimilmente, aveva ricevuto informazioni più o meno attendibili sul fenomeno dell’emigrazione verso la “mitica” Europa, considerata come il luogo dove si vive bene. Dubito che le stesse fossero altrettanto chiare sulle modalità con cui la migrazione si sarebbe svolta.

Bertrand insieme con altri compagni sarà partito con entusiasmo all’avventura, a piedi per il deserto, fornito del necessario, incluso il denaro per l’attraversamento del mare, ammesso che lui ne conoscesse l’esistenza. Tali viaggi della speranza sono ormai documentati dai mezzi di comunicazione e sappiamo con quale sforzo e difficoltà vengono affrontati. Questo gruppo di migranti avrà trascorso mesi per attraversare il deserto e altri Paesi per circa 3.000 km, prima di giungere in prossimità del mare, dove finiva rinchiuso in un ignobile campo di raccolta libico, in attesa di un eventuale imbarco. Bertrand alla partenza sicuramente non poteva immaginare quanta sofferenza avrebbe dovuto sopportare e quanti maltrattamenti subire da parte di persone che gli carpivano il denaro per il trasferimento. Non sappiamo quanto durò questo soggiorno libico, comunque un giorno Bertrand si ritrovò con decine di altri migranti gettato su un barcone, in balia delle onde e delle angherie degli scafisti. Avrà sofferto la sete, avrà ascoltato i gemiti di donne e bambini, avrà visto morire qualcuno, gettato poi senza ritegno in mare. Avrà senz’altro consumato tutte le sue energie giovanili, resistendo alle contrarietà del viaggio in virtù di una speranza.

Non sapeva, forse, di avere in corpo qualcosa in più, che covava contro di lui inesorabilmente.

Raccolto da qualche nave di salvataggio, raggiunse le coste italiane e finì inviato nel centro di accoglienza di Lamezia, finalmente un ambiente decoroso. I segni dell’immane sofferenza subita durante il gravoso viaggio si rivelarono in brevissimo tempo: era talmente dimagrito che si reggeva a fatica in piedi. Sottoposto agli esami ematici risultò affetto da una grave malattia linfatica.



Per fargli recuperare peso e forze, al fine di poter affrontare la chemioterapia, dall’ospedale dove era stato ricoverato fu trasferito nel nostro Sant’Andrea Hospice. Quando vi giunse restammo inizialmente tutti perplessi, perché ci sembrava un ricovero per lo meno atipico. Il giovane appariva denutrito e sofferente, spaurito per trovarsi da solo senza compagni in un ambiente non previsto; biascicava un francese poco comprensibile. Fu intrapresa un’alimentazione intensiva: gradiva molto gli alimenti nostrani, ma gli procurammo anche il couscous; preferiva dolci e cioccolato in modo esagerato, che sgranocchiava anche la notte. Cominciò a lamentare dolori non ben identificabili e noi, riscontrando l’inefficacia dei comuni antidolorifici, pensammo addirittura che fosse solo un modo di richiamare l’attenzione. Il fisioterapista elaborò un programma di riabilitazione fisica, che piano piano diede al giovane un’autonomia di movimento in carrozzella. Fece presto amicizia con gli operatori coetanei, che lo coccolavano fornendogli anche videogiochi. Settimanalmente venivano dal centro di Lamezia operatori che comunicavano in lingua, cercando di comprendere meglio i suoi bisogni. Quando capì che il suo recupero fisico gli avrebbe consentito di affrontare la chemioterapia, divenne quasi più docile e dedito a una condotta più regolare. Furono sperimentati diversi farmaci per controllare i dolori e l’ansia che interrompeva il riposo notturno. Settimana per settimana il suo peso aumentava, i muscoli riprendevano più vigore, il suo organismo diveniva idoneo per una cura più specifica.

Così, dopo circa due mesi tornò in ospedale e iniziò la chemioterapia.

Per quanto Bertrand si fosse sforzato nel recupero fisico, la terapia fu pesante per lui, fino a indurre i medici a disporne l’interruzione. Tutto questo cambiava completamente il quadro della prospettiva di vita di quel giovane sfortunato. Non restava, purtroppo, che tornare all’Hospice, non più per un programma di recupero, bensì di accompagnamento verso un infausto destino.

Rientrò, difatti, con un atteggiamento amareggiato e rassegnato e con sintomi più evidenti di sofferenza mal tollerata. Stavolta veniva accolto da noi tutti con particolare affetto e solidarietà e il nostro compito veniva svolto con un’attenzione più premurosa verso i suoi bisogni. Per circa tre mesi siamo diventati “la sua famiglia” (parole sue!), anche se esprimeva nostalgia per i compagni africani del centro di Lamezia. Girando per l’Hospice in carrozzina si soffermava di buon grado davanti alla finestra da cui si scorgeva in lontananza l’azzurro mare, ma il suo sguardo diveniva presto triste, in un turbinio di sentimenti contrastanti. Personalmente, quando mi avvicinavo a lui, mi prestavo a fargli dei massaggi nelle parti più dolenti: capivo che quel contatto richiesto e atteso era piuttosto un bisogno psicologico di sostegno e alla fine notavo con soddisfazione il suo volto rasserenato e compiaciuto.

A lato o nel mezzo del problema della salute, Bertrand aveva intrapreso un percorso spirituale: durante il ricovero in ospedale aveva ricevuto il Battesimo, da noi in Hospice si è prospettata la Prima Comunione. Si è organizzata, dunque, una festa in grande stile, invitando tante persone, tra cui i suoi compagni del centro di Lamezia e familiari di altri pazienti. Nella sala polivalente c’è stata la Messa con il coro, poi la catenina con medaglietta ricordo, i doni, le foto, la torta e cibarie di ogni tipo. Pur con il volto visibilmente contratto per il dolore lui aveva partecipato alla festosa celebrazione, tra gli abbracci e le sollecitazioni affettive dei presenti.

Come il canto del cigno, subito dopo questa gioiosa giornata cominciava il declino inesorabile.

Era ormai un giovane dagli occhi spenti, silenzioso, non servivano parole per esprimere la consapevolezza del destino avverso che stava subendo, pur sentendosi circondato da tanta cura e affetto. La musica, che inizialmente era un passatempo gradito, diventava muta. Le coccole del primo periodo non avevano più lo stesso sapore vitale per lui e a un certo momento non erano utili, prendendo il sopravvento uno stato di abbandono delle forze.

Un clima di tristezza si diffondeva tra tutti gli operatori, costretti pure loro alla rinuncia e alla rassegnazione. Bertrand, ritirato in un silenzio ferale, lasciava la giovinezza e la vita nelle mani della “sua famiglia”, per l’occasione stretta attorno al suo capezzale.

Il funerale ha visto la partecipazione di una numerosa folla, primi fra tutti i tanti e commossi compagni di quello che era stato, solo per pochissimo, il suo centro di accoglienza.

 

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Per norme burocratiche vigenti, Bertrand poteva essere sepolto nel nostro cimitero di Sant’Andrea Ionio.

Fu scavata una fossa e lì fu calata la nuda bara, su cui ho gettato la mia zolla coprente.

Ho pensato che la terra in cui ora è sepolto rappresenta il suo legame definitivo con quella africana, che aveva lasciato senza rimpianto per un futuro migliore.

 

 

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