di Federico Bellini –
In un celebre dipinto,
Francis Bacon osserva se stesso
in tre piccoli, impercettibili
movimenti
A Berlino, un uomo dai baffi biondi sta rimproverando una giovane donna italiana. Sopra di loro una scritta, “Segafredo”, sotto di loro due caffe’ gia’ serviti.
Sono per noi.
Ho vent’anni, dieci marchi in tasca e sei giorni per te. Domani avro’ forse vent’anni e un giorno, cinque marchi in tasca e quattro giorni per te.
Sta arrivando qualcuno. Si siede al lato destro del bar con un libro. E’ venuto con il passo dell’intruso, e’ scivolato sul pavimento senza l’impressione di pestarlo. Ha appoggiato la giacca in una stanza che prima non c’era. Un cenno, un caffe’. Intimita’.
Tutto si e’ dissolto in cinque passi e un gesto. Quando siamo entrati, tu hai portato lo sgabello al bancone, io ho avvicinato gli occhi alla ragazza, lei si e’ aggiustata i capelli sull’orecchio, l’uomo coi baffi l’ha rimproverata. Avevamo preteso che quello fosse il posto, il nostro posto. Forse perche’ lei e’ italiana, forse perche’ abbiamo confuso quelle mani e quei capelli, l’intimita’ con il pudore.
Poi e’ entrato un uomo, e non le ha chiesto il nome.
Berlino. Alexanderplatz. Dov’e’ Alexanderplatz? Questa e’ Alexanderplatz, ci dice un passante. Me la immaginavo diversa. Camminiamo.
Passano una donna e un segreto; dietro di loro un bambino con il casco blu. Lui mima qualcosa che non potrebbe accadere, lei si volta e sorride, il rumore e’ una Trabant aldiqua del muro Un chilometro, due per le mie suole. Dove siamo? Alexanderplatz, ci dice un passante. Come? Io vedo solo qualche albero, molte macchine, una folla e la sua scia. Alexanderplatz e’ un’invenzione della mente, Alexanderplatz non esiste.
Hai in mano un telefono. Cerchi un punto in questa linea discontinua e segmentata. Da nessun luogo per nessun luogo. Quando sarai tornato, telefonerai dove non sei. Altrove e’ il tuo posto, e’ il punto che cercavi. Oggi ho speso cinque marchi per le sigarette.
Qui c’erano due case, ora e’ sabbia.
La sua voce tradisce un sentimento distinto, eppure e’ un passato che non le appartiene. E non ritorna, credo.
Non me n’ero accorto, ma sentivo che quell’allegria aveva un peso, nasceva da un peso. Mi hai detto che quella mano ti ha fatto innamorare; così, appollaiata fuori dalla spalliera, non l’avevi mai vista in una donna. Poi hai fatto un giro d’occhi e quella mano e’ quanto hai mai saputo di lei. Non molto di più, io. E’ bastato per sapere che non avrebbe gradito perdere quei frammenti in questa scrittura anonima, senz’ansia.
A Berlino, buttano giu’ palazzi vecchi e ne costruiscono di nuovi, buttano giu’ palazzi nuovi e ne costruiscono di nuovissimi. Un edificio dura, sì e no, due anni. Poteva essere la tua città, Berlino. Tu che dici di non aver piu’ nulla da difendere, se c’e’ qualcosa da cantare… Io li ho visti, quegli edifici. Me li ha indicati lei, sollevando quella mano che credevi morta; poi, in mezzo agli altri, mi ha chiesto uno sguardo. Tu non c’eri, telefonavi. Siamo in troppi, io e te. Non hai perso molto. Solo qualche istante di precarietà. Quando il dito si e’ perso laggiù, laggiù in fondo, io ho visto soltanto una donna che dice che le cose non resistono. Forse avrei dovuto dirle che, sul piu’ bello, me ne sarei andato prima io. Altrove…
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