di Emma Malerba –
Non sempre un posto bello lo è anche esteticamente. Spesso viaggiando si va alla ricerca di ciò che è diverso, inconsueto, stupendo, nel senso che ci stupisce, ci porta a contemplare per un attimo infinito quell’angolo di poesia di cui raramente ci accorgeremmo nella quotidianità. È per questo che viaggiare dilata i sensi, ci rende più attenti, più reattivi, più curiosi.Lasciamo andare i pensieri e prestiamo particolare attenzione a quel che ci succede intorno, ci lasciamo rapire dai colori intensi delle spezie, vaghiamo attoniti avendo come sottofondo il lamento malinconico del muezzin, ci facciamo trasportare dall’odore di menta e di cumino presenti in ogni vicolo, gustiamo datteri caramellati comprati in una bancarella dietro l’angolo, chiedendoci se abbiamo contrattato abbastanza, tocchiamo le stoffe, le pelli, il cuoio ed ecco che il negoziante si è già fermato e ci sta già chiedendo: “Amiga, hey, Italia, di dove?”, e basta dire “Puglia!”, che loro un po’ sbigottiti ti lasciano andare, oppure controbattono domandando: “Palermo?”.
Questa è Fès. Un via vai confuso di persone, animali, bambini, odori che ci avvolgono, e vorremmo avere una macchina fotografica negli occhi, dei piccoli obiettivi che possano fermare per sempre questi momenti, non solo per ricordarli, ma per poterli riguardare singolarmente, a casa, lontani dal frastuono, per dare la giusta attenzione a tutto ciò che ci circonda. Per contemplare all’infinito quei quattro anziani che giocavano a carte seduti per terra, su dei cartoni, scalzi, con il loro bicchierino di tè alla menta, tanto per cambiare, avvolti dal fumo dei motorini che rombano per le strade, immobili nell’assordante monotonia che chissà se percepiscono.
Questo non è né un posto e né può essere definito bello, ma è la prima immagine che mi viene in mente se penso a Marrakech, eppure non l’ho mai trovata in una sola cartolina, né su una calamita, ma la vorrei ricordare per sempre, e magari è per questo che l’ho scritta. Perché potrei dimenticarla, e non sono riuscita a fotografarla, ma così eccola immortalata per sempre nella mia mente e anche nella vostra, se riuscite ad immaginarla altrettanto bene.
E poi mi chiedo se si possa descrivere un colore. Soprattutto un azzurro così intenso, dalle gradazioni così diverse, e vorrei dire azzurro come…azzurro come tutto, a Chefchaouen. Azzurro come ogni strada, come l’asfalto, come i petit taxi, come ogni ringhiera, come ogni porta, come ogni parete, come le djellaba, come gli occhi che sogna di avere quella bambina mentre torna da scuola, come le pareti, azzurro come il cielo riflesso sulle finestre delle case, altrettanto azzurre.
Un azzurro in cui potremmo restare intrappolati per sempre, incastonati tra le montagne, tra i gatti che vagano tranquilli, tra i bambini che giocano per strada, un azzurro che ferma il tempo, anzi che lo annulla, che ci fa restare sospesi in una dimensione che cambia colore solo all’alba e al tramonto. Chefchaouen è bella, e lo è anche esteticamente.
Infine mi chiedo anche quanti granelli di sabbia possano creare l’infinito. Provo a contarli, prima di addormentarmi, e invece sogno e mi ritrovo a mangiare un tajine, o a fare mattoni di fango, per creare una casa, in un luogo senza confini, con fugaci compagni di viaggio, due berberi, un francese, due italiani, un canadese, un’australiana e tre croati, un gatto, tre cani e cinque conigli. Salgo sulla terrazza, fatta di fango; terra e acqua, niente di più. Mi guardo attorno e non c’è nulla, non sento niente, né un rumore, né un odore, eppure ho tutto, non ho limiti e non ho limitazioni, sono in un luogo che non ha passato né futuro, ma esiste solo in quel momento, e quel momento può durare per sempre.
Torno giù, è buio, il sole è tramontato e la cena è quasi pronta, ci sediamo tutti intorno a quel tavolino basso, per cominciare il nostro rito giornaliero, il tajine al centro, mangiamo con le mani, ridiamo, scherziamo, parliamo, comunichiamo, ci guardiamo.
Abdo ha acceso il fuoco e ha messo quella musica che tanto adora; è in arabo, ma ha detto che un giorno la vuole tradurre in inglese per farla capire anche a noi, perché ha un significato troppo bello. Noi ci facciamo avvolgere da quel momento e da quel fuoco, finché non veniamo rapiti da un altro fuoco, più timido, ma che brucia con altrettanta energia, è quello di Said. È la prima volta che lo sento parlare, e in quel momento capisco che vorrei ascoltarlo per sempre: parla di stelle, di fuoco, di aria, di acqua, che vorrebbe avere soldi a sufficienza per comprare una capra, e che lavora la terra ogni giorno per poter riuscire a piantare il grano.
Sì, il grano, in un’oasi nel deserto, perché coltivare i sogni è quello che gli è rimasto, e il suo compito è crederci fino in fondo per realizzarli. Ha vissuto nel deserto per più di vent’anni, non è mai andato a scuola ma parla l’arabo, l’inglese, il francese e un po’ d’italiano. Dice che quello lì è il suo posto nel mondo, nonostante non l’abbia mai visto, il mondo. Ma lì le stelle si vedono bene, e può accendere il fuoco, ed è felice, dice, in quel luogo senza un nome, senza confini, senza limiti e senza limitazioni, alle porte dell’infinito.