di Aldo Cattaneo e Letizia Carducci –
DICEMBRE 1999: Da sempre, in prossimità della partenza per un viaggio, vengo colto da ansia, ripensamenti e quant’altro di irrazionale possa esserci. Stati d’animo immediatamente rimossi nel momento in cui la mente comincia ad immaginare le mete dell’imminente destinazione turistica. Ed è in una situazione analoga che, una settimana prima della partenza, Alessandro mi chiede perché insisto nell’andare sempre in “questi posti”. È comparso sulla porta della sua camera con un’aria piuttosto persa, dovuta probabilmente al continuo studio per l’imminente esame di Analisi 2, ma con un piglio che non lascia dubbi. Non ho ancora risolto il dubbio: la domanda è dovuta ad una qualche flebile forma d’invidia o da reale ritrosia verso i paesi orientali? Ecco comparire sulla porta della cucina sua madre, e di conseguenza mia moglie Rosanna. Con aria decisa, forte dell’asciugapiatti che tiene in mano, fa da eco alla richiesta del figlio: Avanti, spiega ad Ale come mai in questa casa si fa sempre quello che decidi tu ed anche questa volta andiamo in un paese del sud est asiatico? Con tante belle mete più tranquille: Parigi, Praga, Londra, insomma una capitale europea! Verrebbe voglia di ricordare che in casa ognuno di noi ha dei ruoli e/o delle professionalità ben distinte, che gli altri devono riconoscere, ma so che l’affermazione è da percorso di guerra ed allora punto tutto su un breve, ma inciso richiamo turistico della Birmania, ora Myanmar. Mi sento tanto il Coyote dei cartoni animati: certo di aver agguantato Bip-Bip, scopro di essere nel vuoto, con vista del gran canyon sotto i piedi.
E comunque eccoci qui nel Myanmar che ci accoglie con un delizioso clima ed una altrettanto deliziosa accompagnatrice che si presenta così: Sono Somo.
Abbiamo viaggiato tutta la notte su una dignitosissima carrozza di un lungo e povero treno che da Bago ci ha portato a Mandalay. Ho avuto la sensazione di sfiorare, ma solo lontanamente sfiorare, la vita quotidiana dei birmani nella loro paziente attesa e negli sguardi sperduti a fissare chissà cosa, chissà dove. Ho cercato il loro sguardo e non ho colto nulla di invidioso, ma una dolce oscillazione fra lo stupore dei giovani e l’incredulità degli adulti. Mi sono anche sentito a disagio nell’usufruire del loro “facchinaggio” come un viaggiatore dell’ottocento. La coscienza è stata messa a tacere con la scusante che in tanti si accalcavano per i pochi soldi del servizio offerto. E così la nottata si è trasformata in una tappa piena di aspettative.
La prima luce timidamente entra nei vagoni, mentre le leggere nebbie mattutine avvolgono il paesaggio. Non riescono a nascondere la periferia anonima, simile a quelle di tante altre città. Il degrado omogeneizza tutto: sembra quasi la prova generale del villaggio globale che attende i nostri figli. Per fortuna lasciamo subito la città per attraversare il fiume Ayeyarwady e trovarci in un luogo di grande serenità: è Mingun. Nulla di particolare, ma vuoi per i lenti movimenti dei pescatori sul fiume, dei tanti uomini che faticosamente spostano grossi tronchi di tek, dei venditori di souvenir che pur volendo vendere i loro prodotti non hanno l’insistenza che si trova altrove. Che dire poi di quei bianchi buoi che portano a noi il ricordo degli splendidi animali delle dolci colline toscane e del mondo dei nostri nonni? Un senso di serenità mi pervade e noto che anche Rosanna non è tesa, non è in continua apprensione, come l’anno scorso in India. È piacevole gustare una pannocchia cotta all’ombra di un grande albero. Il sole alto è già caldo e la primavera in questo luogo è già arrivata. Accaldato mi accorgo di avere ancora ai miei piedi i perfetti scarponcini da trekking con i colori sgargianti del nostro mondo occidentale. Le donne ed i tanti bambini, che incuriositi ci guardano sorridendo, hanno invece dei semplici sandaletti infradito, di plastica, da pochi soldi, da noi considerati ormai oggetti usa e getta per la loro “non moda”.
Dobbiamo lasciare questo mondo ovattato da tanti ricordi ed avviarci veloci, con la tipica frenesia occidentale, verso nuove pagode. Sono pagode di grande bellezza e fascino, così come lo sono state quelle già viste. Ma questa sera l’operazione di togliermi le scarpe ed i calzini la eseguo con uno spirito diverso, i miei occhi non cercano gli scarponcini fra i consimili occidentali, ma osservano quel mucchio indefinito di infradito orientali dei tanti fedeli che entrano nelle pagode a pregare.
Non è facile per un occidentale adattarsi ad alcune regole orientali. Camminare a piedi nudi nelle pagode ti richiama immediatamente alla mente una lunga lista di infezioni che richiederanno poi tempi lunghi di recupero. Forti delle esperienze degli anni precedenti ci siamo attrezzati con un “paio di calzini da pagoda”, ma non sempre è possibile indossarli in quanto guardie severe ti impongono la rimozione. Ed allora comincia una specie di percorso di guerra dove la nostra attenzione coglie la bellezza dell’arte locale ma identifica i possibili inconvenienti sul suolo: sterco dei tanti uccelli che leggeri volano tra le vesta del Buddha, terreni impervi che passano dal freddo marmo, alla scivolosa ceramica e poi al calore del mattone, allo sputo di betel (all’ultimo stadio della masticazione) con quel colore rosso che sembra sangue. Non sono luoghi sporchi, il popolo birmano ha un grande senso della pulizia, ma è il concetto occidentale di pulizia che viaggia su un livello diverso. Nelle pagode più importanti poi, frotte di donne provvedono alla pulizia del pavimento con una cura ed una tecnica del tutto particolare. Viaggiano compatte come una truppa romana, armate di doppia scopetta di flessuosa saggina, e con passo veloce accumulano, in alcuni angoli, apparentemente il nulla, che una seconda linea provvede a raccogliere ed eliminare.
Sta di fatto che stasera, la visita della pagoda di Kuthodaw la sto effettuando con animo diverso. Sarà forse per la tranquillità del luogo con le tante piccole cappelle che racchiudono ciascuna una pagina del “libro più grande del mondo”, sarà il candore del bianco alla luce del tramonto in un cielo terso, quasi turchese, sarà forse per quel grande ficus benjamin che con i suoi rami spropositati sembra voler assediare, più che proteggere, i piccoli templi. O forse sarà che i miei piedi nudi camminano liberi, senza ossessioni occidentali, liberando la mente al piacere assoluto di godere cotanta armonia. Un senso di serenità, già vissuto nel recente passato, lassù fra i monti ed i monasteri del Ladhak. Un aiuto fondamentale per cogliere lo spirito birmano nella restante parte del viaggio.
Se il Buddha dorato della pagoda di Mahamuni ti colpisce per la dolcezza del sorriso ed il luccichio del suo oro, la devozione della gente ti riporta immediatamente alla tranquillità della loro vita, così come il lento incedere dei contadini intenti alla preparazione delle risaie ha il passo dell’armonia. Ci sono tutte le premesse per una bella giornata e così sarà.
Con una filante barca locale attraversiamo il fiume e ci portiamo ad Ava, dove ci stanno aspettando calessi locali per una immersione totale in un mondo dimenticato. Ho un’idea del tutto personale sulla dimensione dei sentimenti e delle emozioni. Sono fermamente convinto che ognuno di noi è consapevole di capire che cosa significhi amare, soffrire, ricordare, pensare, etc., ma solo l’esperienza vissuta direttamente ti porta a quantificare la dimensione del fenomeno. Tutto questo per affermare che mi è sempre stato chiaro cosa fosse il mondo contadino dei miei nonni, ma solo l’esperienza diretta, in un mondo simile, mi ha permesso di capire cos’è il canto degli uccelli, il lontano vociare dei contadini nelle risaie, le grida dei bambini nel loro incessante rincorrere i calessi, lo zoccolìo dei cavalli e quant’altro fa mondo agreste. Lontano poi, un dolce canto di preghiere buddiste richiama immediatamente la mia attenzione, ed allora, via veloce a scoprire da quale parte giungono. Ai piedi della scala è un attimo lasciare scarponcini e calze per cercare in quale ala del monastero i monaci sono raccolti in preghiera. E finalmente eccoli. Sono giovani monaci alle prese con lo studio, sotto il diretto controllo di un monaco anziano. Ripetono all’unisono le letture. Le luccicanti macchine fotografiche, l’abbigliamento colorato e la frenesia del nostro comportamento sono motivo di distrazione, ma è sufficiente un semplice richiamo del monaco anziano perché la lezione riprenda all’unisono. Che dolce sensazione, che pace, mi sembra perfino banale sottolineare che le impressioni migliori non sono state impresse sulla pellicola fotografica ma nell’archivio dei ricordi.
E solo un tramonto mozzafiato, con i colori che gradualmente sono passati dalle tonalità oro al rosso porpora, ha alleviato il distacco. Il sole, ovunque, tramonta sempre nello stesso modo, è il nostro stato d’animo, la nostra predisposizione che li rende infinitamente diversi. Questa sera ho goduto di un grande tramonto.
E solo un tramonto mozzafiato, con i colori che gradualmente sono passati dalle tonalità oro al rosso porpora, ha alleviato il distacco. Il sole, ovunque, tramonta sempre nello stesso modo, è il nostro stato d’animo, la nostra predisposizione che li rende infinitamente diversi. Questa sera ho goduto di un grande tramonto.
Viaggeremo a bordo di un traghetto locale per 17 infinite ore, fra la gente, passeremo giornate indimenticabili a Bagan, fra migliaia di pagode e tramonti indescrivibili, festeggeremo l’arrivo dell’anno 2000 in una affascinante atmosfera birmana con leggere mon-golfiere di carta che salivano in un cielo luccicante di stelle, ma quello che rimarrà scritto nel libro interiore dei ricordi sarà il breve trekking a Pindaya.
Devo innanzi tutto ricordare che di questo trekking non sapevo nulla al momento della partenza e che la sorpresa comunque non ha avuto conseguenze particolari in quanto è stata poi definita una passeggiata di qualche ora. Sta di fatto che, dopo un paio d’ore di ripida e veloce ascesa ci fermiamo a pranzare in una casa locale. Siamo tutti accaldati in quanto il sole è già molto caldo e qualche incomprensione non ha permesso di godere di una salita più tranquilla. Quando riprendiamo la nostra passeggiata, di primo pomeriggio, abbiamo modo di verificare che il paesaggio non si discosta molto dalle nostre colline appenniniche e che i contadini lavorano duramente i pochi terreni coltivabili ed impervi. Sono sorpresi ed incuriositi del nostro passaggio. D’altra parte si deve sapere che il Governo del Myanmar apre al turismo poche zone e pertanto il nostro è il secondo gruppo occidentale ad attraversare le zone abitate dalle etnie Danu e Palaung. Le luci si stanno ormai allungando quando finalmente raggiungiamo il monastero dove trascorreremo la notte: per terra sì, ma in compagnia di Buddha.
Abbiamo vissuto questo momento con grande apprensione in quanto, le informazioni in nostro possesso, parlano di assoluta mancanza di infrastrutture e pertanto ci dovremo accontentare di un sottile materassino birmano, di tanto spirito di adattamento e di un buon fisico, per superare i rigori della notte. In questa stagione, la temperatura notturna scende attorno allo zero ed il tetto del monastero buddista e di lamiera, nulla a che fare con le belle e colorate costruzioni tibetane. Ci rendiamo conto che comunque sono disponibili anche delle coperte e dopo un primo collaudo sul campo, ci rendiamo conto che non sarà impossibile dormire.
Girovagando con il mio amico Carlo alla ricerca di soggetti fotografici, ci imbattiamo in un magro signore, con pochi denti totalmente cariati e le labbra arrossate dal betel, che ci offre immediatamente un tè. Ci aveva notato, fra le poche e povere capanne di bambù, intenti a fotografare e a tentare il dialogo con gli abitanti.
Lasciamo gli scarponcini all’entrata della capanna, nella semioscurità il fuoco staglia sulle pareti le ombre di due figure femminili intente a cucinare. Attorno il nulla. Una pentola, alcune ciotole, qualche sacco con il riso, il tè, i legumi e quant’altro, una piccola immagine del Buddha ed in un angolo uno spoglio letto di bambù. Ci viene offerto di nuovo un tè in piccole e sbeccate tazzine di foggia cinese, e non posso non aver ben presente che in questo luogo non esiste l’acqua corrente e quindi tutto viene lavato e sciacquato con acqua in parte già utilizzata. Lo sorseggio senza particolari problemi. Accovacciati sulle magre caviglie, i lori occhi ci guardano incuriositi ed ogni tanto emettono dei flebili suoni di difficile interpretazione: stanno cercando il dialogo o sono muti cenni di consenso al nostro agire? Chiediamo di vedere cosa bolle nella pentola sul fuoco, ed ecco il solito riso, piccolo, bianco, quasi una poltiglia. Null’altro. Sono ben contenti di farsi fotografare intorno al fuoco con noi e considerata ormai nulla la possibilità di dialogo, cominciamo a salutarli. Il sole è ormai tramontato e le tre figlie, tornate dai campi, alla nostra vista, ridendo, corrono subito in una stanza attigua. Chissà cosa penseranno di questa grande novità! Ma il nostro amico contadino, non ancora contento, con gesti perentori, invita la moglie a preparare due sacchetti di tè per noi. Sono in forte imbarazzo, quel sacco di tè è il frutto del loro duro lavoro su queste impervie colline che cercano di rendere coltivabili, e noi non abbiamo nulla da offrire in ricambio. Sarebbe offensivo pagare. Ci salutiamo e nel lontano chiacchiericcio delle figlie, le nostri mani si sfiorano in segno di caloroso saluto.
In breve tempo rientriamo al monastero, preparariamo il posto letto per la notte e poi via, in una vicina capanna, per la cena. Anche qui all’entrata una lunga fila di colorati scarponcini ed un mucchio di ciabatte infradito. Consumiamo una buona cena birmana, cucinata con sapiente cura, chissà da chi.
La cena volge ormai al termine quando dalla porticina di entrata, chini sotto il peso del rispetto per gli ospiti, compaiono le donne ed i bambini del villaggio. Timidi si raggruppano in un angolo della stanza. Ci osservano. Dapprima in silenzio e poi con qualche timida risata. Le madri ci indicano ai figli ed allora mi rendo conto che una volta tanto sono due i mondi che si incontrano. Questo non è un viaggio a senso unico, unidirezionale. Il viaggiatore occidentale che affronta i monti birmani per conoscere nuova gente, scopre negli occhi degli amici di etnia Palaung la propria diversità. Fuori, nel frattempo gli uomini hanno acceso un fuoco e qualcuno su un grosso tamburo batte colpi ritmici. Ci mettiamo tutti insieme intorno ai fuochi per vincere il freddo della notte, quando ecco comparire ragazze nei loro costumi tradizionali e proporre scomposte e ripetitive danze tipiche. Rivedo il nostro contadino, probabil-mente le figlie fanno parte del “corpo danzante”, la rinsecchita madre con il figlio monachello, un altro contadino avvolto nella sua coperta-asciugamano giallo-verde, ma soprattutto rivedo la loro curiosità. Non mi sento turista, non mi sento vezzeggiato, sento epidermicamente la loro cordiale ospitalità al punto tale di accettare i loro inviti ed entrare a far parte del gruppo danzante. Certo, mi sento buffo; ma con altrettanta certezza sento di doverlo fare. La festa non finisce qui, in quanto domattina siamo invitati ad un matrimonio di due giovani birmani del villaggio.
La notte è passata indenne ed il temuto freddo non si è fatto sentire; un gruppo di passere, alle prime ore del giorno ha cominciato a cinguettare fra le lamiere del tetto. Fuori ci aspetta una giara, colma d’acqua calda, che gli abitanti del luogo hanno preparato per noi. Facciamo una buona colazione e corriamo alla casa dei ragazzi che si sposano. Tutto il villaggio è sotto l’effetto assordante di un megafono gracchiante che fa molto “rivoluzione culturale” degli anni sessanta. Trovare la casa dei novelli sposi diventa un gioco da ragazzi.
Stanno lì, immobili, senza scambiarsi uno sguardo, vicino ad un surrogato di altare su cui fanno bella mostra i regali di nozze: due specchi ed un servizio da tè. Accanto una ciotola per le eventuali offerte.
Scattate le immancabili fotografie siamo invitati ad entrare nella capanna, dove il monaco del monastero, sta per iniziare la cerimonia che unirà in matrimonio i due giovani. Per l’ennesima volta si ripete il rito degli scarponcini lasciati ai piedi della scala e tutti ad accovacciarsi nella capanna. Entrano i ragazzi che prendono posizione vicino ai due monaci e, con mio grande imbarazzo, osservo che i genitori ed i parenti si stanno schiacciando stretti contro le sottili pareti: siamo noi occidentali ad occupare i “posti in prima fila”. Il breve intervento del monaco sblocca la situazione; la sua affermazione che i ragazzi si sposano per libera scelta, probabilmente quello che noi chiamiamo amore, e non per accordo fra le famiglie, trova subito il nostro plauso. Iniziano i canti di preghiera, i suoni cupi che mi provocano un coinvolgimento totale. Con il procedere della cerimonia, nel silenzioso rispetto della circostanza, scopro di aver giunto le mani ed il corpo ondeggia lentamente al ritmo delle preghiere. Non sono buddista e sono un cattolico tipicamente italiano: non praticante. Dalle sottili pareti di bambù filtra la luce del primo mattino e dal villaggio giungono le voci della quotidianità: lo starnazzare degli animali, il vociare dei bimbi ed il parlottare sommesso di qualche invitato, sull’aia. Se inatteso era il trekking, del tutto impensabile il trovarci in questa situazione. La cerimonia termina e sembra quasi una liberazione per i locali che ci sorridono compiaciuti, con lenti e delicati movimenti del capo. Ma ecco che alcune persone entrano con pentole fumanti e ci offrono del cibo. Non è il tè locale che sempre viene offerto agli ospiti, ma un vero e proprio pranzo con il classico riso, le verdure cotte e l’immancabile pollo, appena ucciso e subito cotto. Se risulta difficile affrontare un simile pranzo di primo mattino, tra l’altro dopo aver già fatto colazione, è ancor più impegnativo apprezzare il pollo più duro e fibroso del solito. Nonostante tutto cerco di mandar giù qualche boccone, non ho il coraggio di rifiutare il cibo che hanno cucinato per noi e che ci stanno offrendo, prima con gli occhi che con le mani: il loro è un invito più che una insistenza ed alla gentilezza non si può dire di no.
Il tempo stringe e giunge il momento del commiato. Le donne si alzano e chinano continuamente il capo con cenni leggeri, cerco le loro mani e le trovo. Per un attimo sento quella dolce sensazione di quando nella fase di innamoramento, sfiori la mano della tua amata. Il tocco non è fisico, è sentire l’anima.
Quando scendo e ritrovo i miei scarponcini colorati comprendo che il rito di toglierli e rimetterli non è stato inutile. Entrare nelle case di bambù a piedi nudi è un po’ come liberarsi dalle nostre sovrastrutture occidentali, dai nostri stereotipi che ci impediscono di vedere liberamente il mondo che ci circonda, con i suoi pregi ed i suoi limiti. Grazie colorati compagni di tanti viaggi, non siete stati solo un valido aiuto nella locomozione, mi avete condotto sulla strada della conoscenza umana.
Aldo CATTANEO
FEBBRAIO 2000: ricevo da Letizia Carducci, intelligente compagna d’avventure, questa sua considerazione sul viaggio in Myanmar che Lei stessa ha definito un viaggio al centro di se stessa.
Non avrei potuto immaginare il Myanmar, un’antica lingua di terra stretta tra l’India e la Cina, senza visitarlo.
La mia fantasia non avrebbe creduto che nel paese delle mille pagode, solo tra chi continua a non avere niente, mi sarei ritrovata nel valore della semplicità.I sorrisi stupiti e gratuiti che ho incontrato ovunque mi hanno fatto riflettere molto, su una realtà che fino a pochi anni fa era completamente chiusa al turismo e che ha iniziato a concedersi a piccole dosi prevedendo un visto iniziale di 7 giorni, poi di 14, poi di 21 ed ora di 28 giorni di permanenza. La Birmania, ribattezzata Myanmar, si sta velocemente attrezzando per imporre un percorso standard, tra le meraviglie sopravvissute a terremoti, incendi ed inondazioni, un percorso quasi del tutto privo di contatti con i locali. E’ abbastanza facile vivendo lontano da questo paese far finta di niente e ignorare, come da anni fa la comunità internazionale, una dittatura che calpesta i diritti umani fondamentali; è facile tenersene fuori se si percorrono le “vie ufficiali”.
Il contrasto tra le moderne infrastrutture (quasi esclusivamente alberghi per stranieri) e tutto il resto del costruito, è stridente, come si può facilmente immaginare, ed è solo un segno della politica di regime che, dotando il turista di ogni comfort, spera nel suo silenzio…
A me qualcosa è successo. Qualcosa che ha impedito al silenzio di vincere. E’ successo una sera a Mandalay, dopo alcuni giorni dall’arrivo, è successo nella piccola-scatola-teatro dei Moustaches Brothers.
Avevo letto della possibilità di assistere ad uno spettacolo tradizionale di marionette e nonostante il parere contrario della gentilissima guida locale ad un ora del tutto improbabile per questa zona: le 21.30, mi sono ritrovata immediatamente solidale con una famiglia che da 30 anni lotta, attraverso il teatro, per una Birmania differente.
Law Maw ha raccontato sottovoce e con ironia la storia di chi cerca di uscire dalle strette maglie della sopravvivenza ed ha guadagnato il primo-posto-simpatia, per tutto il viaggio, raccomandandosi per un contatto con Dario Fo!! Ma Law Maw mi ha tolto l’illusione che tutta la gente che mi aveva sorriso cordialmente potesse essere felice nello stato di arretratezza in cui vive; visto che due dei marionettisti sono in carcere da anni, la compagnia può mantenersi solo rappresentando una serie di danze tradizionali birmane (sfido io che solo i turisti pagano per questo spettacolo!! E’ vietata tra l’altro qualsiasi genere di critica al governo.).
La marionetta che aveva nell’antichità oltre 60 possibilità di movimento, ora è immobile, inchiodata, … inerte testimone e non protagonista di un teatro che non paga, anzi in catena.
Dopo di quella sera, lontano dalle piste battute dagli immancabili giapponesi (che applaudono al tramonto) ho respirato per tutto il viaggio una pace immensa ed ho sperimentato ancora una volta l’opportunità di chi ha ancora voglia di confrontarsi: l’impotenza di fronte alla povertà e l’umanità-che-mi-salva, la necessità che ho sempre di colmare la separazione tra due culture, di superare il silenzio, oltre l’alfabeto…
E’ solo nei pochi momenti di comunicazione con i locali che questo viaggio si arricchisce di senso. E’ difficile memorizzare i nomi delle pagode o degli innumerevoli nat che popolano i templi; facile è invece ricordare i sorrisi della gente, i mille saluti che mi sono stati rivolti.
Ho visto pochissime mani protendersi per chiedere denari ed ho visto una piccola bimba sgridare un altro che lo stava facendo, ma quanto durerà tutto questo?! E’ stato bello poter comunicare con persone non ancora innamorate del capitalismo e sentirsi a casa, al posto giusto nel momento giusto. Nella semplicità dell’atmosfera birmana mi sono ritrovata al centro di me stessa; ho letto che ci sono dei momenti in cui lontano da tutti, in silenzio si cresce, ed ho provato che è vero. Come in ogni altro viaggio accade qualcosa di irreversibile.
Percorrendo con il pullman le strette strade asfaltate o le polverose parallele a prima vista tutto appare molto differente dalla civiltà che abbiano lasciato: per molte cose il tempo si è veramente fermato (me ne sono convinta soprattutto durante il lungo viaggio in battello che da Mandalay mi ha portato a Bagan: ho visto quanto arretrata sia l’agricoltura e quanto i villaggi di bambù sparsi lungo le rive dell’Irrawady siano abbandonati a se stessi – o meglio alle cure di qualche sciamano che propone soluzioni poco attraenti per noi occidentali come teste di tigre, artigli di scimmia, pelli di serpenti e mille altre stranezze) e quello sanitario mi è sembrato uno dei tanti punti deboli dell’attuale politica, ed ho visto invece quanto è trascorso velocemente il tempo per quei pochi che possono svolgere una piccola attività commerciale. E’ praticamente impossibile capire il valore delle cose. Qui più che altrove, non potendomi confondere tra la folla sono diventata golosa preda di quei pochi che masticando un po’ d’inglese, alla fatidica domanda -how much?- mi hanno risposto prezzi molto differenti: da 300 a 3500 Kyats, per la stessa camicetta. Il piacere della contrattazione ha spesso lasciato il posto all’amarezza, anche se gli acquisti sono stati comunque innumerevoli (il tentativo è anche quello di beneficiare con l’acquisto le singole famiglie di commercianti piuttosto che spendere solo per sostenere il governo: ingressi e pedaggi onerosissimi sono obbligatoriamente in dollari americani o FEC – la moneta che non fa confondere il turista!!! Anche se non sono poi così sicura di aver lasciato qualcosa di positivo…).
Un viaggiatore responsabile dovrebbe porsi queste domande sempre e ancor più in Birmania, ed evitare di consolidare quell’immagine dello straniero per cui 5-10-15 $ non fanno la differenza.
La Birmania bucolica delle cartoline dipinte esiste e tramonti mozzafiato risolvono ogni inquietudine, ma c’è anche dell’altro.
Capire il Myanmar significa diventare testimoni di una realtà, affatto rara nei paesi in via di sviluppo: una delle dittature più sanguinarie al potere all’inizio da più di 30 anni non sembra intromettersi nelle piccole attività di vendita e fa si che il guadagno facile dei singoli offuschi ogni tipo di spiritualità. Anche se solo in alcune pagode si respira la tranquillità che si immagina leggendo certi racconti di viaggio, alla partenza, il buddismo theravada pervade qui la vita di ognuno, ma banchetti di souvenirs mescolati a cassette di elemosine e offerte varie, rendono alcuni templi simili ai più variopinti mercati. Penso che la filosofia buddista incentrata su una diffusa rassegnazione non possa sostenere il cambiamento, l’apertura al mondo e difficilmente reggerà il confronto con i luccichii della modernità. Arriveranno televisioni, telefoni, frigoriferi, medicine e cibo in abbondanza per tutti, ma non ci sarà più la Birmania; difficilmente si salveranno quei valori antichi sui quali solo dalle mollezze occidentali dovremmo riflettere. Dopo il neon e la coca cola arriverà presto la frenesia per avere qualcosa di più, la fretta di consumare i giorni e molto più tardi la nostalgia che oggi io provo per quel passato trasparente.
Passeggiare per un mercato cercando di fare acquisti onesti può diventare in posti come Bagan, dove tutti i turisti passano, un’esperienza addirittura spiacevole se non si è pronti a porsi subito su un piano di chiarezza. E’ troppa la penuria che questa gente ha patito e continua a patire sotto una patina di gran tranquillità, che ognuno cerca di riscattarsi come può, proponendo grandi affari…
Spesso è stata la figura del monaco che mi ha riconciliato al viaggio. Ho visto monaci camminare scalzi in fila indiana con in braccio un’essenziale ciotola di bambù per mendicare il cibo, ho visto bambini piccolissimi avvolti nello speciale abito porpora seguire la fila in silenzio e schernirsi di fronte agli stranieri e mi sono commossa al sorriso schivo dei più giovani che cercano sempre un motivo di conversazione testando il loro inglese. Splendido soggetto fotografico, i monaci riscuotono ovunque un gran successo e si lasciano riprendere divertiti. Unica raccomandazione è quella di evitare la visita al Monastero di Amarapura dove convergono schiere di famelici fotografi irrispettosi dell’intimità di tanti monaci che qui, ogni giorno alle 10e30 mangiano insieme. Basta arrivare in un orario diverso, e girare liberamente nel silenzio di un luogo ove c’è anche chi si accontenta di vivere dei resti della ciotola nera. Bisognerebbe evitare il penoso “spettacolo dei monaci che mangiano” – solo lì ho visto sguardi bassi e tristi- e confidare di partecipare ad altri momenti della vita monastica o meglio pernottare in un monastero di montagna dopo aver camminato per ore, dove il monaco è la massima autorità del villaggio e dove si può respirare un’atmosfera davvero speciale.
E’ quella del monaco l’immagine che amo di più e la ciotola nera laccata l’acquisto più rappresentativo (strana scuola di vita quella di dover mendicare il cibo!!).
Nella proverbiale calma birmana si ripetono scene dimenticate: placidi buoi che trainano carri di legno, trasportatori d’acqua di tutte le taglie, donne appollaiate sul loro banchetto di mercanzie per ore ed ore… toni pacati nelle voci e nei modi delicati, ovunque sguardi sorridenti. Non avrei potuto immaginare la dignità che può esserci nella povertà e lo stupore divertito per gli stranieri, troppo spesso rumorosi ed invadenti: mi sono ritrovata curioso soggetto esotico!!
E’ indispensabile uscire dal classico circuito del turista, sacrificare qualche tappa e inoltrarsi nella natura, tra i villaggi, per cogliere i colori di questa terra selvaggia. Bisogna attraversare le piantagioni di tè tra le montagne per provare ad immaginare la fatica di salire e scendere quei sentieri impervi per approvvigionarsi del necessario, soprattutto durante la stagione delle piogge. Bisogna accogliere l’invito frequente ed entrare nelle case di tek e bambù per meravigliarsi di un’ospitalità fatta di niente ma ricca al punto di commuovere, che cosa potevo lasciare per ricambiare il calore provato?! Ho tolto la t-shirt per lasciarla in dono, ma il mio gesto ha provocato un immediato movimento di tutta la famiglia fino ad allora unita ed orgogliosa intorno al piccolo fuoco, che oltre ad invitarmi per la cena ha impacchettato del tè, della migliore qualità naturalmente). Ho lasciato con difficoltà quella gente perché avevo finalmente assaporato quella pace senza tempo di cui avevo sentito parlare.
Bisognerebbe entrare in punta di piedi in certe storie, impedire che si perdano usanze e tradizioni che hanno resistito fino ad ora nel nome del progresso!!
La ciabattina infradito ed il longyi (rettangolo di stoffa colorata che sostituisce gonne e pantaloni per tutti i birmani, uomini, donne e bambini, capi di stato ed inservienti) spesso mi sono sembrati insufficienti o almeno minimali per percorsi tanto accidentati, ma dopo aver visto la fatica delle tessitrici e le sete colorate stese al sole, ed aver notato la praticità di questo costume, resteranno per sempre nella mia memoria come segno che contraddistingue questo paese; nella libertà del longyi c’è di sicuro un’eleganza senza pari.
Nei villaggi di montagna come tra le palafitte del’Inley Lake, intorno alle pagode e nei mercati, sulle camionette-bus cariche all’inverosimile e negli hotel, ovunque, infradito e longyi.
Come al solito sono i mercati più delle pagode che rendono le difficoltà ed i desideri della quotidianità; il settore alimentare è quello più grande e colorato è stato bello perdersi tra cumuli di spezie, sacchi di riso, polli ingialliti dal curry e mille altre derrate di difficile identificazione- ma quello dei tessuti è stato altrettanto piacevole e non finiva mai di stupirmi. Nella quotidianità birmana i bisogni primari sono la preoccupazione di tutti anche se la Tv spesso occhieggia a pagamento sotto qualche tendone, nascosta ai più, resta uno spettacolo ambito. Ovunque c’è la possibilità di mangiare; spesso ho mangiato cinese, altre volte thailandese, alcune volte birmano, ma non mi sono bastati 15 giorni per memorizzare bene le differenze.
Forse vale la pena di andare in Myanmar anche solo per l’Inley Lake, cercando di evitare le frotte di turisti scatenati a caccia di affari e rimanendo a lungo in barca a motore spento tra coltivazioni di fiori ed ortaggi su pezzi di terra galleggianti, tra bambini che remano con la gamba ancor prima di imparare a camminare (forse), tra i gabbiani in libertà. Il pedaggio da pagare anche in questa zona riduce la poeticità che ha resistito nei secoli ma nello spirito che contraddistingue Avventure nel Mondo qui si potrebbe girare con facilità ovviando alle piste orwelliane ed agli approdi maggiormente battuti. Solo così si potrebbe evitare lo stravolgimento di un popolo mite e cordiale che pur avendo un PIL tra i più bassi in questo mondo è ricchissimo di un’umanità poco comune.
Raccontare tutte le emozioni di un viaggio è come cercare di mettere il mare in un bicchiere, soprattutto dopo la sosta – obbligata causa variazione volo – a Bangkok (della serie così vicino così lontano) ma spero che il tempo renda la dovuta libertà a questa terra , spero che ogni turista contribuisca a far conoscere una realtà abbandonata a se stessa.
Letizia CARDUCCI
Bellissimo racconto, certo che il Myanmar 20 anni fa (circa) quando sei stato tu, doveva essere molto diverso da come l’ho visto io l’anno scorso.
Ho trovato curioso che il titolo che hai dato al tuo reportage fosse molto simile al mio. Sta cosa dei piedi scalzi dappertutto in effetti lascia il segno.
www andataritorno.com/viaggi/38/myanmar