Due uomini soli al comando

di Pierluigi Cortesi –

(Castiglioncello – Stelvio in bici)
Prologo: Io ho scoperto la bici da 10 anni esatti, durante i quali, grazie ad una crescente quantità di km, ho accumulato una modesta potenza insieme a una discreta resistenza; ma non ho mai affrontato percorsi più lunghi di un centinaio di km e la parabola delle mie prestazioni fisiche, dopo essere cresciuta nei primi anni (per forza: partivo dallo zero assoluto di un’esistenza totalmente sedentaria…) negli ultimi tempi ha inequivocabilmente iniziato a curvare verso il basso

ma mi sorregge un miscuglio di ardore ciclistico, ideali ecologisti e un inconfessato desiderio di rivincita contro l’età, oltre naturalmente alla passione con cui il mio amico Alberto (un ragazzino di quasi 50 anni) mi ha contagiato, raccontandomi per tutto un inverno di quella sua impresa giovanile, quando con una comune bicicletta, pochi bagagli e un amico partì da Livorno per andare a scalare lo Stelvio, quel passo di 2758 m. che nell’immaginario di ogni ciclista costituisce un mitico punto di riferimento e che da sempre viene associato a quel grande “uomo solo al comando” che fu Fausto Coppi.

E questa sarà appunto la meta di questo primo cicloviaggio. Alberto è non solo la musa ispiratrice, ma anche il compagno di questo raid un po’ folle: certo ha già compiuto l’impresa di arrampicarsi sullo Stelvio in bici, ma da ragazzo; e ora pretende di affrontare la stessa avventura con almeno 30 anni e 10 kg in più (non esattamente di massa muscolare). Inoltre la sua unica forma di preparazione sportiva di questi tre decenni si è limitata ad alcune irregolari uscite domenicali da 40-60 km negli ultimi mesi soltanto. Ma ha dalla sua una strana capacità di recupero fisico (a volte, dopo aver saltato l’allenamento per 3 settimane consecutive, si è dimostrato capace di scatti e resistenze da campione superallenato) e soprattutto una buona dose di adolescenziale entusiasmo; o incoscienza, come la definiscono i maligni.

Chi pensa che per un’impresa del genere sia opportuno essere affiatati e in qualche modo somiglianti, sbaglia di grosso. Lui ed io siamo diversissimi nel fisico, nel carattere e nelle esperienze di vita, quanto possono esserlo un vecchio prete di campagna e un giovane casseur della banlieu.  Ci accomuna, però, il piacere della fatica, capace alla fine di restituire (secondo un’etica sempre meno di moda) una soddisfazione proporzionale al sudore versato, il piacere della pedalata in mezzo al verde o lungo il crinale tra i poggi e comunque lontano dal rumore e dallo smog del traffico, il piacere delle salite mozzafiato e delle discese folli in una corsa con velleità competitive solo verso se stessi, il piacere di trovare un fico o un ciliegio selvatico generoso di frutti al ritorno da una pedalata massacrante, il piacere di ridere di stupidaggini, bagnati fino al midollo sotto un acquazzone estivo, il piacere di incuriosirsi di luoghi, piante, animali, persone che hanno avuto la s/ventura di imbattersi in noi…

In qualità di preparatore atletico, pianificatore e navigatore del team, io programmo scrupolosamente il percorso, riempiendo tabelle su tabelle di kilometraggi, soste, pendenze, tempi e medie, sulla base di un’esperienza e di un’autorevolezza che non ho; così, in omaggio alla nostra verde età di quasi- & ultra-cinquantenni, decidiamo di effettuare il viaggio in un periodo fresco come l’Agosto, di allungare il percorso, partendo da Rosignano, anziché da Livorno, e di evitare quando possibile le strade più importanti (pianeggianti e dirette, ma monotone e trafficate) a favore di quelle secondarie o collinari (più varie e meno battute) e di osservare una tabella di marcia di circa 150 km al giorno per un totale di quasi 500.
Pertanto, lasciate al loro destino le rispettive mogli e prole per una settimana, stabiliamo di raggiungere in un modo o nell’altro (“Pazz ‘ e criature Iddio l’ aiuta”) in tre giorni Grosio e da qui, il quarto giorno, Bormio e il passo dello Stelvio; l’indomani poi, a impresa compiuta, dovremmo provare in tre giorni a tornare fino a casa (quasi) sani e salvi e magari felici e contenti. Riuscirci sembra quasi un sogno, una favola, ma un’ esaltazione un po’ fanciullesca e un po’ senile ci dice che potremmo anche farcela e che comunque tentare si deve!



Proviamo allora a raccontare l’impresa dell’eroica coppia, adottando e adattando maccheronicamente la struttura della fiaba, che prevede l’allontanamento, le tre prove, il trasferimento, il duello con l’antagonista, il trionfo e il ritorno. Certo mancheranno aiutanti, donatori, oggetti magici e belle principesse, ma mica si può avere tutto.

La partenza degli eroi
Castiglioncello. Appena Alberto arriva dalla vicina Quercianella, si controllano i bagagli e ci si prepara alla partenza tecnicamente e psicologicamente; è il primo viaggio in bici di più giorni: si parte emozionati e un po’ timorosi. Non è proprio l’alba quando si dà il primo colpo di pedale: nonostante i buoni propositi, sono le 10 passate.
Le bici hanno un carico inferiore ai 10 kg ciascuna coi bagagli ripartiti fra la borsa al manubrio e le due posteriori sulle quali è poggiato uno zainetto. Si parte di slancio e dopo una decina di km quasi totalmente pianeggianti, sulla salita del Sonnino (m. 81 s.l.m., contro i 2758 dello Stelvio!) trafelati saggiamo la robustezza del mezzo meccanico e di quello umano: onestamente sufficiente il primo, decisamente scadente il secondo; ci guardiamo in faccia, ma preferiamo non dire nulla.
Si procede a moderata andatura nel caldo e nel traffico dell’Aurelia fino al confine con la Liguria. Tratto tutto pianeggiante: rassicurante, ma sostanzialmente monotono. Sosta pranzo presso Marinella.


La prima prova: la Cisa
A Sarzana bivio per Aulla. Le nuvole di caldo e l’afa danno luogo alle prime gocce. Tra Aulla e Pontremoli è tutto un mettersi e levarsi le mantelline. Visto, però, che ce le mettiamo quando siamo già bagnati e ce le leviamo quando spiove, ma siamo comunque inzuppati di sudore, decidiamo di non indossarle più.
Primo vero banco di prova: inizia la salita della Cisa, dove si procede ad andatura spaiata, anticipo di una costante che si ripeterà in tutto il viaggio: uno dei due alternativamente fresco e pimpante davanti e l’ altro stanco e mogio dietro.
Dopo Pontremoli la salita e la pioggia si fanno più serie, ma l’aria rinfresca e io procedo più a mio agio. In uno scenario reso grandioso da sprazzi di porpora e azzurro tra nubi gonfie d’acqua, vallate di un verde intenso e il nero lucido dell’asfalto che serpeggia in salita, (la pendenza non supera il 7%) si conquistano i 1050 m. del passo della Cisa, spartiacque tra Lunigiana e Parmense. Ogni tanto qualche sosta fotografica di A. per riprendere il paesaggio, dice lui, ovvero fiato, dico io.
Seguendo l’antica via Francigena si raggiunge Berceto, che è ormai sera. Certo i pellegrini romei dovevano superare boscaglie, paludi e valichi più impervi di questi, affrontando lande desolate o infestate da briganti e non avevano a disposizione né bici né strade asfaltate, ma i nostri colli, schiene e polpacci non sembrano interessati a confronti di tipo storico.
Per disperazione (il buio e la fatica suggeriscono di concludere la tappa al primo albergo possibile), rinunciamo a cercare una sistemazione economica e ci fermiamo all’hotel “Del Poggio”, che a prima vista ci pare caro e sussiegoso, ma i timori si riveleranno del tutto infondati. Cena e pernottamento (salvo qualche indolenzimento) risultano soddisfacenti, così come soddisfacente è stata questa prima giornata di viaggio nonostante la comprensibile stanchezza e il timore di non farcela.
E’ la prima sera di coabitazione tra me e A. e la novità ci impone qualche espressione riguardosa: “Vai pure in bagno prima tu”, “Se leggo un po’, ti dà mica noia la luce?”, “Se russo, svegliami pure…”. Ma questi pudichi salamelecchi saranno i primi e gli ultimi.

La seconda prova: la Padania
Colazione “ciclistica” da manuale: dopo una serie di richieste di tazze di caffè e latte con brioche, il gestore capisce l’antifona e ci porta due grossi bricchi di caffellatte, con un vassoio di fette di pane, biscotti, burro e marmellate.
Mattina splendida e paesaggio bucolico, con mucche e fiorellini. Inizia la discesa che, con qualche saliscendi, dopo 30 km ci porta a Fornovo. Fine del paesaggio bucolico: traffico di camion, pullman, auto e moto ; altro che “prateria tra la via Emilia e il West”: qui siamo in pieno Far West automobilistico; ci confermiamo nella decisione di evitare il più possibile le vie nazionali.

Breve sosta presso Fontanellato e la sua Rocca; poi si punta sul più vicino ponte sul Po, a Ragazzola: il paesino sotto la calura è assolutamente irreale: pare abbandonato da Dio, dagli uomini e dagli animali, mosconi esclusi. Durante un affamato “rastrellamento” di ristoranti, trattorie, bar e simili, troviamo un’osteria, ci si siede accanto il gestore, un vecchino pallido e smunto che ci preannuncia la sua morte imminente. Scongiuri sotto il tavolo. “Beh non è questione di minuti” ci rassicura la moglie per farci mangiare. “Tanto si deve morire tutti” rincara lui. Altri scongiuri. Per cambiar discorso gli si chiede che mestiere faceva prima. Pausa di mezzo minuto , poi ci rincuora la risposta: “Il becchino!”. Scambio di pedate d’intesa tra me e A. e sghinazzi a testa bassa camuffati da finti colpi di tosse che mi fanno andare di traverso il cibo. Poco manca che, a forza di tossire e soffocare, sia io il morto tanto agognato.
Di slancio si oltrepassa il Po, ma l’ingresso in Padania è apportatore di altre sciagure: dai campi fumiganti di calore si spande un lezzo insopportabile, dolciastro e nauseante: siamo circondati dallo sterco di maiale dei 25.000 allevamenti padani. Gli indigeni sembrano non avvertirlo più, ma a noi si insinua nei capelli, nei vestiti, nelle borse, perfino nelle borracce che per giorni ci restituiranno quel tanfo infame. Come se non bastasse, dobbiamo fare lo slalom tra gli spruzzi di uno spargi-liquami che lavora controvento in un campo ai bordi della strada. Stremati dall’ afa e dai miasmi, si procede lentamente, aggirando Cremona e poi Brescia in direzione del Lago d’Iseo.
Cerchiamo di evitare le città o almeno il centro; sarà forse per questo che, costeggiando le periferie, dove i condomini cedono il passo alle villette e queste alla campagna, avvertiamo quasi un senso di desolazione e di tristezza; inizialmente non mi rendo conto del motivo, anche perché le abitazioni non denotano miseria o abbandono, anzi sono moderne, ben tenute, per lo più con un pratino curato, abbellito da siepi e fiori (e magari imbruttito da qualche inevitabile nanetto); ma poi osservando meglio, quello che colpisce è l’assoluta mancanza di gente e il loro aspetto disabitato, quasi lunare, come in certe aree turistiche lungo la costa d’inverno. Non possono essere tutti fuori città o in ferie! Che in realtà la zona non sia spopolata come sembra, lo testimoniano alcune auto parcheggiate nei cortiletti o nei giardini, e qualche luce che filtra dalle tapparelle, tutte abbassate; ma sono proprio queste ultime con la presenza di inferriate alle finestre e di grate alle porte a dare il senso di disumano isolamento e solitudine di queste vite blindate all’interno del loro sordomuto benessere.
Come Dio vuole ci lasciamo alle spalle, dopo i “maialifici”, anche queste tristi cittadine e, sarà il crepuscolo rosato, sarà la piacevole frescura della sera, ma perfino l’olezzo dello sterco bovino, che ogni tanto ci attraversa la strada, pare profumato di poesia .
A buio si raggiunge un hotel a Rodengo Saiano dove ci assicurano la possibilità di cenare dopo una rapida doccia. Ma, per liberarci dal lezzo suino, la doccia è tutt’altro che rapida; quando scendiamo al ristorante, la padrona ci risponde scostante che ormai è troppo tardi e le cucine sono spente. Io indosso i panni del signore orgoglioso e faccio il superiore: “Vuol dire che ne faremo a meno”, dimostrando come lo spirito sappia esser forte, pur se la carne è debole, ma lo spirito di A. dev’essere ancor più debole della carne, se scatta: “Col cavolo! Io VOGLIO mangiare!”. La spunta lui e si rimedia una cena fredda ma passabile. Prima di dormire faccio il bucato, lo strizzo e stendo ad asciugare i pantaloncini sul televisore e i calzini sull’abatjour accesi, perché siano ben asciutti al mattino.
Mi sveglia di notte il fumo acre che ha invaso la stanza: dal calore il paralume si è liquefatto sulla lampada e i calzini si sono carbonizzati. Spalanco le finestre per rendere l’aria meno irrespirabile, ma al mattino attratta dal puzzo di bruciato arriva una cameriera che inizia a strepitare. Nascosti i miseri resti dei calzini e conscio del fatto che la miglior difesa è l’attacco, la blocco con l’accusa sdegnata di aver utilizzato abatjour sintetici difettosi e pericolosi per i clienti. La cosa funziona e possiamo ripartire senza ulteriori aggravi.


Il Trasferimento: verso Bormio
Si punta a Nord, Iseo e l’omonimo lago, il quale ci appare improvvisamente, magicamente sfumato nella foschia dell’ afa; il paesaggio, anche se sempre urbanizzato, è ora più gradevole e soprattutto non si avverte più il tanfo delle porcilaie.
Costeggiamo il lago, aggirando il Monte Isola e ci si infila in un tunnel: è buio per un guasto al sistema di illuminazione, ma non c’è problema: accendo il potente faretto preparato per simili eventualità e si procede. La galleria è più lunga del previsto, ricca di curve e senza altra illuminazione del faretto, che improvvisamente si spegne (non spiego ad A. che, per risparmiare peso, al posto di 2 mezze-torce ne avevo inserite 2 mini). Totalmente immersi nel buio, avanziamo a tentoni, rischiando di sbattere sulla parete destra o peggio di finire sull’altra corsia. Ci teniamo in contatto con la voce, ogni tanto tamponandoci a vicenda. Improvvisamente un rombo di moto a tutto gas riempie la galleria; sono attimi di terrore: non sappiamo dove ci troviamo, né come avvertirlo; provo a gridare inutilmente e accostiamo il più possibile verso destra. . Faccio fatica a trovare la parete, probabilmente ero in mezzo di strada oppure a metà di una curva. La moto arriva sparata, ci illumina all’improvviso e ci vede all’ultimo momento; brusca frenata con scodamento, ma ce la fa ed evitarci; si allontana urlando qualcosa che non capisco, ma che intuisco benissimo.
Rinunciando a malincuore ai graffiti camuni, saliamo a Breno e ci facciamo tentare da un ristorante etnico a tariffe stracciate. In effetti il cibo è ottimo, come pure l’ acqua, che richiediamo, letteralmente, a litri. La sorpresa arriva col conto: le pietanze erano effettivamente a buon prezzo, ma l’acqua no!

La terza prova: l’Aprica
Si costeggia l’Oglio in leggera salita verso Edolo; poi si devia verso l’Aprica. Affrontata con un po’ di timore reverenziale, si rivela salita regolare e agevole nonostante i bagagli. A. la supera con un passo e un umore migliori che sulla Cisa. Si scollina e ci si lancia in discesa tra gli abeti fino a Villa di Tirano e da qui verso Bormio; la pendenza è lieve, ma ormai la pedalata si è impigrita e sta scendendo la sera. Decidiamo perciò di fermarci, 27 km prima di Bormio, a Grosio. Dopo qualche difficoltà a trovare un albergo libero, alla fine recuperiamo una stanza nella dependance sotterranea di un grosso hotel. Per questo il proprietario (un buontempone che, per non interrompermi la degustazione dei pizzoccheri, si rifiuta di passarmi le telefonate da casa) ci promette dei lauti sconti che rimarranno invece sulla carta. In compenso durante la notte il sistema fognario del bagno rigurgita sulla moquette il proprio contenuto e la prima parte del viaggio si conclude, letteralmente, nella m….
Ma siamo ormai praticamente ai piedi dello Stelvio e questo è quel che importa.


La lotta finale contro l’antagonista: lo Stelvio
È il gran giorno. Colazione all’hotel meno abbondante del solito; e siccome in aggiunta alla sacra triade caffè-cappuccino-brioche, osiamo chiedere l’abituale bis, abbiamo la sorpresa di pagare un supplemento. Ma siamo troppo eccitati e concentrati sull’impresa che ci attende, per prendercela.
Io vorrei prendere una scorciatoia per risparmiare tempo e fatica, arrivando alla base della salita con le energie fresche, ma A. è tanto gasato che pretende e ottiene di effettuare una piccola “allungatoia” tra i monti, così, da Grosio raggiungiamo Bormio dopo una corsa sfiancante tra valli e valichi, percorrendo una quarantina di km invece dei 25 previsti.
Ad un bar di Bormio, situato proprio all’inizio della salita, mangiamo un boccone appena, per tenerci leggeri. Poi partiamo insieme verso mezzogiorno. È un po’ tardi e il cielo è incerto, ma l’aria fresca alimenta l’entusiasmo e sembra iniettare nuova energia nelle gambe.
Ci lasciamo, subito, a sinistra il bivio per Livigno. Io procedo euforico, A., più pensoso, pedala a passo moderato, ma costante. Così, però, mi sembra di sprecare tempo; fremo per andare più in fretta, perciò, dopo un po’, decido di lasciare A. dandoci appuntamento sulla cima.
La bicicletta, anche se adesso mantiene ancora borse, borsetti, portapacchi e qualche attrezzo o ricambio, è stata liberata dal grosso dei bagagli e mi sembra leggera e agile. Nonostante le pendenze sul 7-8%, mi slancio con entusiasmo su per la salita, sorpasso vari ciclisti, brucio energie, ma sto inseguendo l’obiettivo non dichiarato, o meglio il miraggio, di raggiungere la meta in meno di due ore, possibilmente in 1 h e 45’
Prima pioggerella; mi fermo a mettere e levare la mantella due o tre volte, ma queste interruzioni sono fastidiose: allungano i tempi e spezzano il ritmo delle pedalate.
Superata la prima cantoniera sono a un terzo del percorso. Adesso il passo è meno brioso, ma mi incoraggia la vista dei ciclisti che scendono giù a tutta birra, attenti ad ogni tornante a impostare correttamente le traiettorie per non stamparsi sulla mascherina o sul parabrezza di qualche SUV. “Fra non molto – penso –saremo noi a fare altrettanto. Certo, se fossimo partiti un po’ prima…”.
Il traffico di auto e moto, inspiegabilmente aumentato (soprattutto in salita), si rivela più irritante del previsto. Contemporaneamente lo stomaco manda i primi segnali di carburante in esaurimento: la colazione e soprattutto lo spuntino (volutamente leggero per non appesantire la pedalata con una digestione faticosa) si sono rivelati inadeguati alle richieste energetiche della giornata. Sono in dubbio se accelerare per raggiungere prima possibile il passo, oppure rallentare per risparmiare energie. Nel dubbio non ne faccio di nulla.
Il cielo è sempre più bigio e appanna il panorama, o forse sono i miei occhi ad essere appannati; alla naturale fatica si è aggiunto il fastidio di qualche folata umida e gelida (resa più sgradevole dalla copertura piuttosto leggerina della maglietta con cui ho deciso di affrontare l’ascesa per “non dover sudare”) e, in misura ancora maggiore, la sempre minore quantità di ossigeno a cui si mescolano gas incombusti, ossido di carbonio, particolati vari prodotti dalle auto che mi affiancano e superano con generose sgassate. La situazione si aggrava dopo l’una, quando resto bloccato dal traffico in una corta e stretta galleria: i gas di scarico prendono alla gola; trattenere il respiro non è una gran soluzione a questa quota e col fiatone. Riesco a liberarmi dalla galleria solo scendendo di sella e procedo a papera sui calcagni, con la bici sollevata in alto, facendo slalom tra le auto ferme.
Bocca del Braulio, finalmente, i due terzi della salita; il paesaggio, in altre condizioni fisiche e climatiche, sarebbe sicuramente fantastico, ma così…
Non smette di piovigginare. Acqua e sudore si mescolano sopra e sotto la mantellina. Non vedo altri ciclisti; alcuni mi hanno superato e sono spariti più avanti, altri devono essersi fermati a ripararsi all’uscita dell’ultima galleria o al bar situato su un tornante a metà salita circa. Mi balenano  ossessivamente in testa immagini, odori e sapori di crostate, banane, cappuccini fumanti, cioccolate bollenti… Tosse, freddo, pioggia intensa, fame.  Le pendenze si fanno più dure, il battito cardiaco è sempre più frequente e i polmoni sembrano riempirsi solo a metà… finché … B U M !  Sono scoppiato. L’ avventatezza e gli errori si pagano prima o poi.
Devo riprender fiato: scorgo A. tre tornanti più in basso; mi faccio raggiungere. Ripartiamo insieme, ma ognuno al proprio passo, come la lepre e la tartaruga: lui sale regolare, io procedo a piccoli strappi di 200 m. a 10-14 km/h, poi lo aspetto e riparto di nuovo, cercando così di recuperare in questi brevi intervalli.
Non piove più e la pendenza sembra attenuarsi, ma sono intirizzito e svuotato di energie; gli ultimi km, dopo il bivio per il giogo di S. Maria, riprendono a salire a oltre l’8% e sono una sofferenza continua; li affronto a testa bassa, stringendo i denti e dicendomi che, tanto, fra 10-15 minuti sarà tutto finito; provo anche a fischiettare per farmi coraggio, ma è un rantolo. A. non spreca neanche un po’ di fiato per parlare, anzi mi indirizza occhiate torve e minacciose, quando provo a rivolgermi a lui.


Il Trionfo degli eroi
Infine stremati raggiungiamo il passo: negli ultimi metri aspetto A. per varcare insieme il “traguardo” di questa strana corsa (contro cosa?), dopo aver percorso i 21,8 km di salita in 2 ore e 16 minuti a una media di 10 km/h scarsi, altro che 1h e 45’! Non nascondo la mia delusione, pur rendendomi conto di quanto la cosa sia sciocca, quasi infantile; A. invece è giustamente raggiante!
Foto ricordo davanti al cartello che indica i 2.758 m. in mezzo a frotte di turisti tra le bancarelle; con scarso successo cerco di sorridere e darmi un contegno per nascondere la spossatezza fisica e mentale. Guardo in alto per vedere se da dietro qualche nuvola il grande Fausto si fosse affacciato a salutarmi, ma c’è troppa foschia e non lo scorgo, oppure si è scocciato di aspettarmi. I radi sprazzi di sole servono solo a rendere più pungenti le raffiche di vento gelido e umido che i due versanti dello Stelvio si scambiano tra loro. Solo ora mi accorgo che sono rimasto con la canottiera traforata che avevo durante la salita, mentre prudentemente A. indossa maglietta e K-way. Sarà anche per questo che lui è già fresco e pimpante, mentre io mi sento un limone spremuto. Subito dentro un bar a bere A. una birra e io una cioccolata bollente. Ma né questa, né la successiva crostata alleviano il senso di freddo e sfinimento. Quando chiedo ad A. ricordi e dettagli della sua prima scalata dello Stelvio, da ragazzo, tanti anni fa, mi confida un particolare sconvolgente taciuto finora: il suo compagno di allora è morto non molto tempo dopo l’impresa; anche se tra i due fatti non vi sono collegamenti razionali, la cosa mi turba un po’.
Comunque è innegabile che abbiamo vinto la nostra epica lotta contro lo Stelvio, anche se in maniera meno gloriosa di quanto avevamo (avevo) sperato. “Certo non solo i Coppi e i Bartali, ma anche i più mediocri cicloamatori, sono in grado di salire con più scioltezza e rapidità di noi…” dico ad A., “Messersì . risponde lui ispirandosi forse alla risposta di Chichibio a Currado . ma se avessimo avuto anco noi bici ultraleggere, zero bagagli e magari un’ammiraglia al seguito, …” Non finisce la frase che scoppiamo tutti e due a ridere.


Il Ritorno
Dopo un’ultima occhiata, per nulla vogliosa, ai tornanti dalla parte di Trafoi, decidiamo di ridiscendere verso Bormio. Mi illudo di poter spuntare velocità folli in discesa, prendendomi una netta rivincita sulla lentezza della salita; ma, anche se stavolta mi sono coperto con tutto quello di cui dispongo, il vento freddo, unito alla disidratazione, e alla stanchezza, esaurisce le ultime energie: il tremito si fa ingovernabile, le mani sembrano paralizzate e incapaci di frenare e un paio di stretti tornanti mettono in crisi il controllo della bici. Approfitto delle frequenti e prolungate soste di A., il quale si ferma ogni 100 m. a scattare foto misteriose (che non mi sarà mai dato di vedere), per rifugiarmi nel bar di metà salita a ingollare cappuccini e brioches. Un po’ rinfrancato arrivo finalmente a Bormio, insieme ad un A. euforico che deve faticare non poco per tirar su l’amico, semidepresso per il modesto livello di prestazioni.
Alla fine A., adottando una sorta di terapia omeopatica per dimenticare stanchezza (di entrambi) e delusioni (mie), la spunta, convincendomi a raddoppiare la follia della mattina: ripercorriamo la stessa strada collinare dell’andata, la cui toponomastica è andata perduta, insieme a qualche milione di cellule cerebrali, per effetto delle tante tossine e dello scarso ossigeno che ci sono circolati nel sangue oggi. La definitiva riconquista del buonumore generale sarà sancita da una foto che ci scattiamo a vicenda su un tornante davanti a un muro bianco su cui una mano ignota e preveggente ha scritto “cretino”.

A sera abbondanti libagioni suggelleranno una giornata e un’impresa a cui le ripetute narrazioni daranno una coloritura epica, ma intanto il vino è utile ad esorcizzare il pensiero del conto dell’albergo e soprattutto del viaggio di ritorno che ci attende: oltre 30.000 pedalate al giorno, fetore di letame e di gas di scarico, vento, sole e salite, sudore e sete, gallerie non illuminate e traffico, indolenzimenti e, soprattutto, fatica; ma tutto questo adesso, non conta. O quasi. Il pensiero, nei tre giorni di pedalate che incombono, sarà rivolto a programmare la prossima avventura.

Agosto 2000

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