di Purnananda Zanoni –
Sono imbarcato da poco sul volo Milano-Kathmandu, via Abu Dhabi, con destinazione finale la base del Sagarmatha (l’Everest), il tetto del mondo. Mi ero iscritto a questo viaggio mentre ciaspolavo in Lessinia, in mezzo ad una tormenta di neve ghiacciata, in un freddissimo ventoso giorno di fine febbraio 2009.
Riconosco di essere stato un po’ incosciente, attirato dal canto della sirena levatosi dal caro amico Beppe, detto Lama Pighi, ideatore della spedizione, mentre arrancavo confuso dal vento sibilante. All’epoca non avevo valutato i possibili rischi a cui sarei andato incontro. Tanto, rimuginavo, mancano otto mesi alla partenza, ci penserò quando verrà il momento. Mi era stato prospettato un trekking da scarpe da ginnastica, per tre o quattro ore di cammino/giorno. Tuttavia man mano che si avvicinava la partenza venivo “consigliato” di dotarmi di un equipaggiamento adeguato e di fare un “certo” allenamento.
La valle del Khumbu (Nepal) è sì verso il tropico, ma la stagione, l’altitudine e i dislivelli non sono propriamente da tranquilla escursione domenicale. Ciò nonostante, mi sono presentato puntuale alle 15 del 24 ottobre 2009 alla partenza del pullman per la Malpensa, insieme ad altri 14 compagni, compreso mio fratello Franco che ho il merito, e la responsabilità indiretta, di averlo coinvolto in questa avventura.
Il primo impatto con la realtà del trekking, per quanto bene organizzato da una valida agenzia specializzata di Milano, è che prima di tutto si deve affrontare un viaggio abbastanza faticoso. Anche se è interessante constatare che ormai tutto il mondo è in movimento da un continente all’altro, l’altra faccia della medaglia è che gli aerei sono pieni zeppi e le sale di attesa inadeguate ad accogliere sia il via vai dei passeggeri sia quella quota di viaggiatori temporaneamente bloccati in attesa delle coincidenze o per il disbrigo delle formalità. I tempi morti sono noiosissimi, le code interminabili, carte e documenti infastidiscono, ore di sonno perse e accumulo di stanchezza. Niente male come inizio, sembra una partenza ad handicap. Alla fine comunque si arriva e mi ritrovo la stessa identica Kathmandu di qualche anno fa, nessun progresso apparente, solo il tasso di ossido di carbonio sembra aumentato in modo esponenziale. Le persone, e i veicoli, fanno equilibrismo nel traffico strombazzante tra nuvole di gas di scarico, le facce sono nascoste da ridicole mascherine, insufficienti a ridurre il danno da smog che giornalmente subiscono uomini, donne e soprattutto i bambini e gli anziani.
Il tempo per essere sopraffatti dal veleno è fortunatamente breve. Lunedì mattina prendiamo un piccolo aereo da meno di venti posti, che parte dallo sgangherato aeroporto dei voli interni e dopo un’ora, sobbalzando in balia delle correnti in quota, atterra su una pista che si apre all’improvviso nella valle, inerpicata su per la montagna, lunga poche centinaia di metri come il ponte di una portaerei che non finisce con il mare ma contro la parete verticale del monte sovrastante il piccolo centro abitato. Così, dopo questo volo ardimentoso, ci si ritrova subito in montagna, a Lukla (m. 2840), il punto di partenza del sentiero che ha come meta finale l’ascesa al Kala Patthar (m. 5550), letteralmente la Pietra Nera.
Lì consumiamo il pranzo a base di “sherpa soup” e bistecca di yak. Vedendo la cosa dalla prospettiva degli animalisti, verrebbe da dire: povere bestie, prima vengono sfruttate per il trasporto dei pesanti bagagli dei trekkers, sferzate dal bastone dei conducenti e poi vengono cucinate per sfamare gli stessi clienti, per non dire che la carne è anche dura e insapore.
Il giorno successivo, saliamo a Namche Bazar (m. 3440), dopo aver dormito in fondo valle ed essere partiti da Pakding (m. 2610) di prima mattina. Le otto ore di cammino impiegate sono invece 6,5 per via del lunch time e varie soste forzate per lasciare il passo agli animali nei punti in cui il sentiero si restringe. Mi accorgo subito che camminare con le scarpe basse sarebbe stato impensabile; il fondo è tutto sassi, pietre, rocce sporgenti, scalini di lastre di granito e polvere ovunque sollevata da uomini e animali. Si passa più volte da una parte all’altra della valle e una volta giunti al Lodge dello Yeti ogni componente il gruppo si complimenta con gli altri con abbracci e molti “give me five” accompagnati da esclamazioni come“berg heil… berg heil…” che non sanno dirmi cosa significa, ma mi immagino qualcosa tipo: “rendo omaggio al monte” in tedesco. Dicono bravo anche a me che mi sento mezzo morto. È una fatica continua in quanto il sentiero è sempre un saliscendi, tutto si può dire tranne che sia monotono: si passa senza soluzione dentro boschi rigogliosi, ammirando fiori dalle forme e i colori incantevoli, si attraversano numerosi corsi d’acqua principali e secondari, su ponti sospesi a volte molto lunghi ad altezze vertiginose. L’equilibrio sembra instabile perché oscillano un po’ ma le spesse corde d’acciaio e le liste di ferro del pavimento danno molta sicurezza, sembra quasi affidabilità svizzera. Spesso si aprono all’improvviso scorci tra le vallate da cui spuntano le prime vette innevate oltre i 6000 metri. Il Kusumkhang sembra una via di mezzo tra il Civetta e il Latemar in versione invernale, e questo è solo l’antipasto di un menù che sta per essere servito fino ad inebriarci di mitiche visioni.
Si attraversano piccoli villaggi di fondovalle dove incontriamo educati scolaretti in divisa oppure bambini molto piccoli sulle spalle della mamma che fa i mestieri, o giocano davanti alla porta di casa. I bimbi sono belli a tutte le longitudini ma questi lo sembrano di più. La razza Sherpa di questa parte del Nepal ha le caratteristiche somatiche tipiche dei popoli di alta montagna delle grandi catene dell’Asia centrale, occhi leggermente a mandorla, bassi ma robustissimi, sono molto simili ai tibetani perché circa cinque secoli fa vennero dal Tibet e si diffusero per queste valli e non hanno molto a che vedere con le altre etnie nepalesi del sud più simili agli indiani. I bimbi hanno il viso rotondo e piatto, sono paffutelli e ispirano istantaneamente una simpatia e una tenerezza struggente. Anche gli incontri frequenti con gli animali sembrano significativi. Nella regione non esiste alcun mezzo di trasporto di persone e cose che non siano le gambe, umane e degli animali. Buoi, yak e muli, qualche cavallo, si prestano docilmente a trasportare una quantità di volume e di peso quasi impossibile per gli uomini. Il loro incedere è lento e ieratico e spesso i miei occhi incrociano i loro per una sorta di comunicazione non verbale che dimostra in loro un elevato livello di consapevolezza. Raramente si incontrano trekkers che hanno sulle spalle uno zaino da settanta o ottanta litri, peso superiore ai 15 kg.; questi hanno interpretato che il trekking si dovrebbe fare in totale autonomia. Noi invece abbiamo i portatori e saliamo con uno zainetto da 30 litri (max 7 kg.) per le cose indispensabili della giornata. La faccenda però ha un altro risvolto. Se non fosse così molti nepalesi non avrebbero questo lavoro da svolgere con grave perdita di opportunità di sostentamento, inoltre il trekking diventerebbe riservato solo a forti camminatori precludendo questa possibilità alle persone normali. Un altro aspetto su cui riflettere è invece la sorte dei backporters che a spalle si portano su anche 40-50 kg. di materiali vari: gerle colme di generi alimentari e di ogni tipo, tavole di legno, lamiere ondulate ecc.; spesso vanno su in ciabatte o sandali. Comunque sia, faccio in modo che la decisione avventata di misurarmi con me stesso, con mio fratello, i compagni del gruppo, con gli altri trekkers di tutto il mondo, con i nepalesi, con la natura prima severa poi estrema, venga nobilitata dal mio impegno, ripagato dalla visione di paesaggi incredibili (si dice sia uno dei posti più belli della Terra) e dalla solidità dei rapporti umani che solo in alta montagna possono cementarsi ed esprimersi col linguaggio della fatica e della condivisione nel segno dell’altruismo più spontaneo.
Ora mi accorgo di non aver affrontato questo viaggio solo come un’impresa alpinistica sullo sfondo delle esperienze naturalistiche, antropologiche, culturali, religiose ecc. ma anche forse soprattutto con lo spirito del pellegrino. Ho due amici sofferenti di quella perfida malattia che ti scava dentro giorno per giorno. Ogni mio passo è un mantra, continuamente ripetuto sottovoce o in silenzio, perché ?iva, Buddha e Cristo decretino per loro una moratoria. Sono venuto qui sull’Him?laya, etimologicamente “la dimora delle nevi”, convenzionalmente “la dimora degli Dei” per salire più vicino alla Divinità e implorare che la Sua volontà sia quella che verrà accettata comunque vadano le cose.
Mercoledì 28 ottobre il gruppo, a parte qualche unità con problemi di adattamento alla quota, viene guidato sulle alture di Namche verso il celeberrimo giapponesissimo Everest View Hotel. Appena arrivati al punto d’osservazione i fotografi si scatenano e i gigabite si sprecano. C’è una corona di monti da mozzare il fiato, se ce ne fosse ulteriormente bisogno. Il Sagarmatha fumante con davanti la roccaforte del Nuptse, il Lhotze, l’Island Peak, l’Ama Dablam (il monte della Paramount) superstar, forse la montagna più bella del mondo, il Thamserku e a ovest il Kongde. Il tempo è stupendo, i colossi himalayani si stagliano plastici sullo fondo del cielo blu-nepal. Da lì si vede anche il sentiero che ci aspetta domani e gli entusiasmi frenano per un attimo. Scendiamo al villaggio di Khumjung (m. 3780). Passo davanti all’unica bottega di normalissimi articoli per turisti: catenine, pashmine, foulard ecc. L’anziano nepalese mi accoglie sorridente e nota che sto acquistando un pacchetto di prayer flags tibetane formato grande. Mi si avvicina e mi fa il segno dello stenderle pronunciando la parola Kala Patthar, la meta finale del nostro cammino. Stupefatto mi chiedo: come avrà fatto a sapere che noi andiamo sul Kala Patthar e che io da mesi e mesi ho progettato questo rito personale di preghiera consapevole, a beneficio delle persone che porterò lassù nel mio cuore. Bah, misteri del “Tutto è Uno”nel senso che la mente universale è unica anche se ognuno pensa di averne una propria. Gli boffocchio un “You’re reading in my mind…” ma non mi risponde se non con un semplice sorriso di tacita intesa e così alcuni miei compagni seguono il mio esempio. Dico loro che i diversi colori delle bandierine rappresentano gli elementi costitutivi dell’universo manifesto. Il giallo la terra, il verde l’acqua, il rosso il fuoco, l’azzurro l’aria e il bianco l’etere, quest’ultimo contiene tutta la realtà apparente ed è anche la risultante di tutti gli altri colori.
Dopo il pranzo ci avviamo verso l’uscita da Khumjung per la strada principale, tracciata da un lunghissimo “muro Mani” di bellezza incomparabile, formato da una quantità innumerevole di lastre di pietra su cui sono scolpite le parole del Buddha. La preghiera è ininterrotta da secoli. Siamo in Nepal ma i caratteri sono quelli della scrittura tibetana. In mezzo alla via, sul lato ovest della grande piazza centrale, c’è un doppio stupa, tempio all’interno del quale ci sono reliquie sacre, il cui intero perimetro è contornato su ogni lato da ruote di preghiera. È l’ora in cui i bambini escono dalla scuola fatta costruire da Sir Edmund Hilary (lo scalatore neozelandese primo conquistatore dell’Everest), hanno libri e quaderni sciolti in mano, niente zainetti o cartelle come da noi. Attraversano la vastissima piazza inondata da una luce abbacinante. Il sole è veramente accecante, non si può stare fuori all’aperto senza la protezione di un buon paio di occhiali da montagna; se è vero che la luce è vita in questo luogo la vita raggiunge la sua apoteosi. Viene avanti una bambina di circa cinque anni, è da sola, ma qui niente macchine o altro, non ci sono pericoli di alcun genere. Veloce estraggo dallo zaino una caramella, lei la vede, sorride, si avvicina a me, prende la caramella e mi ringrazia con un intenso sguardo pervaso di felicità che vale tutta una vita. Poi congiunge le mani mi ringrazia ancora e mi saluta con un Namastè, rendo omaggio al Divino che è in te, ma che è soprattutto in lei dolcissima creatura di una terra apparentemente inospitale e difficile, a 3900 m. isolata in una valle laterale fuori dal sentiero principale, ma che a me, oltre alla veduta delle montagne più belle dell’Himalaya, sta dando una fortissima energia e un senso di profonda semplice naturale spiritualità.
Ho girato le ruote di preghiera, ho rimesso in linea la pietra fuori posto di uno stupa che si trovava sul cammino, mi sono immerso nella fulgida luce; il senso dell’esistenza appare chiarissimo se si riesce ad uscire dallo schema del come e perché ci si trova in quel momento in quel posto. Una ragione c’è ma alla fine non è importante capire, la cosa più importante è “comprendere” e non v’è dubbio che qui questo esercizio di introspezione risulta più facile.
Si torna in quell’inverosimile villaggio che è Namche Bazar. Mentre sono qui in un buon albergo a fare una piacevolissima doccia calda, giù la vita si svolge a cielo aperto. Esseri umani conducono un’esistenza ben diversa, sono i venditori di merce varia: vestiti, scarpe, oggetti di ogni genere, tutto coloratissimo e di infima qualità. È il mercato dei tibetani, attestato nella parte più bassa del terrazzamento del villaggio. Espongono per terra prodotti che i cinesi cedono ai tibetani i quali, lì in Nepal, tentano di venderli a improbabili turisti europei, americani, giapponesi. Queste famiglie vivono in tende al freddo, all’umido, tra la polvere, utilizzando un rivolo d’acqua parallelo alle fogne plain-air nel quale fanno tutto ciò che necessita per la sopravvivenza, dal bucato al lavare la verdura e altro. Poco sopra si trova un gran numero di negozietti di artigianato, generi alimentari e articoli sportivi, anche tecnici, ovviamente taroccati, offerti a prezzi irrisori. Nel nostro giretto pomeridiano io e Franco prendiamo un po’ di cioccolata e bottigliette d’acqua, fondamentale per contrastare il mal di montagna. Fin lì camminare sotto il sole ha fatto sudare, anche la semplice respirazione concorre alla disidratazione, da qui si innesca il ciclo continuo di bere e far pipì, che durante il percorso per i maschietti non è un grosso problema, per le ragazze un po’ di più. Il mio gruppo è tutto di veronesi, constato che da quando siamo arrivati in Nepal non abbiamo incontrato nemmeno un italiano. In compenso ci sono americani, inglesi, tedeschi, francesi, australiani, giapponesi, sudamericani e così sembra che ad andare verso la valle del Khumbu di italiani ci siamo solo noi. Ognuno del gruppo ha una o due macchine fotografiche, si va dalle compatte ai cannoni con i super teleobiettivi e grandangoli. I discorsi tra i fotografi non possono essere riportati tanto sono tecnici, se non sei un appassionato non ne capisci un click. Nessuno ha una videocamera perché le macchinette di adesso fanno anche i film. Io non ho niente per fotografare. Per rispondere a chi mi compatisce, nella mia insignificanza avrei la pretesa di far finta che la mia macchina fotografica è la mia penna e la pellicola (pardon, stick memory) il quadernetto su cui prendo appunti nelle pause. Ho anche meno da litigare con i controluce e cerco di fermare delle inquadrature fantastiche cioè fantasiose. Ho più tempo per concentrarmi sull’equipaggiamento, di cui io e mio fratello abbiamo una cura scrupolosa e al quale è legata la buona riuscita del trekking. Ricordo il motto degli scouts: “non esiste un cattivo tempo ma un cattivo equipaggiamento”. Durante il giorno infatti il sacco grande non è mai disponibile perché portato dai buoi verso la destinazione della tappa e riconsegnato al nostro arrivo, sicché alla mattina bisogna scegliere con cura le cose da mettere nello zaino. Alla sera si predispongono per il giorno dopo gli integratori di cui ci ha dotato gratuitamente lo sponsor Pegaso. Nel tempo libero non ci si annoia, c’è sempre qualcosa da sistemare. All’inizio si cerca di lavare un po’ di biancheria ma non si asciuga niente è troppo umido e di notte si va sotto zero. Alcuni telefonano a casa affrontando notevoli difficoltà di “campo” e elevati costi. A me sembra che, a parte le eventuali emergenze, uno stop nel tenersi collegati con il mondo di sempre possa essere una buona pratica per esercitarsi nel distacco dalle cose e dalle persone e questa ne è l’occasione. Capisco che i parenti a casa si aspettano la telefonata e finché c’è il tempo per farlo non si deve aspettare. Nel mio modo di vedere il tempo, come lo spazio, è una creazione mentale, come tutto il resto, comprese le relazioni. In questo angolo sperduto del paradiso dovrebbe essere più percepibile il tempo non come nostro ma come la presenza dell’Essere nella contestualità della manifestazione che, a causa dell’impermanenza del divenire, determina la non-realtà dell’io, riflesso di coscienza non risvegliata. Mi viene da fare questa riflessione: da piccoli mio fratello ed io dormivamo nella nostra cameretta uno a fianco dell’altro, adesso qui dopo 55 anni accade esattamente la stessa cosa. Più relativo di così il tempo non può essere. Facendo queste elucubrazioni mi attiro un karma negativo, perché quando alla fine del viaggio cercherò di mandare qualche sms con il mio telefonino scoprirò che la batteria si è scaricata e il caricabatteria non funziona più. Si chiama karma veloce.
Giovedì 29 ottobre 2009, la bontà cosmica ci regala un’altra magica giornata. Il tempo è splendido, il sole è caldo, il cielo è blu terso e trasparente rendendo ancora più netti i contorni delle cime che ci circondano. In fondo all’orizzonte, più alto di tutto e di tutti, il re Sagarmatha con davanti i valletto Nuptse e a fianco il gran ciambellano Lhotze, sul versante est della valle la divina maestosa mamma incinta Ama Dablan, e il Thamserku dalle creste sottilmente seghettate sostenute dalle canne d’organo di ghiaccio. Lo spettacolo è stupefacente. Anna mi dice che la visione del Sagarmatha la emoziona profondamente e dire che ormai ce l’abbiamo davanti da tre giorni.
Dopo mezz’ora che camminiamo sul sentiero-passeggiata tra Namche e Tengboche ci accorgiamo che abbiamo compagnia. Dei gipèti di notevole apertura alare, si esibiscono sopra di noi con voli a spirali concentriche sostenuti dalla brezza della valle nella quale cento metri di quota più in basso, rafforzato dai numerosi affluenti, scorre il torrente che ci fa pervenire il suo piacevole instancabile respiro. Una specie di stambecco dalla pelliccia completamente nera si crogiola al sole tra i mughi vicino all’acqua. Incrociamo per la prima volta un gruppetto di italiani che scendono, sono delle ragazze che però abitano a Londra. Anche loro ci dicono di essere i primi compatrioti che incontrano. Alla fine della discesa appena attraversato il ponte sospeso, passiamo a fianco delle “water driver prayer weels”. La preghiera sembra garantita per molto tempo dal momento che l’acqua qui non dovrebbe mai mancare. A partire dalla metà della ripidissima salita, il bosco di mughi e rododendri incomincia a diradarsi.
Tuttavia proprio adesso dalle piante fuoriesce un penetrante profumo simile all’incenso. La sensazione è non descrivibile con le parole che non possono rendere l’intensità delle emozioni suscitate da un insieme di circostanze favorevoli: il cielo azzurro perfettamente sgombro da nubi, il sole che emana un dolce tepore, le montagne che vigilano bonarie, il bosco verde smeraldo, il delicato profumo dell’incenso e aggiungo la gioia di salire questo sentiero erto, pietroso, sabbioso e scalinato, che porta sempre più in alto. Provo ad isolarmi dal gruppo cercando di non sembrare snob (etimologicamente non nobile). So bene di non essere un simpaticone di mio, anche se credo che alcuni mi stimino dopo avermi conosciuto meglio. Riconosciuto e accettato il diritto di ognuno di dire ad alta voce ciò che pensa, mi ricavo uno spazio di silenzio per distinguere più chiaramente quello che può essere chiamato un momento di definizione, nel quale non è solamente il momento che definisce te ma tu che definisci il momento. Serve per interiorizzare le vibrazioni di questo luogo magico dove l’energia della manifestazione si esprime in tutta la forza prorompente della natura. Sono abbastanza fortunato. Come farò altre volte anche in futuro, riesco a prendere le distanze dal chiacchiericcio e dopo una lenta progressione raggiungo Franco che è sempre in testa al gruppo per lo stesso motivo. Poco dopo comunque abbiamo la gradita sorpresa di raggiungere la mèta del giorno. Il villaggio di Tengboche (m. 3860) è sovrastato dal ben noto Gompa, un monastero buddhista del 16° secolo molto importante, bruciato e ricostruito, abitato da circa 50 monaci. Ci sistemiamo nel modesto lodge e poi andiamo alla puja, il rito dei lama. Vado a sedermi appena sotto al priore che assomiglia al Dalai Lama [vedi foto a fine racconto]. Mi sono messo così vicino per riceverne la benedizione e l’energia a favore delle persone che porto con me come se ci fossero anche loro. Stefano, il fotografo ufficiale del gruppo, mi fa una foto da cui appare una incredibile somiglianza tra il lama e me. Entrambi meditiamo ad occhi chiusi, lui forse sulla ?unyata, la vacuità la taleità la quiddità la sicceità, che non esprime un carattere negativo o di annichilimento, in quanto nel vuoto di determinazioni e qualificazioni vi è infinita pienezza (p?r?a) di possibilità. Io invece medito sul Sé, tanto non c’è alcuna differenza, sono prospettive equivalenti della stessa Tradizione eterna. Dopo mezz’ora arriva un altro lama che mi fa retrocedere di un metro. Non importa, io non sono credente né superstizioso. Il Sé è ovunque, dentro al gompa come fuori, così pure nella raffinata pasticceria che è aperta a un centinaio di metri in fondo alla piazza. Il calar della sera si trasforma in un tripudio degli ultimi raggi del sole che illuminano tutte le vette come una dolomitica “enrosadira”, che dipinge i ghiacciai fino a poco prima candidi e brillanti. Tutto è rischiarato sempre di più da una luna piena di buon auspicio che primeggia al centro del firmamento, finché l’azzurro del cielo tende definitivamente al blu notte e il freddo della sera artiglia uomini, animali e cose consigliando di riparare all’interno della stanza da pranzo dove una stufa con gli uomini intorno sta andando a tutta.
Durante la notte fa un freddo superiore al previsto. Mi vesto a strati da sembrare l’uomo Michelin. Nella cameretta dove sono capitato ha dormito anche Messner (abbiamo occupato lo stesso letto?), muri e vetri lasciano passare dei bei spifferi. La notte inizia con l’abbaiare continuo e ossessivo di un cane a cui auguro di seccarsi la lingua e finisce con il frastuono degli strumenti a percussione e a fiato dei monaci che celebrano l’alba. Poco male, è ora di alzarsi, non fa specie rimettersi gli stessi vestiti del giorno prima senza aver fatto una doccia o particolari lavacri, il freddo sterilizza i sei sensi e anche le cose. Nel lodge c’è un altro gruppo; un trekker ci parla in italiano, peccato che sia francese come tutti gli altri, antipatici ancora lividi per aver perso il mondiale di calcio per colpa dell’Italia. Ma chi ci pensa a queste scemate, soprattutto in un posto così?
Questa mattina il morale della truppa non è al massimo a causa delle difficoltà nel dormire, comunque partiamo per il penultimo segmento prima dell’attacco finale alla nostra montagna. Il sentiero scende fino all’antichissimo monastero delle monache buddhiste con dentro dei thangka di raffinata fattura. Si sente ancora il profumo dei rododendri come incenso che porta su agli Dei l’offerta dei devoti. Con una monaca cerco di scambiare qualche parola sui principi del buddhismo tibetano, i tre Gioielli: Buddha, Dharma e Sangha. La suora non mi capisce, poi con qualcuno del gruppo ci ripassiamo gli altri principi che sono le quattro nobili verità e l’ottuplice sentiero. Neanche la nostra ottima guida Ram Prashad mi dà molta soddisfazione. Mi rendo conto che non è il momento di interessarmi se qualcuno fa un percorso di ricerca e mi rammento che nella Realtà non c’è alcun percorso, nessuna ricerca e niente da ricercare. Il destino, cioè il sentiero, va però nella direzione della religiosità. Sull’altro lato della valle passa sotto una cengia piatta su cui sono dipinte due stupende rappresentazioni del Buddha, oltre a varie preghiere. Sulla roccia c’è scritto in grande “Guru Rimpoche” (Padmasambhava). Chiedo a Franco di fare una bella foto per guardare meglio in un secondo tempo, magari qualcuno c’è passato sotto e non si è accorto di niente.
Il lunch è a Pangboche dove superiamo i 4000 m. e quindi entusiasti ci diamo tutti la mano per questa parziale importante conquista. Considerando certe cose con una vena di pessimismo si potrebbe dire che la via dell’Everest è a tutti gli effetti la via della fatica, trasformata in una sorta di Gardaland. È la fatica dei trekkers che incedono a passi lenti a causa della rarefazione dell’atmosfera. Le quote sulle cartine traggono in inganno, i dislivelli percorsi in realtà sono molto maggiori. Da quando siamo partiti il sentiero non è mai stato piano anzi tutto su e giù, perciò quando si scende poco male (solo le ginocchia ringraziano sentitamente) ma quando sale è spesso in forte pendenza accentuata dal fondo pietroso o scalinato. Questa fatica è anche soddisfazione specialmente se si tiene conto di dove ci si trova, a me personalmente prende un groppo alla gola. Gli sforzi disumani dei porters e degli animali vanno invece considerati tenendo conto che queste sofferenze trasformate in industria portano un certo benessere a questa gente, sempre nella speranza che non si verifichino vessazioni da parte del discutibile governo nepalese.
Durante una breve sosta nei pressi di una casa di pastori viene a salutarci una bambina forse di tre anni, di straordinaria grazia e bellezza. Le foto scattano a raffica e tutti le diamo qualcosa per avere il suo sorriso di gratitudine. Più avanti si affronta un passo a 4300 m. Questa valle sembra chiudersi segnando la fine degli insediamenti umani. Sull’altro versante si apre uno scenario nuovo caratterizzato da altri profili più o meno chiaramente percepiti, davanti sempre il Nuptse che adesso nasconde completamente il Sagarmatha, a destra spadroneggia il Lhotse e il minore Island Peak, dietro, ancora a destra in lontananza si intravede quasi impercettibile il Makalu il quinto tra gli 8000, a sinistra spunta la cima conica del Pumo Ri. La corona è arricchita tutt’intorno da altre sagome ricche di guglie dal contorno appuntito. A est il fotomodello Ama Dablan, a sud ovest gli altri. Uno spettacolo commovente. Nel gruppo si avverte la consapevolezza di essere nel cuore della Terra, al centro dell’universo, il posto più sacro del mondo.
L’energia cosmica dell’emanazione continua trova qui la sua massima espressione. Ci fermiamo tutti in un tacito momento di raccoglimento spontaneo. Personalmente vivo questo attimo rivolgendo il pensiero alle persone che ho portato fin qui con me dentro di me; il sudore, la fatica, il respiro corto, le gambe tagliate non contano più in questo momento sublime.
Sabato 31 ottobre 2009 alle ore 12,45 la spedizione trekking Campo Base di Verona ha raggiunto e superato quota 4810 m., pari all’altezza della più alta vetta d’Europa: il Monte Bianco. Siamo in alto è vero ma ugualmente ci si sente piccoli perché alzando gli occhi si ammirano le più alte cime del mondo che svettano innevate nel cielo blu, il che non impedisce l’esultanza entusiastica di tutti, mista a brevi momenti di raccoglimento celebrati con numerose fotografie del gruppo compatto. L’ascesa al passo è stata veramente impegnativa sia per la pendenza che per la carenza di ossigeno. Da lì si apre la valle del Khumbu dopo aver lasciato l’anfiteatro morenico residuale dopo il ritiro del ghiacciaio a causa del riscaldamento terrestre, mentre noto che il fondo della valle spoglio e pietroso assume un aspetto lunare. Attraversiamo in religioso silenzio il memoriale dedicato a tutti gli alpinisti che hanno perso la vita su questi monti, i cui nomi sono riportati su lapidi incorporate nei numerosi piccoli altarini fatti di pietre sovrapposte sormontati dai pali adornati da molti katha e da fili e fili di bandierine di preghiera tibetane che sventolano senza posa in orizzontale per effetto del vento sostenuto. Commemorazione e foto vanno di pari passo.
Avvicinandoci ai 5000 metri si incontrano più di frequente questi altarini devozionali di sassi di varie dimensioni, mentre uomini e animali sono molto più rari. La mattina eravamo partiti da Periche (m. 4240) visitando dall’esterno, in quanto ancora chiuso, il locale ospedale. Poi arrivati alla sosta di Thokla Dughla (m. 4620) uno dei nostri, che già non stava molto bene, viene consigliato di non proseguire e scendere facendo ritorno a Periche per una visita all’ospedale. Gli viene dato un portatore e tra qualche lacrimuccia lo salutiamo mentre lui si fa organizzare il rientro da Ram che poi ci raggiungerà a Lobuche quasi nello stesso tempo che impieghiamo noi accompagnati da Mikka e Maila le guide nepalesi suoi assistenti. Il lodge di Lobuche (m. 4935), dove veniamo accolti da una tazza di the caldo, è una specie di lager, alla fine azzarderò la battuta che quando lo chiuderanno metteranno una lapide e verranno a visitarlo il Papa e Nelson Mandela. Il pavimento è la nuda morena stessa, le pareti delle camere sono di compensato sottile, il tavolaccio che dovrebbe essere il letto ha un materassino di spessore minimo, la stanza da pranzo è un porto di mare dove regna una confusione indescrivibile. La sera la luce è spettrale in quanto tre deboli neon alimentati da un gruppo elettrogeno che emette sgradevoli maleodoranti sbuffi di nafta, non riescono a rischiarare un ambiente abbastanza grande molto simile all’antro dell’inferno. Sulle condizioni igieniche della toilette stendo un velo pietoso. Questo per me diventa un problema perché mi accorgo di aver preso la classica infezione intestinale che oltre a impedire di mangiare e bere provoca disidratazione e costringe a numerose visite a quella stessa toilette di cui è meglio tacere. Ciò nonostante aleggia nel gruppo un certo fermento. L’indomani sarà il grande giorno. Ci aspetta una levataccia alle 5 del mattino ad una temperatura ben al di sotto dello zero, partenza dal rifugio alle 6 per sferrare l’attacco a quella che per noi è la meta ultima del cammino: il Kala Patthar a metri 5550, una banale collinetta se rapportata ai colossi sovrastanti. L’attenzione è tutta concentrata sull’aspettativa del panorama che si potrà ammirare da lassù.
Il Sagarmatha come non lo si potrebbe vedere più da vicino, quanto meno la parte superiore che emerge dall’antistante Nuptse, la cui parete sud sembra un monte squadrato ma dal versante ovest è una affascinante ed elegante montagna. La difficoltà non è strettamente tecnico-alpinistica, anche se le statistiche dicono che il 40% delle persone che partono per andarci non ci riescono. I problemi sono rappresentati dalle ore di cammino e dall’atmosfera rarefatta a causa del percorso sempre oltre i 5000 metri. Risulta evidente che sarà importante riuscire a dormire questa notte a questa altezza. La cena è alle 17,30 e la ritirata immediatamente dopo. Mi aspetta una notte agitata a causa del mal di pancia e della temperatura in camera sotto lo zero. Di bello c’è che l’energia del gruppo è cresciuta giorno dopo giorno, tutti hanno reciprocamente fraternizzato grazie alla simpatia, alla disponibilità e alla gentilezza di ognuno. Viene perdonato qualche piccolo egoismo come fare la doccia per primi o cercare la camera migliore, come riempire le borracce di the prima che sia finita la colazione ecc.; anche quelli che non si conoscevano prima di partire si sono integrati facilmente contribuendo così a creare la forza dell’insieme; in varie occasioni vengono condivise buste di speck, formaggio parmigiano, cioccolata ecc. portate da casa dai più previdenti.
Alle 11,15 dell’1 novembre 2009 raggiungiamo a metri 5550 la cima del Kala Patthar, la Pietra Nera, la montagna che prega. Ovunque, distanziate di alcuni metri l’una dall’altra ci sono lastre di pietra mani conficcate in piedi di taglio sul pendio e molti altri piccoli altarini devozionali conici o piramidali. Sulla vetta c’è il pennone a cui sono attaccate innumerevoli bandierine di preghiera e i katha in balìa al vento che soffia rigido e impetuoso. Stendo religiosamente i miei cinque fili di bandiere acquistati al villaggio di Khumjung con la benedizione dello sherpa che me le aveva date, come da mesi avevo deciso che avrei fatto se fossi arrivato in cima. In realtà la vetta è qualche metro più in alto del punto in cui ci fermiamo ma nessuno pensa che si debba mancare di rispetto alla montagna cercando di sopravanzarla e le foto di rito vengono scattate al riparo della piccola guglia sud-ovest. Per primi arrivano Francesco, Marco e Paolo, poi dietro a Ram mio fratello Franco, io, l’Anna e l’Erica, a seguire tutti gli altri con il loro passo. Molti piangono sopraffatti dall’emozione. Lo spettacolo è indescrivibile. Il Sagarmatha è lì che si può toccarlo con una mano, ma anche gli altri monti visti a 360 gradi sono vicinissimi e bellissimi. Non si vorrebbe più staccare lo sguardo da questa visione di sogno ma la cima è piccola e ci si può stare in pochi, il tempo per qualche foto perché il vento è molto forte e fa veramente freddo. La salita è stata faticosissima, camminare 10 ore a oltre 5000 è una prova che richiede non solo un po’ di preparazione fisica ma soprattutto la capacità di soffrire e la determinazione a non mollare. Il fondo del sentiero è pietroso, il piede non è mai orizzontale su superficie piana, gambe ginocchia caviglie e piedi sono sollecitati ad ogni passo per mantenere l’equilibri e spingere in su e in giù per il saliscendi.
La via per il Kala Patthar è un sentiero che si inerpica in forte pendenza su per la pietraia, l’unico modo di salire è procedere per passi molto brevi, lentamente, fermandosi spesso. Ad ogni ripresa della salita si fanno alcuni passi regolari poi il corpo sente la fame di ossigeno e ha una piccola crisi. Bisogna superare questo momento e riprendere la consueta cadenza. Una persona del gruppo mi dice di essere attraversata da tutti i pensieri del mondo. Il cervello è l’organo che consuma più energia elaborando creazioni mentali e sovrapposizioni proiettive e velanti che impegnano e stancano. È necessario tenere l’attenzione su un passo dopo l’altro né più indietro né più avanti, cioè niente incursioni mentali nel passato e nel futuro, fuori di noi. Ci si disidentifica dalla forma individuata e nella posizione del testimone si osserva l’organismo corpo-mente che procede. Le suggerisco di recitare un mantra (la ripetizione di una parola o di una frase sacra) che è proprio di queste parti, scolpito migliaia di volte nelle pietre della valle: OM MANI PADME HUM – “Oh grande Signore, assiso sul fiore di loto, luminoso come gioiello, prendo rifugio in te”, il cui significato anagogico è più o meno questo: il Buddha è il risvegliato gioiello splendente perché illuminato, è seduto sul fiore del loto che pur crescendo nel fango non ne viene contaminato essendo il simbolo della Conoscenza che permette di identificarsi con il Vuoto (il ?unya) non-duale nirvanico del paramarthasatya pur esistendo nella dualità samsarica ovvero il divenire della coproduzione condizionata del samvritisatya. Anch’io recito il mio mantra O.N.?. Alla fine l’invocazione gradualmente si interrompe perché non c’è più un soggetto e un oggetto ma la risoluzione totale del mio sé individuale nel Sé universale.
Salendo verso la cima ho la consapevolezza che la montagna sacra mi accetta amorevole e ogni metro superato è il divino che accoglie il mio passo. Mi viene in mente il capitolo undicesimo della Bhagavad Gita. Il Signore Krishna descrive il gioco cosmico in cui consiste l’universo e alla fine dice: “Questo immenso gioco non è che me stesso”. Krishna espone la religione della lila mayahica, che non è altro che noi stessi. La realtà, tutte le attività di questo mondo, sono le nostre attività, e le mie attività sono le attività dell’universo. È l’Assoluto che si manifesta senza alcuna distinzione tra lo scalatore, il movimento di salita e il monte stesso, tutto è espressione della potenza d’amore primordiale e infinita dell’Essere divino.
Da parte mia ho sopportato una fatica al limite delle mie possibilità. Del resto lo scopo del pellegrinaggio era non tanto portare su il mio veicolo fisico ma le intenzioni di guarigione. Per far questo c’era bisogno di una catarsi personale; quando ad un certo punto della vita si desidera non soffrire più si capisce che qui si deve bere il calice amaro di uno sforzo estremo, affrontato in una giornata di pessima forma fisica segnata da due cadute nella discesa, di cui una abbastanza seria, per poi raggiungere la vittoria finale. Passione e resurrezione metafora della vita di ogni essere umano nelle circostanze critiche dell’esistenza. Tutto questo per obbligare il Divino con il suo potere a concederci le sue benedizioni. Credo che sia così anche per gli altri. Ognuno ha portato sulla cima qualcuno il cui ricordo è molto caro, forse perché quello è il punto più vicino al cielo (il mondo dello spirito) dove incontrare le presenze del piano sottile che si trovano in questa dimensione nella quale siamo parte anche noi con il corpo grossolano. La mia convinzione è che l’essere umano ha in sé una ricchezza inestimabile. La capacità di condividere empaticamente le emozioni e i sentimenti più profondi in un’espansione generale di coscienza nel momento della commozione liberata attraverso il pianto. È la forma più elevata di fusione con il Tutto dove non c’è più separazione spazio-temporale con l’essenza della Sorgente.
A piccoli gruppi iniziamo la discesa per Gorak Shep (m. 5140), ci aspetta ancora una bella camminata di ritorno. Al pranzo non riesco a mettere in bocca più di due granelli di riso, non avverto più la fame e la sete mi sento completamente svuotato. Proseguendo sulla via del rientro Ram si ferma e ci dice che deve tornare indietro ad aspettare quelli che devono ancora arrivare e affida il nostro gruppetto di 6-7 unità alla conduzione di mio fratello: è il suo destino di guida che si compie promuovendolo a sherpa qui sull’Him?laya. Già mi aveva fatto notare argutamente che siamo stati molto fortunati ad aver avuto per tutta la durata del trekking il vento alle spalle nella salita, specialmente quella del Kala Patthar, lo stesso vento che adesso ci aiuterà avendolo di fronte nella discesa. Il suo passo è spedito, lo seguiamo in silenzio in fila indiana tra gli ultimi bagliori di luce del secondo pomeriggio. Le forze residue mi abbandonano. Vorrei fermarmi e restare lì per un po’, ma capisco che non riuscirei più a ripartire. Imbroglio la mente con un reset temporaneo finché arriviamo al rifugio, certo una giornata che difficilmente potrà essere dimenticata.
Dopo un’altra notte tormentata a oltre 4900 metri sempre alle prese con il respiro progressivo, la mattina dopo scendiamo da Lobuche a Dingboche (m. 4420) per passare le prossime due notti. Il martedì saliamo a Chhukhung (m. 4810) per ricongiungerci con i nostri amici della spedizione sul Mera Peak (m. 6.476), che erano scesi il giorno prima superando il passo dell’Amphulapcha (m. 5845): un’impresa alpinistica himalayana di grande spessore tecnico compiuta da una spedizione tutta veronese. Ci abbracciamo forte e ci raccontiamo a caldo le prime impressione provando ancora quella commozione condivisa la cui inerzia non si era ancora esaurita. Col lama Pighi concordiamo sul fatto che questo posto è talmente energetico che le vibrazioni positive vengono avvertite al di là delle difficoltà di ordine tecnico, fisico ed emotivo.
Scrivo queste righe nel lodge pensando che questa riunione con l’altro gruppo segna il termine del mio pellegrinaggio di intercessione culminato sulla montagna sacra, vissuto con lo spirito del sacrificio per la fatica e l’indisposizione, strumenti di purificazione per bruciare il karman e per dare senso e valore al gesto rituale. Immagino sia così per tutti i miei compagni, ognuno dei quali porta in sé la grandezza di questa stupenda esperienza.
Sul sentiero di ritorno da Chhukhung è ancora una volta mio fratello a guidare un piccolo gruppo. Mi incollo ai suoi scarponi e arrivo sicuro a destinazione. Ormai c’è la consapevolezza di esserci fusi con l’ambiente. Penso che sono qui a camminare con mio fratello che mi guida sul sentiero a 4800 e viaggiamo via spediti e disinvolti tra le montagne più alte del mondo, sotto un cielo color cobalto eppure non ci sentiamo per niente alieni. Ramana Maharshi, il maggiore mistico indiano, dice che il sentirsi come a casa propria anche se si è molto lontani è dovuto al fatto che il Sé è ovunque e non si sposta mai.
Incrociamo rari portatori sempre con i loro carichi inverosimili. Gli sherpa sono una popolazione originaria del Tibet. In queste valli la lingua non è il nepalese ma una derivazione del tibetano. I villaggi hanno quasi tutti la desinenza “che” (Namche, Tengboche, Periche, Lobuche, Dingboche, Pangboche ecc.) che significa letteralmente “erba” intesa come terreno cioè luogo, località. Sono denominazioni tibetane.
Siamo sulla via del ritorno. Domani si scenderà per l’ultima tappa da Namche a Lukla, dove si tenterà la roulette russa del piccolo aereo carico come uno yak che ci porterà a Kathmandu. Le nostre mitiche guide nepalesi rimarranno qui e non ci vedremo più. Tuttavia non potrò mai dimenticare la stretta di mano tra Ram ed io quando siamo giunti sulla sommità del Kala Patthar, accompagnata dal suo sguardo al laser e lo scambio di un accorato “thank you” con il quale volevamo esprimere la stima e il rispetto reciproci per essere riusciti ad affrontare ed entrare in perfetta sintonia con la Pietra Nera sacra al Buddha.
Il ritorno non è malinconico, anzi si potrebbe definire liberatorio. Il tratto da Dingboche a Tengboche è bellissimo soprattutto la prima parte fino a Pangboche. Si è quasi alla sommità della valle, lo sguardo si domina il paesaggio con piani sempre più sfumati spaziando fin quasi alla lontana pianura. Sotto scorre un torrente impetuoso e rombante, unica nota continua di una natura selvaggia e inospitale ma vibrante e prorompente. Siamo ancora oltre i 4000 metri e non incontro né trekkers né porters.
Oggi giovedì 5 novembre lasciamo Tengboche dove ieri c’era una festa religiosa e popolare protrattasi per buona parte della notte. Percorro la passeggiata fino a Namche quasi sempre da solo. Si scende da 3900 a 3200 e si risale a 3500; con i vari saliscendi il conto dei dislivelli teorici della mappa vanno ampiamente corretti, così come il conto delle distanze percorse. Si parla di complessivi 140 km. circa. Per la prima volta cammino da solo nel cuore dell’Himalaya e non provo alcuna soggezione. La via è facile da seguire e molto frequentata, c’è solo un bivio ma conosco bene le direzioni ed è ben segnalato. Il sole è caldo e l’aria frizzante come può esserlo a quelle altezze in una giornata fresca ma con ilsolito cielo sereno che ci ha gratificato per due settimane.
La vista è da brivido, a nord sempre il Nuptse e il Lhotze dissolti tra lievi nuvole d’alta quota, a est l’Ama Dablan in cartolina che sorveglia attenta il via vai della vallata. Rimessomi completamente dall’indisposizione di domenica riscopro il piacere del camminare per il semplice gusto di farlo. Non sono più l’ombra inscindibile di mio fratello. Sfreccio con il mio miglior passo su per le ripide rampe di qualche centinaio di metri di dislivello, riscopro una forma brillante e performante che non pensavo di avere, dovuta forse al superamento delle prove dei giorni precedenti. Ecco un gradito effetto collaterale del pellegrinaggio. È una bella soddisfazione camminare da solo in perfetta armonia con la natura; per una volta mi rallegro di non dover subire il passo di qualcun altro e ascoltare i vari commenti o le immancabili soste fotografiche, o i pipì-stop che colgono all’improvviso a causa del freddo, dell’altitudine e di qualche tazza di the in più. Ad ogni svolta del sentiero si ammira una cartolina sempre diversa, tutte da incorniciare. Non importa se qualcuno del Mera Peak mi sorpassa agevolmente, abbiamo età diverse e un altro allenamento, qui non c’è competizione come in altri sport, ognuno se la vede sempre solo con se stesso e con la montagna.
A Namche Bazar passiamo un pomeriggio in pieno relax. Dopo una doccia calda (finalmente!!) e un riposino ristoratore, io e mio fratello facciamo i turisti comperando un po’ di tutto da portare a casa agli amici e parenti: pietre di protezione (chuan zhee), corone di legno (mala per il japa), bandierine di preghiera tibetane, cimbalini dal suono simile al diapason. Ci fermiamo all’Everest Bakery in centro al villaggio più incredibile del mondo ad un’altezza superiore alla Marmolada (la più alta vetta dolomitica), dove ci spariamo cappuccino e butter cookies, mi sembra di essere in uno chalet svizzero. Si ritorna ad una vita normale, si fa per dire, dopo le privazioni e le fatiche dei giorni precedenti.
Allo Yeti Lodge conosco Franco Zibordi, un ex dirigente di banca di Modena che con un suo amico ha fatto anche lui il Kala Patthar e poi proseguirà per Mumbay dove sovvenziona una scuola per i bambini degli slums, mi dice che lo sviluppo della valle è stato reso possibile dalla costruzione della centrale idroelettrica che ha permesso di accedere alle comunicazioni (telefono e internet), alle installazioni varie, all’acqua calda ecc.
Siamo all’ultimo giorno. Oggi si conclude il trekking, partiamo di buonora da Namche e ripercorriamo in discesa il cammino fatto all’andata che ci era sembrato così impegnativo. Si devono ancora affrontare gli innumerevoli saliscendi e attraversare i ponti sospesi. Ci sono i soliti rischi da correre: il fondo è insicuro fatto di pietre, sassi, sabbia, rocce sporgenti, lastre coperte di polvere che formano scale irregolari che salgono e scendono in continuazione. In alcuni tratti il sentiero è molto stretto e particolarmente accidentato. Quando si incrociano i buoi da trasporto è necessario stare molto attenti per non essere sventrati dalle corna aguzze che sfilano a pochi centimetri dalla pancia. Ci si ferma al punto in cui c’è l’ultimo avvistamento del Sagarmatha che da qui sembra lontanissimo. Un ultimo sguardo: i profili delle vette sono netti stagliati contro l’orizzonte terso perfetto, sospesi tra terra e cielo. Una stretta al cuore, è più un addio che un arrivederci. Sopra le nostre teste volteggia saggiamente sostenuta da una leggera brezza un’aquila che sembra guardarci dall’alto con curiosità e sufficienza. A differenza dei gipèti visti a Namche e a Chhukung che hanno la coda a cuneo, le aquile sono appena più piccole e hanno la coda a ventaglio.
meditazione con il Lama Monastero di Tengboche (m. 3860) |
Ancora una volta mi ritrovo a camminare da solo; alla cascata faccio una breve sosta tecnica e vengo raggiunto da Ezio, il più esperto e maturo alpinista della spedizione, ha fatto più di 30 trekking intorno a tutti gli 8000. Facciamo un bel tratto insieme, lui davanti e io dietro di conserva dribblando le innumerevoli asperità. Quando arriviamo tra i primi alla sosta pranzo a Pakding si gira verso di me e mi tende la mano ringraziandomi per la compagnia, la condivisione del percorso e dello sforzo. Gliela stringo calorosamente dicendogli che, onorato, sono io a ringraziarlo e che con lui davanti si può fare tranquillamente il trekking intorno al mondo.
Ormai rimane solo da fare la risalita fino a Lukla. Mikka, uno dei giovani assistenti di Ram, sta male. Ha quello che avevo io alcuni giorni fa. Cammina con una faccia sofferente insieme a me e mio fratello. Mi fermo e gli do le pastiglie per il mal di pancia che ho nello zaino. Inizia la fase finale della salita verso l’ultima tappa. Mi viene la tentazione di scatenarmi come nei giorni scorsi ma mi freno e preferisco stare con Franco, l’Anna e Mikka, che arranca come può e mi segue come un’ombra perché all’arrivo del sacco grande gli darò le altre medicine. Senza accorgermene e senza sforzo arrivo all’arco che segna l’inizio, e adesso la fine, del trekking. Tutto finisce lì in un lussuoso lodge dove sulla terrazza panoramica baciati dal sole del mezzo pomeriggio veniamo accolti da Daniele della Focus e dalle giovani e graziose camerierine nepalesi che ci offrono salviette bollenti, the caldo e biscottini. Ci scambiamo abbracci e pacche sulle spalle e le diamo a quelli che arrivano dopo di noi. Il posto è magnifico, domina tutta la valle e in mezzo al giardino ben curato c’è un bellissimo stupa di recente fattura. Siamo comodamente seduti a raccontarcela in un clima di contagiosa euforia godendoci il panorama, il cielo e questa luce avvolgente. Ci raggiungono tutti a piccoli gruppi sono sempre baci e abbracci. È andato tutto bene, siamo arrivati tutti, nessuno si è fatto male. La soddisfazione è enorme sottolineata dal compiacimento del lama Beppe che mi conferma le sue sensazioni positive presagite circa l’esito finale di tutta l’iniziativa di cui si sente il responsabile morale. Si fanno foto e ci si complimenta con enfasi adesso è possibile farlo senza riserve. Alla sera cena di festeggiamento nella sala da pranzo che sembra una stanza del Potala di Lhasa, con discorsi di Beppe e di Purna. Euforia e commozione si coniugano tra scariche adrenaliniche e riflessioni sul significato del cammino; l’impresa è stata andare in alto sulla cima come pure giù in profondità nel proprio intimo. Il viaggio è interiore, la natura severa estrema lascia poco spazio all’appagamento immediato dei sensi, di notte c’è freddo, non ci sono comodità, si mangia poco e poco bene. L’attenzione passa progressivamente dalle montagne bellissime granitiche e inaccessibili alla profondità della nostra interiorità, è un viaggio dentro di noi, mentre siamo continuamente osservati dai mastodonti nati direttamente dal sole quando la terra si è solidificata e non sono mai stati bagnati dal brodo primordiale delle acque poi ritiratesi nelle pianure sottostanti. Stefano mi fa giustamente notare che la cima è solo il punto di arrivo e che quello che ha avuto importanza è stato il viaggio.
Ritorniamo a Kathmandu in tempo per fare un giretto a Thamel, visitare Durbar Square con esibizione della piccola Kumari (la dea bambina) e fare la tripla pradakshina intorno allo stupa di Bodhanath addobbato per una festa. I lama del gompa ci tirano dentro al piano superiore per una puja molto intensa con varie benedizioni e cordino di rifugio d’ordinanza; al momento di versare la nostra oblazione mi si avvicina da dietro un lama che mi sussurra all’orecchio “money of your country please..”. Metto via le rupie nepalesi e pago in euro, anche le due giapponesi avevano pagato in dollari. Tornando all’albergo incappiamo nell’immancabile corteo di dimostranti che bloccano un traffico già al collasso in condizioni normali, sorvegliati da soldati in tenuta antisommossa. Tutto si risolve nel giro di un’ora con lo stratagemma di mettere bene in vista nella cabina di guida la nostra dolcissima amica Paola con il suo caschetto biondo per far vedere che il nostro non è nient’altro che un innocuo pullman turistico.
A pranzo incontriamo Lila (noto la stranezza del nome femminile dato ad un uomo) un amico di vecchia data di Beppe. È un professore nepalese che parla anche la hindi più le lingue europee e il sanscrito. Si accende un pacifico e pacato “dibattito” sulle grandi sentenze della filosofia indiana. Si dice che solo un realizzato può riconoscere un altro realizzato e a me sembra di capire immediatamente che lui lo è, forse la sensazione non è reciproca, tanto so che questo non ha alcuna importanza. La sua saggezza mi colpisce profondamente e non mi resta che augurarmi di poterlo reincontrare presto in Italia, in Nepal o in India.
Ultimi scampoli di shopping per le strade pittoresche e congestionate del centro e poi via verso l’aeroporto. Il viaggio aereo fila liscio e a Verona i gruppi si sciolgono. Ritorniamo nella quotidianità ognuno per conto proprio nelle proprie famiglie. Ci resta la consapevolezza che questa esperienza non potrà mai essere dimenticata. Siamo stati in quello che viene definito uno dei luoghi più belli del mondo. Negli occhi mi rimarrà sempre la visione delle più alte vette himalayane come ho avuto il privilegio e il dono di ammirarle dalla cima del Kala Patthar, la Pietra Nera, la montagna che prega.
(dedicato a Sattvi Sonia Artegiani e Franco Maturi).
Purnananda Zanoni studia le tradizioni filosofiche e teologiche nelle diverse culture occidentali e orientali
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