di Andreiaway –
E così ci abbiamo provato a ritagliarci un’oasi di pace, lassù sulle Ande. Avevamo trovato una stanza con finestra panoramica e persino due, dico due, sedie. Laura aveva iniziato come cameriera in un posto decente: niente minigonna d’ordinanza né l’obbligo di stare in piedi in silenzio ad attendere i clienti, come all’Uruguayo di Talara. Intorno a noi solo rovine incaiche, montagne immense da mozzare il fiato e un sacco di turisti che ogni giorno passano da Ollantaytambo – così si chiama il paesino in questione – per prendere il treno diretto a Machu Picchu.
o mi apprestavo a passare un buon periodo da uomo solitario e meditabondo, dedito alla scrittura e alle passeggiate. Un mantenuto, insomma.
È pur vero che la gente del luogo era particolarmente ostile con noi, almeno ogni volta che mettevamo il naso al di fuori del circuito turistico. Non vivevamo in un ostello da 50 soles a notte, ma in una stanza da 200 al mese. Non frequentavamo gli Internet caffè o i ristoranti “tipici” della piazza centrale da 5 soles per una tazza di tè, ma le pollerie da 6 soles per un pasto completo e il mercato comunale. Sì, ci arrabbiavamo più del dovuto nello scoprire, ancora una volta, che poco importa se sai benissimo il prezzo medio delle cipolle e dei pomodori: se hai la faccia da gringo e la felpa Adidas devi pagare il doppio, e se fai storie ti trattano male, qui più che altrove. Ma noi eravamo disposti a sopportare, il luogo in cui stavamo valeva la pena ed era il migliore per aspettare l’ormai agognato volo per la Nuova Zelanda.
“Leggi sempre bene e fino in fondo prima di firmare”: questo ti insegnano i genitori quando compi diciott’anni. Ma andiamo con ordine: esiste, per chi va in Nuova Zelanda dall’Italia ed ha meno di 31 anni, la possibilità di richiedere una Working Holiday Visa, un visto che ti permette di stare un anno ed anche di lavorare. E noi lo vorremmo tanto ottenere, questo visto. È facile: se sei italiano, o di qualsiasi altro paese occidentale, non devi che fare una richiesta online e pagare un centinaio d’euro. Ma se leggi bene e fino in fondo le molte regole e postille, scopri che se hai sfiorato anche solo col pensiero uno dei paesi non compresi nella lista di quelli da loro considerati “sicuri”, verrai considerato poco meno che un appestato. Figuriamoci se hai vissuto otto mesi in America Latina! Il motivo ti tanta apprensione sembra essere la tubercolosi. Quindi, se vuoi ottenere il visto, devi andare a tue spese da uno dei medici che è nella loro lista, farti fare una radiografia al torace e un certificato in inglese, compilare e far compilare al medico una serie di scartoffie e far pervenire il tutto ai all’Immigrazione neozelandese entro quindici giorni.
Come posso spiegare? Come posso farvi capire? Mi limiterò ai fatti.
Gli unici medici peruviani che compaiono nella lista si trovano a Lima, a ventiquattro ore di autobus da Ollantaytambo. Telefoniamo a tutti prima di muoverci e solo due dimostrano di sapere di cosa stiamo parlando. Di questi due solo uno vuole tanti soldi, l’altro invece ne vuole davvero troppi. Così facciamo i bagagli e affrontiamo all’inverso lo stesso viaggio di pochi giorni prima. Non abbiamo scelta: o così, o salta tutto il nostro programma per il prossimo futuro. A Lima, in effetti, sbrighiamo tutto in pochi giorni. Il dottore è di una cordialità irritante e ha un sorriso spento stampato in faccia che sembra dire: “Io faccio la mia particina, poi il resto son proprio cazzi vostri”. Gli piace farsi aspettare: io e Laura passiamo lunghe mezzore seduti nel corridoio bianchissimo di una clinica per ricchi, illuminati da grossi lucernari che sembrano veri. Alla fine il dottore esce dalla sua porticina, bianca come il tagliere nuovo di un macellaio, e ci consegna due buste sigillate. In un momento solo capiamo due cose: primo, non vedremo mai cosa c’è nelle buste, se siamo o meno tubercolotici e se il dottore abbia o meno fatto correttamente il suo lavoro; secondo: lui non trasmetterà un bel niente per via telematica all’Immigrazione neozelandese, come dovrebbe fare. Ci dobbiamo arrangiare noi a consegnarla in all’ufficio più vicino.
Quando torno a rileggere bene e fino in fondo il sito dell’Immigrazione neozelandese scopro che, secondo la lista, l’ufficio a noi più vicino è a Santiago del Cile, e questo sarebbe abbastanza per mettersi a urlare per la disperazione. Telefono all’Help Center in Nuova Zelanda e parlo con Charlie, in un inglese da ripetente di prima liceo. Gli spiego la situazione e lui mi dice di inviare il tutto quanto prima, ma a Londra. Riguardo al fatto che le buste siano sigillate Charlie ci può fare poco, dice che a volte succede. In altre parole, “son proprio cazzi vostri”.
E così eccoci qui, in un ufficio DHL di Lima, per una spedizione che ci costa quanto un mese di vitto e alloggio. Ci guardiamo in faccia Laura e io mentre consegnamo, non proprio fiduciosi, le due buste dal contenuto ignoto. Il tale dell’ufficio è sbrigativo, butta i nostri risparmi sudati a forza di tavolate chiassose e pizze orrende in un cassetto e dice: “Il prossimo!” Il vecchio dietro di me cerca di farsi spazio ma io non riesco a separarmi dalle uniche due copie di qualcosa che non so e da cui dipende il futuro di questo viaggio. In preda all’ansia mi azzardo a chiedere: “Ma… se si perde?” “Difficile” risponde l’impiegato. “Lo so,” insisto “ma se succede?” “Vai sul sito, con questo codice puoi controllare dov’è il tuo pacco. Il prossimo!”
Tutto questo per noi è poco meno che un gioco. Se qualcosa va storto, in qualsiasi momento, possiamo sempre strisciare la Visa e tornare a casa. Tristi e senza un soldo, sì, ma ad aspettarci troveremmo una casa ed una famiglia pronta ad accoglierci e ad ascoltare i racconti delle nostre scorribande. Ma che dire di tutta quella gente, i migranti per davvero, che ogni giorno partono da posti come questo con la pretesa di passare dalla “parte giusta” del mondo? Non riesco a fare a meno di pensare a come dev’essere giocarsi davvero tutto, farsi i conti in tasca e dire: “Forse ce la faccio, ma di poco” e poi trovarsi un muro davanti. Ma non un muro di mattoni, col quale ci si aspettava anche di avere a che fare in qualche cantiere di periferia. Un muro di eventi incontrollabili, regole incomprensibili, requisiti insoddisfabili, scrivanie che non parlano la tua lingua, moduli telematici che ti rimandano sempre lo stesso messaggio d’errore. Un muro che ti chiede tantissimi soldi, soprattutto. E tu non puoi scegliere, perché di soldi ne hai già spesi troppi per arrivare fin lì e non te la senti di rinunciare e tornare indietro. E allora ne spendi altri, li spendi tutti. Ma con quei soldi non hai comprato proprio niente: solo la promessa che, tra un po’, qualcuno ti manderà via e-mail una risposta su quello che sarà il tuo destino. E non è detto che ti piacerà.
Finiti i giorni della burocrazia, intensi e fitti di ansie varie, di nuovo viene il tempo dell’attesa. Meno 21 alla partenza per Auckland. Ma Lima non andava bene per noi che abbiamo bisogno di silenzio e natura intorno. E tornare a Ollantaytambo non era possibile: a parte la noia di rifare per la terza volta lo stesso tragitto, semplicemente, non ce lo potevamo permettere in vista del viaggio che ci aspetta. E dove potevamo andare? C’era da ricominciare tutto da capo: la ricerca di una stanza a prezzi “peruviani”, di un lavoro, di un negozio di fiducia per la spesa…
Ed ecco l’idea: se non è la montagna, che sia al mare! Ma non a Talara, in mezzo alle petroliere. Avevamo più volte sentito parlare di una località chiamata Mancora, sulla costa a nord del Perù: un paradiso per surfisti, turisti e viaggiatori d’ogni provenienza. Perché no? Perché non una casetta sulla spiaggia? Perché non un lavoretto semplice in un luogo in cui i turisti stranieri lasciano volentieri laute mance?
Detto, fatto. Trovata la stanza, nuova e pitturata di fresco, in un villaggio turistico deserto e non ancora aperto al pubblico. Trovato anche il lavoro in un hotel di lusso sulla spiaggia che ha aperto dieci giorni fa. A dir la verità è Laura che sta lavorando: a me volevano mettermi in cucina un’altra volta, volevano che gli avviassi l’attività con pranzi e cene dai menù italiani. Ma non esageriamo adesso, non mettiamoci nei guai. E poi siamo ad agosto, é tempo di vacanze!
p.s.
Visto concesso!
Oggi il mare è calmo. Gli alberghi costruiti a un passo dalla riva hanno un giorno di tregua, gli addetti all’abusivismo risistemano i sacchi di sabbia e le sdraio sono pronte a resistere ai nuovi attacchi delle maree. Inutile dirlo: io faccio il tifo per le onde. Che buttino giù tutto, possibilmente sulla testa dei prepotenti. Ma è possibile che nessuno possa più camminare sul bagnasciuga, che ci si debba arrampicare alla ricerca di assurde deviazioni, per permettere a due stronzi di sorseggiare il caffè su una terrazza panoramica di cemento armato?
È sparito il grosso elefante marino che da giorni si era spiaggiato, con la bocca aperta in una smorfia che a me pareva di dolore. Mi sa che il mare se l’è ripreso. Al suo posto è comparso un piccolo delfino con un buco in testa. Effetti collaterali di tecniche di pesca poco pulite, immagino. Non lontano dal cadavere c’è un ragazzo dai capelli lunghissimi, completamente nudo. È in piedi, dà le spalle al mare e oscilla leggermente con le braccia aperte, come se stesse in equilibrio su una fune. Effetti collaterali, immagino.
La spiaggia El Amor è quasi sempre deserta. Da lì parte la mia passeggiata quotidiana, lunga circa un chilometro, verso l’altro capo della baia. La meta è l’hotel Don Giovanni, dove lavora Laura. Lungo il cammino la sabbia e i relitti lasciano posto agli ombrelloni gialli marchiati Cristal, una delle birre nazionali. Un bambino ciccione, alla guida di un quad di grossa cilindrata, fa lo slalom tra la gente sdraiata al sole. Un americano pieno di tatuaggi cerca di far partire un cavallo pigro. In acqua, i surfisti cercano la loro onda.
Meno dodici al volo per Auckland.
Ormai ci siamo. Domani lasceremo Mancora e inizieremo a risalire verso Bogotà, dove il 20 di agosto daremo il via ai numerosi scali aerei con destinazione Auckland. Nel giro di una settimana si cambia lingua, cultura, paesaggio. Si cercherà una casa, un lavoro, magari una bicicletta e un paio di scarpe nuove. L’entusiasmo e la stanchezza giocano a dama nelle nostre teste.
All’aeroporto di Fort Lauderdale, in Florida, la coda all’Immigrazione è un serpente lungo e lento. Abbiamo fatto solo il primo scalo e siamo più stanchi del dovuto. In fila con noi ci sono molti giamaicani, appena arrivati con un volo da Kingston, e anche molti colombiani, imbarcatisi insieme a noi a Bogotà. Ci sono anche gli statunitensi, ma loro fanno un’altra fila, più veloce. Laura e io comunichiamo con monosillabi stentati, mentre avanziamo trascinando gli zaini verso lo sportello della polizia. Abbiamo mal di testa, non abbiamo voglia di parlare: “Hai tutto?” “Mmm.” “Compilato il modulo?” “Mmm.”
“Ehi compaesani!” dice una voce, qualche posto più indietro nella fila. “Vi ho sentiti parlare” aggiunge “e l’idioma mi sembrava familiare.” Lui si chiama Jacopo e a vederlo è lo stereotipo di quello che io, con una certa supponenza, ho sempre definito un fattone. Treccine, braccialetti, orecchini, una spilla da balia su una maglia decisamente da lavare. Ma ha anche un sorriso bianco e sincero, e degli occhi che sembrano aver visto più dei ventisei anni di vita dichiarati sul suo passaporto. Viene da sette mesi di America Latina ed è preoccupato: in molti gli hanno detto che con l’aspetto che ha, di sicuro gli faranno storie qui negli Stati Uniti. Il suo obiettivo, ma lui preferisce chiamarlo sogno, è l’India; ma per il momento è diretto in California dove cercherà di tirare su qualche soldo lavorando, diciamo così, nel ramo dell’agricoltura.
Sbrigate con successo le formalità ci ritroviamo tutti e tre nella sala d’attesa del volo per Los Angeles. Abbiamo tutti fame, ma un panino piccolo piccolo costa otto dollari e quindi ce la teniamo. Jacopo è un fiume in piena di parole, ma devo dire che lo ascolto volentieri. Tutti abbiamo dei pregiudizi, perché negarlo? L’importante è essere pronti a riconoscerli e metterli da parte, quando è il caso. Così, questo fattone mi si rivela una persona molto interessante. Non tanto per le cose che fa e dice, ma per la vitalità, la partecipazione e la consapevolezza che traspira.
È nato nella provincia di Siena, in un paesino di cinquemila abitanti dove ci si conosce tutti. La sua famiglia è benestante e a lui non è mai mancato nulla: motorini, macchine, soldi. E non solo questo: aveva già un futuro assicurato nella ditta di lavorazione di metalli che la sua famiglia portava avanti da tre generazioni.
Ma lui non ci si trovava in quei panni. “Fino a quattro anni fa” dice “non ero mai uscito dal mio paese e lo sentivo come una prigione.” Ma non è solo questo. Lo capisco quando mi racconta della sua passione per il paracadutismo: “C’erano delle volte che, mentre mi avvicinavo a terra, mi chiedevo ‘Lo apro o non lo apro?’”. Stava male e si rendeva sempre più conto che qualcosa nella sua vita non tornava. Così ha trovato il coraggio di tirarsene fuori, anche se questo gli è costato essere la vergogna e la rovina per la sua famiglia. Ha iniziato a girare il mondo e non si è più fermato: torna in Italia per qualche mese, lavora duro, e appena può riparte. Suo padre ha venduto la ditta ad un ex dipendente ed ora lavora per lui come operaio. Sua madre ha pianto molto, preoccupata per questo figlio che andava incontro a qualcosa che lei stessa non conosceva. Ma col tempo questa rottura ha portato a qualcosa di buono: dopo quattro anni suo padre, che è uno che parla poco, perché ci si vuole bene ma non lo si dice, una sera gli ha detto: “Sai, non sono mai stato così tranquillo come ora.” E sua madre è contenta delle lettere che lui le scrive dalle località più sperdute: “Scrivimi ancora,” gli dice “che mi sembra di viaggiare anche a me, mi sembra di fare quello che non ho mai fatto e che avrei voluto fare”. E ha ragione Jacopo quando dice che se è successo questo è perché, quando lui torna a casa, i suoi glielo leggono in faccia che sta bene. Lo sentono nel tono della sua voce, lo vedono in tutta la sua persona. Quindi che importa la ditta, le macchine, i soldi? In questo senso credo che questo ragazzo abbia aiutato la sua stessa famiglia a crescere.
Jacopo mi parla della necessità di dare un freno al cervello, di usare il cuore come guida nella vita. Dice che cerca di non decidere nulla, ché quasi sempre le cose vanno al loro posto naturalmente. Mi ripete più volte, e ne è convinto, che nulla accade per caso. Io non la vedo allo stesso modo, e faccio fatica a spiegargli il perché. Ma sono contento di avere incontrato una persona alla ricerca, uno che mette in discussione tutto a cominciare da se stesso. Non sta a me né a voi dire a che punto sia questa ricerca, ma come lui stesso dice “Se questo è cercare, maremma, che figata!”
Così continuerà a viaggiare. Attualmente, questo è l’unico modo in cui vuole vivere. Mi torna in mente il ragazzo torinese conosciuto qualche giorno fa a Bogotà, che da dieci anni a questa parte ha vissuto nei posti più disparati, dall’Australia alla Colombia, dalla Spagna all’Indonesia. E senza che ci fosse dietro un progetto, o un’intenzione: lui viaggia e basta. E mi torna in mente anche Gaetano, il fotografo conosciuto in Costarica, che da ormai una vita si sposta ogni quattro o cinque anni e ricomincia una vita nuova in un altro posto, insieme ai suoi tre amici artisti. Quando l’abbiamo conosciuto aveva da poco trovato casa e stava per inaugurare la sua piccola rosticceria. Mi incuriosiscono questi uomini, perché c’è qualcosa in loro che mi sfugge: “Ma cosa state costruendo voi, spostandovi di luogo in luogo?” vorrei chiedergli io, che mi illudo di sapere dove voglio andare a parare. Io che sto imparando cose che forse mi saranno utili, io che ho intenzione di tornare a casa, di avere una casa. Ma loro ti guardano con uno sguardo tranquillo, consapevole: “E chi ha detto che si debba costruire? Non ci si può limitare ad essere?” sembrano dire.
È ora di imbarcarsi: altra fila altra perquisa. Arrivati a Los Angeles Jacopo decide di ripartire subito con un autobus notturno, alla volta di una comunità hippie della California. Noi invece cerchiamo invano un alloggio ad un prezzo umano, ma alla fine ci accasciamo a dormire sulle poltroncine dell’aeroporto. E qui siamo tutt’ora, dopo quasi 24 ore, in attesa del volo FJ811, destinazione Fiji.
Il primo giorno alla fattoria di Annie e Sean è filato via liscio: ore otto, preparazione compost; ore nove, rimozione erbacce dai pascoli; ore dieci e trenta, semina di piante che non ho capito il nome. Pomeriggio, macellazione di un cinghiale cacciato coi cani e ucciso a coltello da due ragazzi tedeschi amici di famiglia. È filato tanto liscio il primo giorno che il secondo non riuscivo a stare dritto in piedi, né a reggere la mazzetta e il piede di porco coi quali mi si chiedeva di procedere alla demolizione di un cottage.
Ci troviamo sulla costa a sud di Auckland, in una località chiamata Miranda. Dovrebbe essere un paese, stando alle mappe stradali, ma non lo è. Nessun agglomerato di case, nessun negozio, niente stazione di servizio. Solo fattorie e campi. Il paesaggio intorno a noi è fatto di dolci colline verdi e di un triste mare invernale, bello da spegnere le parole nella gola. Perché è inverno qui, fa freddo e piove spesso. Le nuvole passano rapide e cambiano le carte in tavola come e quando gli pare. Il nostro unico paio di scarpe è ormai irriconoscibile, perennemente inzuppato e coperto da una spessa crosta di fango ed escrementi di animali vari. Ma quando viene fuori il sole tutto si accende come in un presepe colossale, la luce disegna le ombre e dà vita ai colori, soprattutto verdi e azzurri. Un bel salto dal deserto della costa peruviana…
Annie e Sean hanno una sessantina d’anni e cinque ettari di terra su cui usare la fantasia. Coltivano frutta e verdura, confezionano formaggi e marmellate, allevano polli. Tutto rigorosamente “organic”. Lavoriamo per loro cinque ora al giorno in cambio di vitto e alloggio. Ci hanno sistemati in un caravan che è ben più grande di casa nostra e nel quale c’è tutto, compreso un frigorifero pieno di bontà locali. Siamo passati dal nutrirci di pasta infima, caffè solubile e cioccolato Nestlé, al latte munto in giornata, a frutti appena colti e formaggio fatto in casa.
Finite le nostre ore di lavoro, se il mal di schiena lo permette, prendiamo le bici e andiamo a esplorare il territorio. Ma a parte i pascoli e il mare, tutto è lontano. Presto o tardi dovremo infilarci nella capitale alla ricerca di un mezzo di trasporto nostro. E magari di un lavoro retribuito, giusto per non restare a piedi.
La pioggia, obliqua e decisa, colpisce la superficie dell’acqua, amplificando il tremore delle luci elettriche riflesse. Mi immergo fino agli occhi per non sentire freddo, rilasso i muscoli delle gambe e delle braccia, mi affido alla spinta dal basso verso l’alto pari al peso del liquido spostato. Folate di vapore si muovono impazzite sul filo dell’acqua sferzato dal vento, ora nascondendo ora svelando i volti delle persone, mentre in lontananza un lampo illumina un pezzo di notte senza luna.
Annie e Sean sono due tipi riservati. Ogni sera ceniamo insieme nella loro casa dai muri di paglia e fango, piena di quadri d’arte contemporanea, di libri e di CD. Finita la cena, preso il tè, si congedano gentilmente e se ne vanno a guardare il loro programma preferito in televisione, lasciandoci soli. Danno confidenza un poco alla volta, non elargiscono troppi sorrisi gratuiti e non fanno troppe cerimonie. Se da una parte questo mi piace, dall’altra, dopo otto mesi passati in America Latina a volte è difficile adattarsi, e mi vien da pensare: “Senti, se ti sto sul cazzo dillo.” Ma non gli sto antipatico, loro sono fatti così e, nel bene e nel male, qui non siamo in America Latina. E poi oggi, oggi che è il nostro ultimo giorno di lavoro nella loro fattoria, hanno deciso di fare un’eccezione. Ci hanno voluti premiare per il nostro impegno e ci hanno portati alle Hot Springs, le piscine d’acqua termale che rendono famosa questa località sperduta. E mentre me ne sto qui, immerso in acqua fino agli occhi, ripenso ai diciotto giorni appena trascorsi. Trascorsi a raccogliere e pulire frutti, a strappare pannelli di cartongesso da una vecchia casa, a rivoltare zolle di terra. E poi a scavare buchi, riempire sacchi, svuotare secchi, trasportare rami, strappare erbacce, lavare vasetti, preparare compost, passeggiare cani…
Sono volati questi giorni, quasi tutti coi piedi nel fango: non ci sembra vero, ma tra poco è un mese che siamo qui in Nuova Zelanda. E se da una parte è tutto nuovo, tutto all’inizio di un capitolo che speriamo sarà memorabile, dall’altra è quasi un anno che manchiamo dall’Italia e ogni tanto bussa alla porta la voglia di tornare a casa. Ma non lo faremo, almeno per ora. Domani partiamo per Auckland, dove ci fermeremo due giorni a fare shopping, immersi in una città immensa dopo tre settimane di bucolico isolamento. Cose da mettere nel carrello: una mappa dettagliata del paese, due paia di guanti da lavoro, un’automobile. Fatto questo, partiremo per Waiheke, un’isola che promette di essere meravigliosa. Lì ci aspetta Michelle, e con lei altre due settimane di lavoro in fattoria.
Si scende attraverso il bosco per un sentiero fatto di gradini irregolari, ricoperto di frammenti di conchiglie bianche. Erbacce, rami e rampicanti hanno quasi del tutto inghiottito il passaggio e i piccoli orti, rubati alla pendenza con terrazze fatte di vecchi pneumatici, sembrano aver visto tempi migliori. Cinquanta metri più sotto, la legnaia è vuota. Nella rimessa, tra la polvere e le ragnatele, gli attrezzi sono arrugginiti sul banco da lavoro, accanto a telai di vecchie finestre e a qualche rozza scultura lasciata incompiuta. E c’è un pennello, immerso in un barattolo di vernice verde ormai indurita. Tutto riconduce a qualcuno: qualcuno che tagliava tronchi sul ceppo. Qualcuno che rinnovava vecchie finestre e le tingeva di verde. Qualcuno che scolpiva tronchi di legno rossiccio, abbozzando forme femminili. Qualcuno che non c’è più.
Da cinque giorni viviamo sull’isola di Waiheke, a quaranta minuti di traghetto da Auckland. Michelle, la padrona di casa, ha un’aria infelice e stanca. Non porta molta pazienza con noi che non capiamo le cose al primo colpo, e se diciamo “Sorry?” lei sospira, fa un cenno con la mano come per allontanare una cosa sgradita e dice “Nevermind, forget it.” Questo ci fa sentire stupidi, e il nostro balbettare peggiora ad ogni conversazione abortita.
Il nostro compito qui è ripulire il sentiero dalle erbacce, liberare le piante “buone” dai rampicanti, preparare i piccoli orti per la semina. Più una serie di altri compiti, vari ed eventuali. Come ad esempio sgomberare la stanza di Michelle, che si prepara a lasciare tutto questo per raggiungere sua figlia diciannovenne, partita un giorno per la Thailandia e decisa a non tornare indietro. La sua stanza la affitterà a Kevin per qualche mese, per tirare su qualche soldo, mentre lei si trasferirà nel suo “studio”, qualche gradino più su lungo il bosco.
C’è anche un altro inquilino in casa. Si chiama Steve e vive in una stanza sempre chiusa, con le finestre occluse da teli scuri. Lo si incontra di rado, seduto sui gradini con una sigaretta ultra-light tra le labbra, bianco in volto e con gli occhi spenti. Vorrei chiedergli chi è, a cosa si dedica, ma la sua parlata concitata, che tanto stride col suo aspetto, mi è difficile da capire.
Laura e io alloggiamo in una piccola casa di legno, più in basso lungo il sentiero. Diciamo che c’è qualche spiffero, qualche vetro incrinato. Diciamo che c’è qualche infiltrazione, qualche macchia di umido. Diciamolo pure: cade a pezzi. Eppure ci piace. Non c’è bagno né acqua corrente, solo una cisterna d’acqua piovana proprio fuori dalla porta, ma vista la stagione non c’è pericolo che si svuoti. Quando cala il sole fa un freddo da far tremare ma, per fortuna, tra i pochi comfort c’è una vecchia stufa. Durante il giorno raccogliamo la legna nel bosco e di sera stiamo a guardarla bruciare, con le orecchie divise tra il crepitio del fuoco e l’infrangersi delle onde del mare, pochi metri più giù.
Quando ce ne andremo da qui il sentiero sarà di nuovo bianco e sgombro. Il bosco sarà ripulito da tutte le immondizie rotolate giù dal bordo della strada e qualche raggio di sole raggiungerà gli orti, non più smorzato dai troppi rami secchi. Le piante “buone” torneranno a respirare, liberate dal reticolo opprimente di rampicanti. La legnaia sarà di nuovo riempita e la stufa di Michelle ricomincerà scoppiettare nelle ore più fredde.
Siamo capitati qui, per un caso difficilmente prevedibile. Qui con questa donna sola e oppressa da angosce che non sappiamo, mascherate dietro sorrisi poco convincenti. Ce ne potremmo andare, ma qualcosa ci trattiene: qualcosa ci dice che questa fatica comunicativa porterà da qualche parte. O almeno, porterà qualche raggio di sole alle piante “buone”.
Lasciata Palm Beach a bordo di Kiwi, la nostra macchina nuova, riceviamo via SMS un invito per un caffè da parte di Lucia, una ragazza spagnola incontrata per caso una settimana prima, quando noi eravamo appena arrivati e lei stava visionando una stanza da prendere in affitto nella proprietà di Michelle.
Sediamo tutti e tre al tavolino di un bar, nella piccola e allo stesso tempo grande città di Oneroa (due bar, due ristoranti, qualche casa e un ufficio postale). Parliamo in spagnolo e per noi è una boccata d’aria fresca riuscire ad esprimerci senza incespicare, bloccarci, rinunciare. Ed è così, chiacchierando del più e del meno, che Lucia ci invita a mangiare a casa sua. E poi, già che siamo lì, ci offre un posto per dormire, visto che la nostra macchina non è ancora dotata di materasso. Rimaniamo stupiti di tanta generosità, ma soprattutto della spontaneità e naturalezza con cui veniamo invitati. Poche cerimonie. Ti invito perché mi va di averti attorno: se vuoi fermati, se no vai.
Casa sua non è proprio sua, ma di una signora sessantenne che passa l’estate neozelandese sull’isola di Waiheke e d’inverno se ne va in California, in cerca di un’altra estate. Lucia è la sua house-sitter, ossia colei che tiene tutto in ordine e sotto controllo, che le inoltra la posta e le sistema il giardino. Il tutto in cambio di vitto e alloggio. Stiamo parlando di una casa bellissima, affacciata sul mare e costruita in legno. La struttura assomiglia a quella di una chiesa gotica, con tanto di tetto spiovente, rosone e guglie. All’interno tutto è curato nei particolari: dal mosaico di pietre e conchiglie che percorre i muri e il pavimento del bagno, alle molte opere d’arte contemporanea sparse per i vari ambienti. Noi dormiamo al secondo piano, in una torretta tutta vetri e con vista sul mare. Nella stanza c’è solo una vecchia pianola sul suo cavalletto e un cannocchiale puntato verso l’orizzonte.
La mattina seguente conosciamo Martin, un tedesco di circa quarant’anni che parla perfettamente un’infinità di lingue. Tranne l’italiano: quello lo sa “piccolo piccolo”. Ha un’aria stanca e un’espressione impenetrabile, quasi assente. Ammette in effetti di sentirsi svuotato di energie, dato che ha appena finito di tenere un corso di yoga durato due settimane. Anche lui come Lucia vive sull’isola, dove sta cercando di ingranare come taxista, ed è deciso a fermarsi in Nuova Zelanda a tempo indeterminato. Entrambi, quando raccontiamo che abbiamo intenzione di trovarci un lavoro da qualche parte, ci danno consigli su come fare e a chi rivolgerci, ma noi abbiamo voglia di andare un po’ a spasso per il Paese, ora che abbiamo la macchina. Non ci accontentiamo dell’isola.
Il cellulare di Martin suona: è la chiamata di un cliente. Nell’andarsene si ferma un attimo e dice: “Se decidete di fermarvi qui, io ho un divano libero.” Ci lascia il biglietto da visita ed esce. Ma noi abbiamo deciso: partiremo domani stesso. Andremo all’estremo nord della Nuova Zelanda e, lentamente, scenderemo alla ricerca di un posto che ci piaccia molto, un luogo in cui fermarci per un po’ a lavorare. “Cercare prima il posto, poi il lavoro.” È la lezione che abbiamo imparato in Perù, dove siamo rimasti bloccati a Talara per un periodo che ci è parso infinito, in un luogo orribile e sterile. Ma vedremo, questa volta, quali eventi riusciranno a rovesciare i nostri piani.
Per il momento, appena messe giù le ruote dal traghetto, la meta è Cape Reinga, la punta a nord. È prevista qualche sosta per equipaggiare Kiwi con un letto, una cucina e delle gomme nuove.
Metafore a parte, Cape Reinga è la fine del mondo. Puoi solo tornartene da dove sei venuto, guidando verso sud lungo l’unica strada. Oppure, con una 4×4, puoi percorrere la leggendaria 90 Miles Beach, pucciando le gomme in acqua di tanto in tanto. Ma sempre verso sud, perché in tutte le altre direzioni c’è solo mare, per miglia e miglia fino all’Asia in direzione nord-ovest, al Sudamerica verso est, all’Australia verso ovest.
Punta nord della Nuova Zelanda, luogo in cui le anime entrano nell’aldilà secondo la tradizione maori, Cape Reinga è considerato il punto di incontro tra l’Oceano Pacifico e il Mare di Tasman. E in effetti, dalla terrazza del faro, si possono vedere creste schiumose e turbolenze che sono espressione della lotta tra le correnti. Perché non stiamo parlando solo di una linea immaginaria, di quelle che i navigatori tracciavano arbitrariamente sulle loro mappe. Questi due mari si scontrano proprio, spalla a spalla, come in una mischia infinita di un’eterna partita di rugby.
A Cape Reinga noi ci arriviamo dopo quattro giorni di lenta crociera, quasi sempre sotto la pioggia, che ci accompagna da quando abbiamo lasciato l’isola di Waiheke. Quattro giorni di continue soste fatte per equipaggiare la macchina di materasso, tendine anti-voyeur, fornello da campeggio, pentolame, una radio e un paio di gomme nuove. E per riparare il parabrezza, che dava segni di volersi staccare dal suo telaio. Come al solito abbiamo cercato le soluzioni più economiche, che nella piccola città di Kerikeri ci hanno portati a scoprire l’esistenza di incredibili negozi dell’usato, organizzati per sostenere il servizio delle ambulanze o gli hospis. Mercatini in cui, tra le altre cose, abbiamo comprato un paio di Levi’s per due dollari e un paio di scarponcini di pelle per cinque.
Ma una volta arrivati a destinazione (o per meglio dire al punto di partenza, visto che da Cape Reinga comincia la nostra traversata dal nord al sud della Nuova Zelanda) una stanchezza infinita si impossessa di me, rendendomi ogni piccolo imprevisto una fatica insormontabile. Il vento, la pioggia incessante, il materasso che si sgonfia ogni notte verso le quattro, il finestrino dell’auto che non chiude bene e che fischia dalla piccola fessura nell’orecchio di chi guida… Inizia così una lenta discesa, ben diversa da come l’avevamo in mente.
Perché il piano era questo: Si va in cima al Paese e poi si scende lentamente, facendo del sano e rilassante turismo: spiaggia, libri, bei paesaggi… Niente fretta. Appena troviamo un posto che ci piace ci sistemiamo e ci troviamo un lavoro. Ma di tutti i chilometri percorsi non uno è andato all’insegna del relax: solo un profondo malumore, che ha visto il suo apice con una tavola sparecchiata dal vento e uno scroscio d’acqua sulla bistecca al sangue, comprata per tirarsi su il morale.
Quando si vive in una macchina, pioggia e vento rendono tutto più difficile. Non tanto perché la macchina diventi più scomoda o più fredda, ma perché non ne puoi uscire. Ci devi rimanere ventiquattro ore nella cazzo di macchina. Si aggiunga che, da queste parti, alle cinque del pomeriggio tutto chiude e tace. McDonald’s a parte.
È successo così, una delle innumerevoli volte in cui abbiamo cercato parcheggio e ci siamo infilati in un negozio dell’usato, correndo sotto la pioggia. È stato nella città di Kaikohe, quando ormai non mi sentivo più le forze per arrabbiarmi e cercavo con occhi stanchi un materasso di gommapiuma tra gli scaffali. È capitato nel momento in cui il mio pensiero più ricorrente era: Fanculo tutto, prendo un aereo e torno in Italia!
– Avete un materasso di gommapiuma? (a parlare è Laura, in piedi alla cassa, dall’altra parte del negozio.)
– No, mi dispiace, non abbiamo niente del genere al momento. (a parlare è una signora un po’ in carne, sui quarantacinque, bionda.)
– Sa dove posso trovare un altro negozio dell’usato? (di nuovo Laura)
– Sì, dunque… (segue spiegazione della signora bionda).
– Ok, grazie.
(silenzio)
– Ma voi non eravate a Kerikeri qualche giorno fa? – dice la bionda.
In effetti, le avevamo fatto le medesime domande qualche giorno prima e in un’altra città, in un altro negozio della stessa associazione per la quale Carol (questo il nome della signora bionda) gestisce i volontari. Mi avvicino un po’ per ascoltare meglio, fingendo di cercare qualcosa tra pentole e forchettoni, non molto in vena di fare conversazione in prima persona. Così ascolto Laura raccontarle che sì, quelli eravamo noi, e che il materasso l’avevamo anche trovato, ma è bucato.
Per arrivare al dunque, Carol ci invita a casa sua. Per qualche giorno o anche per una settimana, dipende da cosa vogliamo fare noi. Non ci conosce, non sa niente di noi, a parte il fatto che dormiamo in una macchina e non abbiamo un materasso. “Avreste una stanza indipendente, con bagno e acqua calda” dice, per rendere l’invito più accattivante. Vuole che capiamo che per lei è un piacere se andiamo, ma che dobbiamo sentirci liberi di accettare o meno. Ci lascia il numero di telefono e noi ci ributtiamo indecisi dall’altra parte delle vetrate, quella dove cade la pioggia e soffia il vento.
Sarà appunto per l’insistenza degli agenti meteorologici. Sarà anche perché abbiamo imparato che qui la gente non dice le cose per far bella figura, sperando di nascosto che tu gli dica di no. Sarà perché io sono esausto, e anche Laura è stanca (forse anche stanca di sopportare me che sono esausto). Insomma, accettiamo l’invito.
Quella stessa sera ci scaldiamo le ossa davanti alla stufa accesa, facciamo una doccia calda e un bel sonno ristoratore in un letto vero, parcheggiati in una stanza buia e senza ruote. Rimaniamo con Carol un paio di giorni, poi altri due e altri due ancora, rimandando di continuo la nostra partenza. Ogni sera facciamo del nostro meglio per preparare una degna cena italiana, che le facciamo trovare pronta al rientro dal lavoro. Con noi c’è anche Dylan, il suo figlio diciottenne, minore di quattro fratelli. La stanza in cui stiamo, che in effetti è una costruzione indipendente, appartiene a Ian, il penultimo figlio, che ora si trova in Thailandia in vacanza. Jacob, il maggiore, si trova invece in Australia per lavoro mentre Stacy, l’unica femmina, vive col suo compagno a pochi chilometri di distanza. Ogni sera facciamo lunghe e interessanti chiacchierate (nei limiti del nostro inglese), seduti sui grandi divani di casa sua, immaginando il mare tremolare nel buio al di là delle vetrate. Si parla un po’ di tutto, ma mai viene menzionato un padre dei suoi figli, un marito o un compagno. Delle molte foto esposte nella stanza, in nessuna compare lui, la cui presenza sembra essere stata cancellata. Siamo curiosi ma non chiediamo, non sono fatti nostri.
Dopo sei giorni ripartiamo un po’ più asciutti e riposati. E con un materasso nuovo di zecca che, guarda un po’, Carol aveva in cantina a far niente.
L’11 ottobre 2011, alle 11:20 del mattino, partiva dall’aeroporto di Milano Linate il volo EI433 con destinazione Boston, U.S.A. Quel giorno i nostri zaini pesavano circa dieci chili in più di adesso, pieni com’erano di cose che avevamo ritenuto indispensabili e che abbiamo poi abbandonato, regalato o rispedito a casa strada facendo. Io avevo in mano una copia de La Repubblica di quel giorno: me l’aveva lasciata mio padre perché la leggessi durante il volo, ma non l’ho mai fatto. E neanche Laura. Perché l’Italia era tutto ciò che stavamo mettendo da parte per un po’, e non ci interessava se il Ministro della Giustizia aveva deciso di inviare gli ispettori alle procure di Napoli e Bari per salvare Berlusconi dalle inchieste sulle escort. Volevamo sentire altro, qualcosa che non sapessimo già. Volevamo essere sbalorditi da qualcosa di cui non sospettassimo l’esistenza, come i bambini davanti al primo arcobaleno.
Non ho intenzione di fare bilanci o elenchi di luoghi visti. Vorrei invece spendere due parole su questo viaggio, sui suoi perché. Parlo al singolare perché sarebbe difficile spiegare insieme le mie motivazioni e quelle di Laura, motivazioni che in parte coincidono e in parte divergono. Perché per quanto da un anno non ci siamo mai persi di vista per più di ventiquattro ore, restiamo due individui, due universi separati, come tutti gli esseri umani.
Lo so, una dichiarazione d’intenti come quella che segue è cosa che si dovrebbe fare all’inizio, magari prima di partire. Non certo un anno dopo, lontano tanto dalla partenza quanto dal ritorno. Ma per paura di dire troppo, spesso mi ritrovo col non dire abbastanza. Penso questo quando mi capita di rileggere il mio primo, non del tutto sincero, post.
Un anno fa non avevo nessuna voglia di giustificarmi, di mettere alla prova una scelta che anche a me sembrava azzardata. Sono partito entusiasta e dubbioso, con pochi soldi in tasca, con gli echi di voci che dicevano “Altro che giro del mondo! Con quei pochi soldi tu tra un mese sei di nuovo qui.” Pareva che dovessimo dimostrare qualcosa Laura e io, e l’idea non ci piaceva per niente. Sarà che noi stessi non sapevamo bene come sarebbe andata a finire, come ce la saremmo cavata alle prese con le lingue e le culture diverse, con la lontananza da casa, con gli imprevisti, con la necessità di riempirci lo stomaco ed avere sempre un tetto sulla testa. Stavamo scommettendo senza conoscere la materia in questione.
Ma veniamo a noi.
Sono partito perché, se c’è una cosa su cui non ho mai avuto il minimo dubbio, è che volevo partire.
Sono partito perché sono curioso, e non mi fido a farmi raccontare il mondo dai libri e dal cinema. Volevo guidare di persona sulle immense freeway di Los Angeles, come i Chip’s. Volevo pernottare in un motel americano come quelli di Thelma e Louise, mangiare in un fast food coi divanetti come Fonzie. Ho scoperto che si può essere molto tristi in Messico, dove le nuvole ci sono per davvero. Ho sentito che in certe strade di Città del Guatemala l’aria odora di merda e di solvente, ma non per questo è vietato sorridere. Volevo navigare tra le isole dei Caraibi e vedere se erano davvero sincere lo brochure delle agenzie di viaggi. Come sospettavo, nessun luogo è davvero l’inferno. Nessuno è il paradiso.
Sono partito perché ero stanco, mi ci voleva una vacanza.
Sono partito perché magari ci sono posti più belli, sani, onesti e puliti in cui vivere. O magari il posto giusto è quello in cui sono nato e cresciuto. Forse c’è un posto nel mondo in cui mi posso sentire a casa, un luogo in cui tutto venga più facile e leggero. Oppure vale la pena fare la propria parte insieme alla propria gente, fosse anche nella Pianura Padana. Forse, vista da fuori, non è poi una merda la Pianura Padana.
Sono partito per prendermi il tempo di fare alcune cose da tempo rimandate, per dare una chance ai sogni messi da parte per il solo fatto di essere diventato adulto. In passato ho fatto altre cose, col mio tempo. Cose sagge e giuste: lavorare, studiare. Ma non ho smesso di sognare. Ho scoperto che se metti insieme gli strumenti di un adulto alle ambizioni di un ragazzo, ti ritrovi in Nuova Zelanda con un canotto arancione e un conto corrente a tuo nome.
Sono partito per meglio somigliare all’idea che ho sognato di me stesso, come dice un travestito in “Tutto su mia madre” di Almodovar.
Sono partito perché, porca miseria, almeno l’inglese lo voglio imparare.
Sono partito perché volevo sapere cosa significa essere straniero. Figlio di migranti quale sono, ho sempre avuto ammirazione per la gente che, per scelta o per condizione, si confronta con altre lingue, altri climi, altri cibi, altri odori, altri mezzi di trasporto, altre economie, altri sguardi, altri sottintesi, altri pregiudizi. Ho sempre avuto l’istinto di stringere la mano al muratore albanese, alla badante sudamericana, all’avvocato africano che vende DVD pornografici fuori dal Brico Center. Ho sempre sospettato, e ora lo so, che quella gente fa una fatica cane, e si porta dentro una ricchezza che spesso non sa (o non vuole) esprimere. Lo pensavo anche durante uno dei miei ultimi giorni di lavoro, quando con Erick, un quattordicenne ecuadoregno con il quale lavoravo come educatore domiciliare, tentavo di fare i compiti di spagnolo. Lui aveva pessimi voti in quella materia, e quando c’era da studiarla erano grandi scenate di svogliatezza. E sì che nella sua famiglia tutti parlano spagnolo e lui, quanto meno, lo capisce. E io mi arrabbiavo, gli dicevo: “Cazzo Erick, tu non ti rendi conto del culo che hai a sapere due lingue così, gratis, solo per averle sentite da piccolo. Io ti invidio e tu fai tutte queste storie per due esercizi che potresti fare in un minuto e ad occhi chiusi!” Ma per lui il fatto stesso di capire lo spagnolo era una ricchezza inutile, una moneta senza valore. Anzi, era un fardello, significava quella differenza che avrebbe voluto cancellare, per essere semplicemente come tutti gli altri. “Sai,” gli ho detto “molto probabilmente passerò dal tuo paese durante il mio viaggio.” Mi ha guardato come se fossi pazzo. “In Ecuador? E cosa ci vai a fare?” Non me la sono sentita di rispondere che andavo a fare il migrante per gioco, per vedere come ci si sente. Non a lui.
Sono partito per vederci meglio, per conoscere gli altri e me stesso. Mi illudevo anche, lo ammetto, di trovare per strada una risposta alla domanda: “Cosa vuoi fare da grande?” Ma l’unico vero risultato è stato confondermi le idee.
Sono partito, insomma, con tante idee nella testa. Alcune vaghe, altre molto precise. L’unica cosa che posso dire ora è che ne valeva la pena. Suona appropriato questo modo di dire, perché viaggiare con pochi soldi a disposizione è spesso una pena, o almeno una fatica. Posso dire anche che sono contento del fatto che ogni giorno che passa mi avvicina sempre di più al ritorno, anche se non esiste una data precisa né una decisione presa in merito. Ma mi piace l’idea, l’idea di tornare.
In Nuova Zelanda il cielo cambia in fretta di colore, ormai ci stiamo abituando. Il tempo di comprare del pane e una busta d’insalata, di fare la coda alla cassa, e fuori c’è Il diluvio. Ci fermiamo ad aspettare, Laura e io, nello spazio tra le due porte scorrevoli del supermercato New World, nella città di Hamilton. Che spiova almeno un poco! Abbastanza da permetterci di scattare a passo di papera fino alla macchina. (Ma com’è che poi ci metto sempre un’ora a infilare la chiave nel buco e finisco col bagnarmi lo stesso?)
Accanto alla porta che dà all’esterno c’è un agente di polizia. Vicino a lui, di spalle all’uscita, un ragazzo sui trenta, scuro di pelle. Tiene in mano uno scontrino e una confezione di margarina, col fare di chi non ha nulla da nascondere ed è pronto a dimostrarlo. A due passi da loro, il vigilante del supermercato osserva la scena con attenzione.
L’agente di polizia ha una ricetrasmittente sulla spalla, attaccata al giubbotto catarifrangente. China la testa per parlarci dentro, ascolta il gracchiare di una risposta, infine rimane in attesa. Anche il ragazzo sui trenta rimane in attesa. Il vigilante continua a seguire la scena.
Le porte scorrevoli si aprono. Un signore in pantaloncini cortissimi e stivali di gomma entra con nonchalance, accompagnato dal fracasso della pioggia battente e da un ragazzino scalzo. Nello stesso istante il ragazzo con la margarina scivola fuori, improvviso, e inizia a correre come Bolt lungo il perimetro dell’edificio. Qualche secondo dopo, il tempo necessario agli esseri umani per mettere in piedi una reazione, il poliziotto si lancia all’inseguimento. Dietro di lui il vigilante. Li perdiamo di vista in fretta, inghiottiti nella foresta grigia e orizzontale di acqua e di vento.
Non so bene chi dei tre invidiare di meno.
Abbiamo girato impazziti come un palloncino che ti scappa dalle mani mentre cerchi di fargli il nodo. Abbiamo battuto l’Isola Nord dall’alto in basso, da costa a costa e anche in diagonale, tornando a volte ossessivamente sulle stesse strade. Laddove la mappa segnava un centro abitato, meglio se sul mare o nei pressi di un corso d’acqua, noi ci siamo andati, cercando con determinazione il posto giusto da chiamare Casa. La nostra strategia ci ha procurato il mal di schiena e una spesa enorme in benzina, a volte attraverso infiniti chilometri di nulla, laddove i nomi sulla mappa non corrispondono che a un recinto e ad una casella della posta ammaccata sul ciglio della strada. Ma più ci allontanavamo da quello che stavamo cercando, più restavamo a bocca aperta. Dietro a curve di sterrate prese per madornale errore, ci siamo spesso trovati davanti a Lei, la Natura. Scogliere lavorate dai secoli, dove il vento fa il culo alla forza di gravità e gli alberi crescono orizzontali, con la messa in piega. O quella collina verde, appena all’uscita di una fitta foresta, sulla cui cima c’è un vecchio autobus variopinto, circondato dalle mucche al pascolo. O ancora il mare che lambisce la East Cape road, che conduce al faro più a est del mondo (se lo guardiamo a partire da Greenwich).
Poi ci è toccato smetterla. Smettere di fare finta che i soldi non stiano finendo. Smettere di strisciare la carta di credito senza pensare a come funziona, il credito. Abbiamo stilato una lista di città che avessero un panorama mozzafiato, i bagni pubblici gratuiti, le docce, una biblioteca accogliente con internet a disposizione, svaghi nelle immediate vicinanze e almeno un supermercato con prezzi convenienti. Abbiamo votato ed eletto all’unanimità Taupo come nostra Capitale. Città di lago e di fiume, sta più o meno nel centro dell’Isola ed ha tutto ciò che potremmo desiderare. A parte un clima più amichevole, ma per questo non c’è speranza in Nuova Zelanda, almeno in questa stagione.
Ed ora eccomi qui, nella Skype room della biblioteca, a scrivere queste memorie. Mezz’ora fa sono entrato in un ufficio pubblico con un modulo incompleto tra le mani, pronto ad affrontare il muro della burocrazia. Ho spiegato timidamente che mi serviva un codice fiscale e cinque minuti dopo ero di nuovo fuori, tutto era a posto. Niente “Torni settimana prossima, dalle nove alle nove e venti.” Niente “Vada all’Ufficio Magagne, poi faccia la coda allo sportello 2 e torni qui con la fotocopia fronte-retro della Carta d’identità”. Fatto, e basta.
Venerdì inizio a lavorare nella cucina di un ristorante. Con un REGOLARE CONTRATTO. Laura sta già lavorando come cameriera in un caffè. Da un paio di giorni la nostra macchina è tornata ad essere una semplice macchina, mentre noi dormiamo in una stanza vera con un letto, un tavolo, due sedie, un divano e un televisore con tre canali.
Questa che sto per raccontare è una storia spiacevole. Non so bene da che parte cominciare, anche perché le cose non sono ancora del tutto a posto e organizzare un discorso comprensibile agli altri mi sembra un’impresa insormontabile. Per questo motivo vi dirò i fatti nello stesso ordine cronologico con cui giovedì scorso Laura e io li abbiamo raccontati al sergente Weston, alla centrale di Polizia di Taupo.
Il 18 ottobre rispondiamo ad una serie di annunci di gente che dà camere in affitto: annunci trovati nelle bacheche al di fuori dei supermercati, come si usa qui. Solo uno di loro non ha ancora trovato un inquilino e si dice disponibile ad accettare una coppia.
Steve, il padrone di casa, è un tipo strano, e questo lo capiamo al volo. Sui cinquanta, un poco ingobbito, magro e nerboruto, la cui faccia mi ricorda da subito quella di certi tossici sopravvissuti, ma i cui modi aristocratici e la lucidità del discorso fanno piuttosto pensare ad un artista intellettuale uscito di scena, magari con una vita sregolata alle spalle. È molto gentile con noi e ci spiega con pazienza e chiarezza le condizioni del contratto. La stanza è abbastanza vicina al centro della città ed è spaziosa, pulita e luminosa, con un ingresso indipendente. La prendiamo.
Quello stesso giorno, dopo aver sistemato le nostre cose, Laura nota una borsa nera appesa ad una lampada accanto all’ingresso. È un portadocumenti di taglio femminile, contenente una selezione di ritagli pornografici organizzati in due ordinatissimi porta-listini. Ma può benissimo appartenere ai suoi precedenti coinquilini, pensiamo. O può anche essere una sua imbarazzante dimenticanza. Siamo gente di mondo noi, non la facciamo troppo lunga: prendiamo la borsa e la infiliamo nell’armadio. Anche se, allo stesso tempo, un primo campanello d’allarme mi si accende nella testa.
Le seguenti due settimane filano via abbastanza lisce: noi lavoriamo tutto il giorno e quando torniamo a casa Steve lo vediamo poco. Ciò nonostante continua ad incuriosirmi. Piccole cose: la disposizione dei mobili del salotto ogni mattina diversa, la decina di occhiali da sole in due file ordinate sul comò, una pulizia e un ordine maniacale…
I primi giorni mi sento decisamente a disagio e sono intenzionato ad andarmene, ma Laura mi fa capire che secondo lei le stranezze di Steve si possono benissimo sopportare. Soprattutto se l’alternativa è tornare a dormire in macchina e ricominciare un’estenuante ricerca di un posto in cui stare. In effetti tutto ciò, entro certi limiti, può anche essere divertente. Col passare dei giorni mi rilasso anche io e arrivo a pensare che, nonostante tutto, si può anche rimanere.
Tutto cambia il 5 di novembre, quando Laura trova sotto il proprio cuscino un paio di occhiali da sole. Né miei, né suoi. Tutti i campanelli ricominciano a suonare allo stesso momento: quello è entrato nella nostra stanza mentre non c’eravamo. Prendo gli occhiali, vado da Steve e glieli sventolo sotto il naso. “Ah,” dice lui “stavo solo dando da bere alla pianta, ho visto che stava morendo…” Gli dico con tutta la chiarezza di cui sono capace che non accetto che nessuno entri nella nostra stanza mentre non ci siamo. Lui all’inizio si scusa, con i suoi soliti modi gentili. Poi d’improvviso si incazza, i suoi lineamenti sembrano trasformarsi mentre dice che ha il diritto di controllare la sua stanza. Gli ripeto il concetto e poi lo lascio stare, perché sta evidentemente perdendo il controllo.
Io e Laura ci chiudiamo in camera un po’ scossi a parlare dell’avvenuto, mentre Steve sbatte porte e borbotta dall’altra parte del muro. A entrambi pare ovvio che quella della pianta sia una cazzata, mentre io penso anche che gli occhiali non gli abbia persi per caso proprio sotto al cuscino di Laura, ma che ce li abbia lasciati apposta: una sorta di messaggio. Andarcene al più presto sembra ad entrambi la soluzione migliore, cercando di non inasprire i toni e allo stesso tempo di stare in guardia il più possibile. Dopo tutto ha in mano i soldi del nostro deposito e noi aspettiamo delle comunicazioni importanti via posta a questo indirizzo.
Il giorno seguente Laura lavora, io sono di riposo. Mentre vago per la stanza rimuginando sull’accaduto mi viene un dubbio: “E se fosse entrato per…” Mi precipito nell’armadio, dove il primo giorno abbiamo messo la borsa nera. La borsa è sempre lì, ma è vuota.
Verso le due del pomeriggio bussa Steve e mi dice sgarbato che nel pomeriggio verrà un elettricista a controllare le luci. Aggiunge in tono sarcastico che mi sta avvisando che potrebbe aver bisogno di entrare nella stanza, mentre mi mostra un SMS dell’elettricista stesso per dimostrarmi che dice il vero.
Ok, penso io, hai lasciato gli occhiali sotto al cuscino e ora mi racconti che stavi cercando di aggiustare la luce che si trova proprio al di sopra del letto, che in effetti di tanto in tanto lampeggia. Ti stai costruendo una verità e me la vuoi dare a bere. Arrivi addirittura a chiamare un elettricista!
“Bene,” gli dico, “se deve venire l’elettricista qua dentro io lo aspetto.”
“Ma non so a che ora” dice lui.
“Non importa, ho tempo da perdere” dico io.
Si incazza di nuovo, inizia ad inveire, dice cose che non capisco. Io colgo l’occasione per sondare il terreno rispetto alla nostra dipartita.
“Senti,” gli dico “se vuoi ci sediamo e parliamo, perché così non si può andare avanti.”
Lui si ritrasforma nell’animale gentile e cerimonioso dei primi giorni, mi accompagna nel salotto, mi invita ad accomodarmi. Parla lui per primo e mi dice che si sente offeso, perché il giorno prima avevo occhi molto severi quando gli ho detto che non volevo che nessuno entrasse nella mia stanza, e a lui è sembrato lo accusassi di qualcosa. Aggiunge che voleva solo controllare le luci nella sua stanza, nella sua casa.
“Cosa avrei dovuto fare?” aggiunge “aspettare che torni tu?”
“Proprio così” gli rispondo.
“Ma tu torni alle cinque, il tempo dell’elettricista costa soldi, io non posso aspettare te.”
Questo sa a memoria i nostri orari.
“Senti Steve,” gli dico “io sono dell’idea che nessuno debba entrare nella stanza mentre non ci siamo. È il nostro spazio privato per il quale ti pago ogni settimana. Se tu pensi che questo non sia possibile, molto bene, amici come prima”
“Mi stai dicendo che ve ne andate?”
“Se questa è la situazione, sì.”
“Di cosa mi stai accusando? Io non ho rubato nulla.”
“Non ti accuso di niente, solo di essere entrato nella stanza mentre non c’ero. E poi, se tu trovassi degli occhiali da sole sotto il cuscino di tua moglie, a cosa penseresti?”
“Stronzate!” si incazza lui. “Io dovevo controllare l’impianto elettrico.”
“Ma non dovevi dar da bere alla pianta?”
Lo vedo arrivare al suo limite, sta di nuovo per perdere il controllo.
“Lo so cosa manca nella stanza” gli dico fissandolo negli occhi.
“Cosa? Mi stai dicendo che ho rubato qualcosa? Io non ho rubato niente.”
“No, infatti, non manca nulla che appartenga a me.”
Sembra confuso.
“Di cosa parli?” dice.
“Tu sai cosa, Steve.”
Di nuovo cambia faccia, il tono si fa scherzoso e perde di ogni aggressività. Ma ancora non cede, mi chiede di cosa stia parlando. Accenno alla borsa nera che stava appesa alla lampada il primo giorno.
“Ah,” dice lui sorridendo “ma quella roba non è mia, è di un amico.”
“Senti Steve, non siamo ragazzini, non me ne frega niente se è tua o no. Me la potevi chiedere e io te la ridavo, fine della storia.”
Lui sembra più rilassato, il nostro discorso viene interrotto dal furgone di un elettricista nel vialetto. Io ritorno nella mia stanza in attesa della presunta riparazione e di poter poi riprendere il discorso. Dovrei sentirmi più rilassato anche io: è entrato a cercare le sue riviste pornografiche e se le è riprese, tutto qua. Ma qualcosa non mi convince: continuo a ripensare al modo in cui mi studiava quando gli ho detto Tu sai cosa, Steve. E al quasi sospiro di sollievo che ha tirato quando ha capito che parlavo dei ritagli porno. Deve esserci dell’altro.
L’elettricista non arriverà mai: probabilmente è solo un suo amico che ha chiamato con qualche pretesto. Quando vedo il furgone allontanarsi torno di là e vado subito al sodo, gli dico che per me la cosa migliore è andarmene immediatamente e riavere indietro i soldi del deposito. Lui inizialmente si fa forte del contratto, dove è scritto che dovremmo dargli un preavviso di due settimane. Alla fine firmiamo un nuovo accordo, secondo il quale i soldi del deposito serviranno per pagare la nostra ultima settimana. Non è quello che volevo, ma pare proprio che non abbia i soldi da darmi indietro. Alla fine della diatriba, nella quale gli ho detto chiaro che non credo a una parola delle sua storia di piante ed elettricisti e che, vista la situazione, era meglio per tutti separarci quanto prima, Steve ha un’aria afflitta e, poggiando la penna sul tavolo dopo aver firmato il contratto, dice “Tutto questo è molto triste”.
Un’altra settimana qui. Non siamo affatto tranquilli e pensiamo seriamente ad un’altra soluzione, chi se ne frega dei soldi. Intanto il giorno seguente io lavoro e Laura è di riposo. Di comune accordo lei mi accompagnerà al mattino se ne starà in giro tutto il giorno. Prima di uscire piazzo la nostra videocamera in un angolo, nascosta in un mucchio di cuscini e vestiti.
La scena seguente vede Laura in lacrime, fuori dal caffè in cui lavoro. Mi porge la videocamera che ha recuperato quando è passata dalla stanza poco tempo prima. Lo spettacolo che vedo nel piccolo schermo è raccapricciante: Steve entra nella nostra stanza dieci minuti dopo che siamo usciti e inizia a guardarsi attorno. Poi localizza un mucchio di biancheria sporca e afferra un paio di mutandine di Laura, le annusa con ferocia, ansima. Poi si mette a leccarle come un animale, facendo versi di autocompiacimento. Mentre fa tutto questo continua a tenere d’occhio la porta, per controllare che nessuno sia di ritorno. Ecco a cosa serve quello specchio messo ad angolo lungo il recinto!
Laura e io decidiamo di andare alla Polizia a chiedere un consiglio sul da farsi. Abbiamo qualche dubbio, forse condizionati dalle troppe serie TV in cui i mafiosi appena arrestati si incontrano in commissariato coi testimoni che li hanno appena denunciati e, talvolta, hanno tutto il tempo di mettergli le mani al collo prima che lo sbirro eroe li metta al tappeto. O forse dalle tante storie italiane, realmente accadute, di vendette, inefficienze, impotenza della legge.
Il sergente Weston ascolta la nostra storia, guarda il video e scrive un rapporto dettagliato per ciascuno di noi. È gentile e genuinamente dispiaciuto, arrabbiato quasi quanto me per quello che è successo. Sta almeno due ore ad ascoltarci, aspettando con pazienza il nostro lento articolare delle frasi in inglese, chiedendo delucidazioni e trascrivendo al volo in forma corretta le nostre parole sul computer. La sua preoccupazione è che risulta difficile trovare un capo d’accusa adeguato per quello che Steve ha fatto, motivo per cui ci tiene ad aggiungere al rapporto un dettaglio a cui noi non avevamo dato peso: prima di uscire dalla stanza, l’uomo sottrae due kiwi dalla tavola. “Il furto è furto,” dice “sono fino a due anni di carcere.”
Ma Weston non ci dà nessun consiglio: il da farsi sembra essere scontato. Ci affida a Bridget, un’anziana donna decisamente tabagista che si occupa di “assistenza alle vittime”, poi prende la macchina e parte a tutta velocità. “Io adesso vado ad arrestare l’uomo e lo porto qui per interrogarlo.” dice Weston prima di andare. “Mentre lui sarà qui a parlare con me, Bridget vi aiuterà a prendere le vostre cose. Non abbiate paura, non lo incontrerete, e là ci sarà uno dei miei ragazzi ad aspettarvi.”
Insieme a Bridget, che ci segue con la sua macchina, partiamo qualche minuto dopo il sergente. “Ragazzi, sono vecchia, non mi perdete!” dice Bridget. “Il limite è 50, ok?”
Ci fermiamo in una via vicina alla casa, nascosti, in attesa di poterci avvicinare in sicurezza. Quando Bridget ci dà l’ok ripartiamo dietro di lei, ma ha decisamente sbagliato i conti e ci manca poco che ci imbattiamo direttamente in Steve in manette. Bridget rallenta e lampeggia con la freccia sinistra. Noi facciamo appena in tempo ad interpretare il messaggio e svoltiamo all’ultimo momento, pochi metri prima di raggiungere la casa. Andrà meglio al secondo tentativo.
Mentre raccogliamo le nostre cose, un agente scatta un sacco di foto e perquisisce la stanza si Steve. Sapremo più tardi che ci avrà trovato dentro due sacchi pieni di biancheria femminile, probabilmente tutte sottratte alle sue precedenti coinquiline.
In questo momento, proprio mentre scrivo queste righe, Steve si trova in tribunale e il suo processo è in corso. Dall’esito dipendono le nostre prossime mosse: andarcene o rimanere. Anche se il singolo reato può non sembrare tanto grave da giustificare una pena detentiva, in qualche modo io me la auguro. Il tipo mi sembra pericoloso e sarà di certo incazzato con noi: non mi va di incontrarlo per strada. Dopotutto siamo pur sempre in vacanza.
Ora siamo ospiti di Dennis, manager del Caffè in cui lavoro, e del suo compagno Terry. Ce la spassiamo un mondo con loro, in questa villa gigante sulle colline appena fuori città, con vista sul lago e sulle montagne ancora innevate. Dennis era presente mentre io e Laura guardavamo il video fuori dal Caffè. “Dovete assolutamente andare alla polizia” ha detto. “E poi venite a stare da me per qualche giorno.” L’ho ringraziato per il gentile invito, deciso a declinare, visto che ci conoscevamo appena. Ma lui, abitualmente giocondo, s’è fatto serio e ha detto “No, dovete venire. Ho uno spazio enorme e mi farebbe piacere.” Ha scritto il suo numero su un foglietto e ci ha dato una piantina della città su cui ci indicava la strada. “Non preoccuparti,” ha aggiunto rivolgendosi a Laura “Con noi sei al sicuro.” Poi mi ha indicato con il pollice e ha detto: “Lui non lo è!” ed è scoppiato in una delle sue sguaiatissime risate.
Qualche giorno fa scambiavo delle mail con un amico a proposito della normalità. “Scappare,” scriveva lui, “via dall’aridità di una vita programmata dalla culla alla tomba. Casa, ufficio, supermercato…” “Ok,” pensavo io “hai ragione tu. Ma…”
Ma prima o poi con la normalità ci devi fare i conti. Non importa dove ti sei andato a cacciare: un bel momento lei ti arriva alle spalle e ti spara uno dei suoi odiosissimi coppini. E allora tanto vale essere normale fin da subito. Tanto vale sorridere alla gente, uscire tutte le mattine alla stessa ora, rifare ogni giorno la stessa strada. E possibilmente non ruttare a tavola, a seconda della compagnia.
No, io non credo di voler scappare da nessuna parte. Non per forza, non per finire un una prigione dai colori cangianti, non per avere in cambio un paraocchi con un guardrail e qualche cielo troppo azzurro disegnato sopra. “Meglio fare il ribelle in incognito.” ho risposto al mio amico. Meglio covare nascostamente le proprie sovversioni, portarsele dietro nella propria quotidianità. E non dimenticare di farsi spesso certe scomode domande, rinnovare di giorno in giorno le proprie scelte. Per fare questo non è obbligatorio andare da nessuna parte. Voglio dire, non fisicamente. Ognuno sceglie il proprio prossimo viaggio: chi va in India a cercare se stesso, chi apre un sexy shop, chi ricomincia a credere in Dio, chi si allena per la Maratona di New York, chi compra una casa, chi fa un figlio… Tutto va bene, se sei veramente tu a scegliere.
Da circa due mesi Laura e io conduciamo una vita normale. Abbiamo una stanza, una macchina, un supermercato fisso in cui fare la spesa. Ogni mattina vado al lavoro e torno a casa sette ore più tardi, col mal di schiena. Dopo cena leggo, finché la vista non si appanna e gli occhi non si chiudono. Anche l’insonnia, di cui mi ero quasi dimenticato di soffrire, è tornata ad essere parte della mia quotidianità.
Ma ci sono piccole cose che sono frutto di un disegno, e quel disegno l’abbiamo fatto noi. Abbiamo eletto questo Paese, questa città tra tante altre possibili. Al lavoro ci vado in bicicletta e quando giro l’angolo e vedo il lago in fondo alla discesa tiro un bel sospiro e, almeno per un attimo, mi sento bene. Sono piccole cose, ma fanno la differenza: i grandi spazi a disposizione, la quasi totale assenza del colore grigio, il fiume Waikato che ci scorre accanto, le cascate Huka coi loro 220 mila litri d’acqua al secondo, le pozze d’acqua termale dietro casa…
È, questa, normalità? Forse. Ma ci scorre dentro un sangue irrequieto, ci galoppa sopra un cavallo testardo che tira dalla sua parte e logora le briglie. È vero che rischiamo di accorgerci un giorno che tutto era deciso dalla culla alla tomba, caro amico. Ma non è necessario immolarsi, ritrovarsi a non poter brindare con nessuno il nostro “Vaffanculo al mondo”.
Se c’è una cosa che ho imparato in questi ultimi mesi è questa: “Si può fare.” C’erano cose che mi sembravano irrealizzabili, ostacoli che apparentemente rendevano insormontabile il raggiungimento di obiettivi e desideri. Ma tutte le avventure, i guai, le fatiche, le persone incontrate in questo viaggio mi hanno fatto capire che, se vuoi una cosa, ti metti lì e la ottieni. Ci riesci. E a maggior ragione a casa tua, tra la tua gente, accanto alla tua famiglia. Dove si parla la tua lingua e dove non servono documenti strani per esistere legalmente. Se lo vuoi, ce l’hai. L’unica vera nemica è quella voce che ti dice “Rinuncia! Ma non lo vedi che sei solo un povero pirla?” Ma è il caso di darle la stessa risposta che le darebbe un saggio. Potremmo chiamare in causa Immanuel Kant, ma forse è sufficiente Bart Simpson.
“Take it easy man, take a break!”
E’ il motto di Leo, il cuoco cinese.
Il ritmo delle ordinazioni cala quasi fino a cessare e in cucina si può finalmente tirare un sospiro di sollievo, dopo un incalcolabile tempo passato in apnea, concentrati e veloci nei movimenti, comunicando a monosillabi. Ma intanto, mentre ero impegnato a fare panini, insalate e tortillas, dalle parti del lavandino è cresciuto un edificio abusivo di piatti, tazze, posate e padelle incrostate di grasso. E mi toccherà lavare tutto.
“Fuck-off!” ho imparato a dire con soddisfacente disinvoltura.
Ma Leo è un tipo che infonde calma. “Prenditi una pausa, man” mi ripete.
Oggi è contento e nervoso allo stesso tempo: i suoi genitori sono in arrivo dalla Cina e sono cinque anni che non li vede. Da quando è arrivato in Nuova Zelanda all’età di ventiquattro anni, infatti, non è mai tornato a casa. Per lui oggi è un giorno speciale, e non ha troppo voglia di rispondere alle provocazioni di Ryan, il nostro collega gallese con cui non sembra andare troppo d’accordo.
“Il tuo Presidente va in galera.” mi dice Ryan, attraversando la cucina con una teglia fumante in mano. Io ho appena finito di lavare i piatti e sto disossando un pollo. Ci metto un po’ a capire e a puntualizzare: “Ex Presidente!”
A quanto pare ha letto sul giornale che Berlusconi è stato condannato a quattro anni, non sa dirmi per quale motivo, e mi chiede se sono contento. Io il giornale non l’ho letto e non so di cosa stia parlando, ma gli do per certo che in galera non ci andrà nemmeno per un giorno. E che a me basterebbe non ritrovarmelo di nuovo Presidente quando torno a casa.
Ed è così, parlando di politica “da cucina” che salta fuori il nome di Mao Tse-tung.
“E cosa dire di Mao?” dice Ryan, voltandosi verso Leo.
“Oh, Mao!” risponde Leo “Era il nostro presidente negli anni cinquanta.”
“E cosa ne pensi tu di Mao?” incalza Ryan.
“Per noi è un eroe, ha fatto molto per la Cina.”
“Cosa?!” dice Ryan fintamente inorridito. “Era un assassino!”
“No, questo è ciò che dicono ma…”
“Ha ucciso milioni di persone!” lo interrompe Ryan.
“Mao è un eroe per il popolo cinese.” ripete Leo.
“E secondo te era un presidente pacifico?” chiede Ryan provocatorio.
“Sì” risponde Leo, già stufo di una situazione che forse ha già vissuto altre volte.
“Mah!” conclude Ryan, con un sorriso incredulo sulle labbra.
“Vedi Ryan,” riprende Leo, mentre apre la cella frigorifera e inizia a cercare qualcosa tra gli scaffali, “il problema è nei mezzi d’informazione. Quello che dicono qua è diverso da quello che dicono in Cina.”
Forse Leo non si rende conto che questa spiegazione non giova alla sua tesi, ma Ryan decide di non infierire. Si limita a chiedere a me:
“Tu che dici, Mao era un eroe o un assassino?”
Resta lì a guardarmi. Anche Leo è spuntato fuori dalla cella frigorifera e mi guarda, in attesa di una risposta.
“Forse tutte e due le cose.” dico io vigliaccamente.
Mi guardano ancora per qualche secondo, cercando di capire se quello che dico ha un senso o se è solo la prima cosa che mi è venuta in mente per togliermi dagli impicci di un discorso che non ho ben afferrato. Poi distolgono lo sguardo senza aggiungere altro. Io torno al mio pollo, ma mi sembra di poter leggere nelle loro teste lo stesso pensiero: “Ancora una volta non ha capito un cazzo questo fucking italian.”
Nel buio lo schermo del mio cellulare colora il soffitto di blu: 1:20 a.m.
Insonnia. Esiste davvero o è solo una suggestione? Se non dovessi alzarmi così presto domani mattina, forse, non sarei qui a pormi il problema. Se non avessi questa sveglia puntata alla tempia probabilmente stapperei un’altra birra, leggerei un altro capitolo. Magari uscirei a fare due passi, mi siederei su una panchina a guardare i tombini.
Dunque, l’insonnia non esisteva prima che inventassero la sveglia? È figlia degli obblighi tutta quest’ansia? Si tratta solo di una conseguenza di ritmi che non mi appartengono?
Quanto invidio le persone che chiudono gli occhi e subito si addormentano. Ne ho una accanto proprio adesso. Si spengono come gli aspirapolvere: un ultimo sbuffo e poi tutto tace. Ma se io chiudo gli occhi il mio cervello prende lavorare più in fretta, acquista una nuova lucidità, va dritto al punto. E allora è interessante. Ma più spesso si ingarbuglia intorno ad una questione senza cavarne fuori niente. Ossessivo. Altre volte rimugina stronzate, piccolezze quotidiane che probabilmente hanno sollevato questioni più grandi. Ma non dovrebbe essere compito dei sogni, dell’attività onirica, occuparsi di queste cose? Devo per forza essere presente anch’io?
2:45 a.m. Allontano lo schermo del cellulare dagli occhi ma un piccolo rettangolo di luce rimane impresso, rimbalza e si moltiplica sulle palpebre chiuse. Pruriti inspiegabili nelle zone più irraggiungibili della schiena mi costringono a contorcermi. Mi graffio con rabbia: perché non dormi, stronzo!
Fuck you, insomnia. Non mi terrai qui a rigirarmi attorno al cuscino come un pollo allo spiedo.
La luce dei lampioni che filtra dalle tende è sufficiente per trovare i pantaloni e le scarpe. In un minuto sono fuori, furtivo, senza svegliare nessuno. Soprattutto Dylan il cane, perché se si sveglia lui è un pasticcio.
L’aria è fresca, sento il sudore asciugarmisi addosso. Prendo la bicicletta e inizio a passare in rassegna il reticolato di strade intorno alla casa, lentamente, quasi senza pedalare. Non c’è nessuno in giro, solo qualche taxi a caccia di ubriachi da riaccompagnare.
Mi guardo intorno. Ogni casa un giardino, ogni giardino un vialetto, ogni vialetto una macchina. È lo standard. Anche in questa zona, dove la gente è più povera. Mi fermo un attimo al numero 35 di Rotokawa Street: una vecchia Toyota Corolla piena di ammaccature se ne sta di sbieco tra le erbacce, accanto ai pali di una vecchia altalena senza più un sedile. La casa avrebbe bisogno di una riverniciata, decadente anche alla luce indulgente dei lampioni. C’è una luce accesa oltre i vetri incrinati di una finestra. Si affaccia un uomo con una tazza in mano, guarda verso di me. Riprendo la strada spingendomi col piede contro il marciapiede.
Mi arrampico lungo Taupo View Rd. fino a raggiungere la cima della collina. Nel girare l’angolo per Rifle Range Rd. quasi mi scontro con una ragazza forse quindicenne, vestita in canottiera e pantaloni di jeans cortissimi. Cammina veloce, mi scarta e passa oltre. Sta piangendo.
Io sono un tipo “prima il dovere e poi il piacere”. Preferisco lavare i piatti subito e poi sdraiarmi sul divano e non pensarci più. Ma se vedo un lago in fondo a una discesa non resisto. Non importa se al ritorno mi tocca la salita. Così prendo un bel respiro, lascio andare il manubrio e mi godo qualcosa di facile. Senza pensare al “poi”, una volta tanto.
Il lago è più bello di giorno, quando è azzurro e quando si vede il vulcano Ruapehu coperto di neve sullo sfondo. Le case quaggiù sono lucenti, tengono nascoste le Mercedes oltre le saracinesche automatiche dei garage. Gli impianti di irrigazione – esseri insonni anche loro – sollevano un profumo che sembra di pioggia. Ogni casa ha uno stile diverso: dallo chalet svizzero al cottage americano. Ma tutti gli architetti hanno avuto un pensiero comune: la terrazza con vista lago.
Già che sono venuto fin qui qui, vado a vedere che aria tira in centro. Passo davanti al Taste Café, a quest’ora buio e silenzioso. Tra poche ore sarò in quella cucina ad affettare carote. Nel parcheggio lungo la riva c’è una lunga schiera di macchine e camper, dove anche io e Laura ci siamo fermati a dormire durante le nostre prime notti a Taupo. Poco oltre, gli unici locali aperti la notte: qui sono concentrati tutti gli esseri umani ancora svegli di questa città. Musica, risate, birra. Forzo un poco l’andatura: non sia mai che c’è in giro qualcuno che conosco e mi tocca fare conversazione. Non ho neanche un dollaro in tasca, fra l’altro, anche se mi volessi fare una bevuta.
La salita non è poi così faticosa senza il sole del pomeriggio e senza i pantaloni da lavoro che indosso di solito quando la percorro.
Mi rinfilo nel letto. Tra non molto suonerà la sveglia e io mi alzerò comunque, come sempre. Come tutti gli insonni del mondo. Siamo, a nostro modo, degli eroi resistenti.
Stamane ci siamo svegliati presto: volevamo aprire i regali. Charles, il padrone di casa e ormai a tutti gli effetti un amico nostro, ha preparato una colazione a base di salmone e champagne. “Come si usa a casa mia, in Inghilterra” ha detto. Chris, il suo compagno, non è tipo da feste natalizie, ma fa del suo meglio e si unisce a noi, anche se un po’ assonnato. Ha persino comprato un regalo per Charles e l’ha messo sotto l’albero insieme agli altri.
Il programma è semplice e promettente: mangiare. Ieri abbiamo fatto il pieno di carne e pesce per il barbecue. In frigo c’è birra in abbondanza e io sto per infornare un paio di focacce.
Dylan il cane ha ricevuto da Babbo Natale un collare nuovo ed un coniglio di pezza. Ma ora non ha tempo per giocare. Si aggira per la cucina perché sa benissimo che, per sbaglio o con intenzione, qualche pezzo di grasso finirà sul pavimento. Bob il gatto, invece, ha ricevuto due topolini di peluche, ma pare che preferisca giocare con le stringhe delle scarpe.
Per pranzo Charles decide di iniziare con l’anatra e con le salsicce. A me sembra tutto delizioso, anche se Chris guarda il piatto e dice “Mai fidarsi degli inglesi al barbecue!” (L’altra sua massima è “Mai fidarsi dei cuochi magri. Guarda me!”)
Dopo pranzo il caldo si fa pesante e l’entusiasmo è in calo. Decidiamo di fare un giro sul lago Rotopounamu, a sessanta chilometri da Taupo. Chris non si unisce a noi: preferisce chiudersi nella sua “caverna”, la stanza piena di computer, piatti e bicchieri vuoti in cui passa gran parte del suo tempo libero. In compenso verrà Dylan, che ha già preso posto accanto al finestrino.
Il lago Rotopounamu è piccolo e silenzioso. Si trova in mezzo a una foresta e lo si può raggiungere solo camminando. All’ingresso del sentiero un cartello dice “No dogs.”
“Merda!” dico io.
“Oh no!” dice Laura.
“Non importa.” dice Charles avviandosi, “Io non l’ho visto il cartello. Voi l’avete visto?”
“No.”
“No.”
“Wof!”
Dylan sembra l’unico a non porsi il problema. Tira il guinzaglio con entusiasmo verso il primo albero da marcare.
Lungo il sentiero che percorre il perimetro del lago, la foresta è talmente fitta che lo specchio d’acqua non si vede: lo si può solo intuire nascosto oltre gli alberi. Ci si presenta davanti nella sua solitaria semplicità quando imbocchiamo un altro sentiero che porta ad una piccola spiaggia. Nessuno ha pensato di venire qui oggi, a parte noi.
Dylan è alle prese con la prima nuotata della sua vita, ma non sembra troppo entusiasta. Laura e Charles si immergono completamente nell’acqua fredda, cercando un po’ di sollievo, mentre io preferisco starmene seduto su un tronco d’albero, dove presto anche loro mi raggiungeranno. (Tutti tranne Dylan, che dalla riva guarda insistentemente le oche nuotare al largo. Troppo al largo per lui.)
“Questo è il miglior Natale che abbia vissuto qui in Nuova Zelanda” dice Charles. E ci ringrazia. Vive qui da cinque anni, ma non c’era mai stato un albero a luccicare in salotto prima. Né i regali, né il barbecue. Nessuna gita fuori porta. Anche noi siamo contenti di questo Natale, il secondo lontano da casa. Il secondo senza maglione, senza le lasagne della nonna, senza l’odore del caffè dopo pranzo.
È ora di tornare. Abbiamo una missione da compiere: mangiare. Mangiare l’altra metà del ben di dio messo da parte per oggi. Cosa rimane ancora? Gamberi, braciole, hamburger fatti in casa… E birra.
“Ehi, andiamo a casa?” dice con voce soffice.
Apro un occhio. Non stavo esattamente dormendo, ma non ero neanche del tutto sveglio. Da quanto tempo sono qui?
“Ma come andiamo?” dico, “Quanto manca a mezzanotte?”
Non so perché, ma il capodanno mi interessa. Mi piace l’idea di tirare le somme, di guardare la pagina vecchia con tutte le sue frasi interessanti, le cancellature. La mia è più una voglia di nostalgia che entusiasmo per il futuro. Preferisco dicembre a gennaio, è meglio l’ultimo foglio del calendario che averne ancora 12 da scontare. E la mezzanotte del 31 di dicembre è il momento culminante di una lunga attesa, il momento in cui sparo un minicicciolo e mi meraviglio di quanto tempo ci fosse pressato in quei 365 giorni.
“Quanto manca alla mezzanotte?” chiedo.
Siamo a casa di amici e dopo cena mi sono buttato su un letto a sonnecchiare. Da un po’ di tempo la mia sveglia suona alle sei di ogni mattina, e con l’arrivo dei turisti in città le giornate di lavoro si sono fatte più lunghe e faticose. Tutti quanti vogliono fare colazione al Taste Café, a quanto pare. Se aggiungiamo l’insonnia, che ogni tanto si porta via qualche ora di sonno, è comprensibile che mi si chiudessero gli occhi.
“Ma come andiamo a casa?” dico, “E il brindisi?”
“Ma è mezzanotte e un quarto.” dice Laura, in piedi nel fascio di luce della porta aperta.
“Cosa? E perché non mi hai svegliato?”
“Dormivi così bene…”
“Ma… Ma che ore sono?”
“Mezzanotte e un quarto.”
“Potevi svegliarmi sedici minuti fa anziché adesso!”
“Lo so ma…”
Non ascolto già più, sono veramente arrabbiato. La interrompo. Articolo male le frasi.
“Ma che senso ha non svegliare uno che dorme salvo poi svegliarlo lo stesso, ma un quarto d’ora dopo, e dirgli che si è perso la festa?”
Mi tiro su. Ormai è andata. Sono furioso e devo sembrare gentile, almeno salutare gli amici come si deve.
In macchina, verso casa, neanche una parola. La gente fa baldoria per le strade, dall’altra parte del finestrino. Una ragazza si siede per terra in mezzo a un marciapiede, mentre due suoi amici si fermano ad aspettarla. Sul lago sparano gli ultimi fuochi d’artificio.
A casa, nel buio della stanza, occhi spalancati. Tra cinque ore suona la sveglia, e io mi sono perso il capodanno.
Lei si chiama Bonny, un’esemplare irruente di setter inglese dagli occhi maledettamente persuasivi. Lui è Monty, un bonaccione piccolo e nero di razza indefinita. (Ma da quando è stato nominato capo del governo tecnico, le ciotole languono.) Per dieci giorni Laura ed io dovremo dividere con loro il televisore da 60 pollici e la pelle del divano.
Oggi per esempio non lavoro, e fuori piove. Con una tazza di caffè in mano mi piazzo sul divano ed eccoli che arrivano, tutti e due. Cercano sempre il contatto, il calore, l’affetto. Il cibo.
Sono i cani di Steve, il proprietario del caffè in cui lavora Laura, e questa è la sua casa. Starà via per una decina di giorni e ci ha chiesto se per noi fosse tanto incomodo spostarci qui, dove purtroppo ancora manca una Jacuzzi. “Ma la vista non è male, e c’è Sky”, ha detto per rimediare. “E ovviamente vi pago” ha aggiunto. Che dire… E facciamolo quest’atto di carità, pover’uomo.
Su un canale dal nome Rialto danno “La solitudine dei numeri primi” di Costanzo e poi “Baaria” di Tornatore (entrambi in italiano, e la cosa mi disorienta un poco). Ma l’occhio evade dalla cornice del televisore. Cade oltre le vetrate, dove le nuvole si muovono rapide, trasformando il lago ora in una lastra di grigio acciaio, ora in una porzione di mare caraibico. Mi distraggo poi a guardare Bonny, che ha rubato un intera tavoletta di cioccolato, l’ha scartata e se l’è mangiata. Mi toccherà pulire. Poi mi volto alla mia destra, verso una cucina che per attrezzatura e per dimensioni potrebbe fare invidia a certi ristoranti.
E mi ritrovo a pensare che mi piacerebbe davvero avere una bella casa, con tanto spazio a disposizione. Niente lusso, intendiamoci. Intendo spazio per la creatività, i progetti, i cambiamenti. Spazio per mettere in cantiere ciò che mi passa per la mente. Ma il pensiero successivo è: no. Meglio sbattere il ginocchio contro il comodino che restare schiacciato sotto un mutuo. Tra lo spazio e il tempo, se proprio devo scegliere, scelgo il tempo. Tempo libero, per godere delle cose gratuite che ancora restano a disposizione degli esseri umani.
“Fabbricare, fabbricare, fabbricare
Preferisco il rumore del mare
Che dice fabbricare fare disfare
Fare e disfare è tutto un lavorare
Ecco quello che so fare.”
(Dino Campana)
La chiamano Tall Poppy Syndrome, Sindrome del Papavero Alto. “Se sei meglio degli altri” dice Chris fendendo l’aria con la mano tesa “ti tagliano via! Ti riportano allo stesso livello come fanno con i papaveri.” Lui ne fa una questione di classe: sostiene che qui in Nuova Zelanda imperi la working class, che lo standard prescriva il seguire le partite di rugby, bere fiumi di birra e ascoltare musica pop. “E io sono sempre stato diverso.” dice, “Per questo, anche se sono nato e vissuto qui, mi sento uno straniero.”
Infilzo un paio di gnocchi con la forchetta e me li infilo in bocca. Mi rabbuio. Oggi è stato il mio ultimo giorno di lavoro al Taste Café e sono deluso da questi ultimi tre mesi. Non sono un papavero alto, ma mi sento reciso. Nell’entusiasmo.
Come spiegarlo senza vittimismo? Difficile. Diciamo che ho fatto del mio meglio, e qualche volta meglio degli altri. Ho messo tutta la cura possibile tanto nel fregar padelle quanto nel cucinare uova, ma i miei slanci sono andati perduti nell’apparente indifferenza dei colleghi. I miei rotondissimi crostini di parmigiano finiranno nel giro di una settimana e poi si tornerà a quelli maciullati e bruciacchiati che si facevano prima. Quando sono arrivato avevo molto da imparare e si vedeva. Ma a nessuno è venuto in mente che potessi avere anche qualcosa da insegnare. Guai! Insegnare sembra essere una parolaccia da queste parti. Al di là di tutto, io volevo solo partecipare, questo è quanto.
Non mi sento un papavero alto, ma piuttosto una delle tante carote che ogni giorno passano nel frullatore di quella maledetta cucina. Grattugiata una, sotto un’altra. È questione di uno, due secondi e nessuno fa caso ai meriti di ciascuna carota, a quanto fosse succosa o rinsecchita, di un arancione brillante o spento. Sotto un’altra, punto.
“L’unica cosa positiva del lavorare al Taste” ho detto a Dennis “è che abbiamo conosciuto te e Terry!” E lui è scoppiato in una delle sue risate. Chissà se mi ha preso sul serio… A pensarci bene sono anche contento di aver conosciuto Leo, il cuoco cinese, un po’ pasticcione ma buono come il pane. Abbiamo parlato spesso io e lui, seduti sulle cassette del latte nel retro della cucina, tra i bidoni dell’immondizia e le scope. Mi ha raccontato il suo punto di vista sulla Cina, davvero troppo piena di gente. Mi ha detto di quella volta che, ubriaco, è finito nei guai per aver picchiato un tassista e un poliziotto. Mi ha parlato del suo disamore per i giapponesi, ladri di isole che apparterrebbero alla Cina. Mi ha confidato il suo sogno di aprire un ristorante tutto suo. Gli auguro di riuscirci un giorno.
In ogni caso la parentesi è chiusa, il mio contratto anche. Sono di nuovo un uomo libero, almeno finché non finiscono i soldi. Diciamo che sono in libertà provvisoria.
Non ho avuto occasione di dire good bye a Darren, il mio datore di lavoro (che poi è un modo carino per dire che non mi ha neanche salutato) e questo fatto mi riporta al luglio scorso, ad un altro ultimo giorno di lavoro. Eravamo a Talara, Perù, e io avevo fatto il pizzaiolo da Don Maximo per circa un mese. Sedevamo sul marciapiede fuori dal locale, in cerchio. Marcos, il proprietario, aveva provveduto alla birra e al Pisco. In abbondanza. C’eravamo tutti, dallo chef ai ragazzini delle consegne. Di tanto in tanto spuntava fuori qualche pizza fumante e la si faceva girare. La despedida dell’italiano era un pretesto per stare insieme. Un altro stile, un altro mondo.
La prima volta che abbiamo varcato le porte di Rotorua, Laura e io abbiamo iniziato a guardarci con sospetto reciproco. Nessuno dei due ha osato muovere accuse specifiche, ma la verità aleggiava nell’aria. Inequivocabile. Ho abbassato un poco il finestrino, e il cigolio della manovella non ha fatto che amplificare il nostro silenzio e il nostro disagio.
“Mangiato pesante?” ho chiesto.
“Gallina che canta…” mi ha risposto.
Poi abbiamo capito: quell’odore pungente era di zolfo* e veniva dalla terra.
Rotorua, città affacciata sull’omonimo lago, è anche nota come The Sulphur City (la Città dello Zolfo), ed è un luogo dall’impressionante attività geotermica. Qualcuno la chiama Rotten-rua, in onore delle uova marce (rotten eggs).
Comunque ormai lo sappiamo e non ci lasciamo sorprendere. Tutt’altro: ci orientiamo con l’olfatto e non abbiamo bisogno di cartelli di benvenuto. Lo sappiamo dall’odore che siamo arrivati.
Questa volta siamo in compagnia del mio ex collega Dennis e del suo compagno Terry. Siamo qui per una gita fuori porta, per passare un po’ di tempo insieme prima della nostra partenza verso l’Isola Sud. Laura e io ce ne stiamo comodi sui sedili posteriori della loro macchina e ci godiamo la loro simpatia.
“Terry, sei disgustoso!” dice Dennis. Ma Terry non raccoglie, è troppo gentile d’animo per un contrattacco e si limita a sorridere. Così Dennis si gira verso di noi e dice: “Lo sentite? È l’odore di Rotorua!”
Dopo una breve sosta in un bar sul lago di Rotorua (una grigia trappola per turisti) risaliamo in macchina e ci lasciamo portare, nemmeno noi sappiamo esattamente dove. Ci fermiamo un quarto d’ora più tardi in cima a una collina, a metà tra il lago Tikitapu (o Lago Blu, che deve il suo color turchese al fondo di riolite e pomice) e il Rotokakahi (o Lago Verde, che deve il suo color smeraldo alla scarsa profondità e al fondo sabbioso).
Io mi trovo sempre in disaccordo con gli altri sulla definizione di ciò che è blu e ciò che è verde, e così è anche oggi. Questi laghi mi sembrano verdi tutti e due, solo in modo diverso. Dennis dice che dipende dalla luce: ogni giorno i due laghi cambiano di tonalità. Resta il fatto che questo posto è incredibile e fa rabbia il non poter abbracciare tutti e due i laghi con un solo sguardo. Bisogna invece girarsi, quando guardi il blu non puoi vedere il verde e viceversa.
Un cartello avvisa che il Lago Verde, il più grande dei due, è di proprietà della Comunità Maori. È considerato sacro ed è vietato pescare, entrarci con una barca o anche a nuoto. E infatti, visto da quassù, sembra solitario e silenzioso, mentre l’altro è punteggiato di bagnanti, canoe, sciatori nautici, motoscafi. Ed è lì che anche noi siamo diretti.
Dopo un pranzo gustato ad un tavolo da pic nic sulla riva del Lago Blu, intrattenuti da un bambino maori che tirava sassate alle oche, ci rimettiamo in macchina e torniamo a Rotorua.
Passeggiando per Kuirau Park mi sento un pollo troppo vicino alla pentola: vedo del fumo in lontananza (siamo in piena estate, il giorno è particolarmente caldo), mi avvicino e mi trovo davanti una pozza di fango che ribolle rumorosamente. E poi un’altra e un’altra ancora. E noi che ci aggiriamo su questo pianeta con il passo del padrone… Se gli girano le palle, al Pianeta, finisce che scompariamo in un battito di ciglia.
“…e solo il silenzio come un sudario si stenderà
fra il cielo e la terra, per mille secoli almeno,
ma noi non ci saremo.”
(Lo so: che palle, ancora con questo Guccini.)
È ormai quasi sera e siamo tutti e quattro stanchi. Puntiamo verso Taupo, la città in cui viviamo da ormai tre mesi e che sarà casa nostra ancora per poco.
Tre mesi sono abbastanza. Uno si adagia, si abitua.
Quando ti fermi in un posto dopo un lungo viaggio, posi lo zaino sul pavimento e prendi un bel respiro. Rimani imbambolato davanti ad un armadio vuoto che ti pare immenso. “Cazzo, ci potrei abitare dentro!” pensi. E invece c’è un’intera stanza a disposizione, e nell’armadio ci metti le cinque magliette logore che ti sono rimaste, le mutande dall’elastico mollo e il coltellino svizzero. Il resto è eco. Ti senti uno che ha appena fatto 100 alla ruota di Iva Zanicchi, pensi che quello spazio è molto di più di quello a cui sei abituato e di cui avrai bisogno.
Ma basta poco, nemmeno te ne accorgi. È questione di giorni e già ti espandi, ingombri i ripiani, compri magliette e mutande al negozio dell’usato. Ti procuri libri, chiavi inglesi, creme solari, lampadine, biciclette (quattro), innaffiatoi, imbarcazioni, padelle, casse di birra…
Poi quel giorno si avvicina, anche se hai sempre fatto finta che non sarebbe successo.
Poi quel giorno è domani, e devi ritornare a stare in uno zaino. Tagliare il superfluo, via le comodità. Sai che dopo i primi cinquecento metri a piedi maledirai ogni singolo grammo che avresti potuto lasciare. Arrivi a tagliar via le etichette dei vestiti, a temperare le matite più del necessario. Tutto per non sentirti schiacciare la colonna vertebrale, per non sentire quel dolore alle spalle che ti fa venir voglia di lasciar cadere lo zaino a terra e proseguire senza.
Ma questa volta c’è una notizia buona e una cattiva.
Quella buona è che abbiamo una macchina, almeno finché siamo in Nuova Zelanda. Quindi è vero che entro domattina dobbiamo finire tutte le birre, ma è anche vero che possiamo concederci il lusso di portare qualcosa con noi.
La brutta notizia è che abbiamo quella macchina. “Un mezzo davvero affidabile, lo uso tutte le domeniche per andare in chiesa” aveva detto il precedente proprietario, offrendoci il suo sorriso color senape. Sembrava sincero dietro ai suoi occhiali a specchio, mentre con una mano si aggiustava il cappello verde giallo e rosso con la faccia di Bob Marley stampata sopra e con l’altra s’infilava in tasca i 475 dollari.
Un mezzo affidabile… In quattro mesi ecco il riassunto (si esclude l’ordinaria manutenzione):
Ottobre
– Il parabrezza si stacca dal telaio.
– Il finestrino è bloccato.
– Lampadine e fusibili come se piovesse. E in più piove.
– Una gomma a terra nel parcheggio del supermercato.
Novembre
– Lo sterzo non gira più. E sono soldi.
– C’è da convincere l’omino delle revisioni che quel buco nel telaio causato dalla ruggine in realtà è frutto della sua fantasia.
Dicembre
– Ci rifiutiamo di usare la macchina.
Gennaio
– Fusibili e lampadine sotto un sole cocente.
Ce la faremo ad arrivare all’Isola Sud e a tornare indietro? Durerà almeno tre mesi quel rottame? O ci ritroveremo sul ciglio della strada a pigiare la nostra roba negli zaini e a fare l’autostop?
L’edificio dell’ambasciata cinese a Wellington incute timore. Varcare le sue colonne di marmo, salendo ad uno ad uno i gradini grigi e affilati, è come fare un tuffo in un’altra realtà. In un paese come la Nuova Zelanda, in cui le case basse e luminose sembrano dirti “Prenditi il tuo tempo, goditi il tuo spazio”, l’ambasciata cinese ti dice invece “Tu, miserabile individuo, ricorda che non hai alcun significato se non alla luce dello Stato.”
Fin qui il nostro viaggio è andato alla grande. Ci siamo presi il nostro tempo e in tre giorni di sole abbiamo percorso circa 700 Km. Abbiamo saputo concederci ampie digressioni, malgrado la solita fretta di andare lontano. Siamo stati sul monte Taranaki, che visto sulla mappa somiglia ad un occhio dalla cui iride si diramano una miriade di capillari (in realtà fiumi). I maori l’hanno chiamato così per la sua lucentezza dovuta alla neve che lo ricopre (tara = montagna; ngaki = lucente). Il capitano Cook invece l’ha chiamato Egmont: evidentemente secondo lui sembrava un uovo al tegamino. Tutt’oggi il monte ha due nomi ufficiali (cosa non rara in Nuova Zelanda), ma io sono dell’idea che si dovrebbe chiamare Monte Occhioiniettatodisangue. O Monte Occhio.
Dopo la montagna, il mare. Ci siamo fermati a Wanganui, sul Mar di Tasman, e abbiamo passeggiato sulla sabbia scura con le scarpe in mano.
Intimiditi dal ricordo dei nostri sguardi grigi dello scorso ottobre, quando pioggia e vento ci avevano costretti a lunghissime giornate all’interno dell’abitacolo gocciolante di Kiwi, prima di partire temevamo il peggio. Ma ora è estate, ed è tutta un’altra vita. Ci fermiamo quando abbiamo fame (e non quando piove un po’ meno) e ci rilassiamo sui tavoli da pic-nic, nelle tante aree di sosta con bagno (e qualche volta barbecue) sparse per la Nuova Zelanda. Nelle stesse aree di sosta ci fermiamo a dormire: ci spostiamo nella parte posteriore della macchina, tiriamo le tendine e buonanotte. Al mattino tiriamo fuori il fornellino per il caffè, il pane e la Nutella e ci accomodiamo al tavolo per la colazione.
Arriviamo a Wellington di domenica pomeriggio ed io ho l’ennesima conferma: non sono tagliato per le grandi città. Non so mantenere la calma in quei posti in cui parcheggiare la macchina costa di più che continuare a guidarla tutto il giorno (4 dollari all’ora!). Non mi pare possibile che se prendi un senso unico sbagliato ti ritrovi in un labirinto incomprensibile, in cui devi scegliere in fretta: destra o sinistra? E scegli sempre la sinistra e invece era la destra. E vaffanculo.
Così ci allontaniamo dal centro e tiriamo giù le bici. Con quelle è un po’ più semplice girare e riusciamo ad arrivare al porto, dove c’è gente che cazzeggia, ragazzini che si tuffano, fidanzati che si baciano.
Per la notte riprendiamo la macchina e ci spostiamo a Makara Beach, a venti minuti dalla città oltre le colline. È un villaggio di poche case, tutte a pochi passi dal mare. La spiaggia di sassi bianchi è enorme e sembra il posto ideale per dormire in macchina.
Mentre ci guardiamo intorno un ragazzo si esibisce in derapate alla guida di una piccola Dune Buggy autocostruita. Poi si ferma nel suo garage, ad un lato della spiaggia, e aiutato da un amico armeggia con una chiave inglese dalle parti del motore. Pochi minuti dopo il bolide ricomincia a percorrere la spiaggia a tutta velocità, ma questa volta alla guida c’è una biondina di circa vent’anni.
Al lato opposto della spiaggia c’è una casa di legno scuro, isolata dalle altre. Nella veranda tre uomini bevono birra e guardano verso il mare. Un cagnolino bianco che stava con loro inizia a correre dietro alla Dune Buggy, abbaiando. La ragazza cerca di evitarlo, frena e poi riparte schizzando sassi con le ruote. Ma il cagnolino non si arrende e le si para davanti di nuovo, nonostante i richiami di uno dei tre uomini della veranda. Questa volta la frenata è più lunga. Il cane è salvo per poco, ma le piccole ruote sono infossate e la ragazza esce dall’abitacolo per cercare di liberarle. Il padrone del cane, calzoni corti e scarponi da trekking, una maglietta bianca con la scritta “Proprietà dell’ospedale psichiatrico”, si avvicina velocemente e afferra il telaio della macchina. Ma non è per liberarla: prima la rovescia su un fianco, poi a ruote in aria. È incazzato nero e inveisce contro la ragazza. Non ne può più, dice, che continuino a terrorizzare la gente con quella cazzo di macchina. Partiti dal garage, nel frattempo, i due meccanici percorrono la spiaggia di corsa, brandendo l’uno un martello e l’altro una chiave inglese da 32.
Inizia un litigio furibondo in cui fucking è la parola più ricorrente. Uno dei due ragazzi, quello col martello, si avvicina all’uomo e alza il braccio. L’uomo con gli scarponi non indietreggia, ma evita di replicare ulteriormente. Intanto anche gli altri due uomini hanno lasciato la veranda e si sono portati alle sue spalle. Stanno con le braccia conserte, decisi a mantenere la pace ma pronti ad intervenire. Non so come né perché, ma tutti quanti riescono a calmarsi prima dell’irreparabile. I ragazzi chiudono la Dune Buggy in garage ed entrano in casa, e i tre uomini ritornano nella veranda.
Mezz’ora più tardi, mentre io e Laura mangiamo un’insalata di tonno, vediamo avvicinarsi a piedi una squadra di sei poliziotti e un cane antidroga. Hanno parcheggiato dietro la curva per non essere visti e in pochi secondi circondano la casa dei due ragazzi. Quello all’ingresso principale bussa alla porta, mentre gli altri controllano che non scappi nessuno.
Nelle ore seguenti ci saranno perquisizioni e interrogatori. La scena finale, ormai al crepuscolo, vede i due ragazzi fare un ultimo tiro dalla sigaretta e gettarla a terra con il gesto degli sconfitti, prima di salire sui sedili posteriori della macchina della Polizia.
Vi racconto questo per mettervi in guardia. Se venite in Nuova Zelanda, non fate gli scemi con la Dune Buggy sulla spiaggia, perché se la prendono sul serio.
Il mattino dopo ci svegliamo sotto un cielo grigio e il mare ci soffia addosso un vento poco gentile. Mentre ritorniamo a Wellington cadono le prime gocce di pioggia e i tergicristalli spalmano uno strato di polvere e salsedine sul parabrezza . Parcheggiamo davanti all’ambasciata cinese: alla fine è per questo che siamo venuti. La Cina è il nostro prossimo obiettivo.
Questa pioggia non aiuta, rende la penombra dell’ufficio visti ancor più pesante. Il ragazzo dietro lo sportello ha la faccia fresca di rasatura e un colletto immacolato. Parla un inglese più decente del nostro e sorride con cordialità, ma non c’è traccia in lui della disponibilità che spesso abbiamo incontrato tra i neozelandesi: gente che passa dall’altra parte della scrivania e ti spiega, ti disegna mappe, fa telefonate al tuo posto per chiedere informazioni. Ma quel che c’era da capire l’abbiamo capito: è troppo presto per il visto, e questo ci incasina le cose. Dovremo stare in Nuova Zelanda ancora per qualche mese, e il visto cinese va fatto al massimo un mese prima di partire.
Ci rimettiamo in macchina e puntiamo verso il porto. Visto che la trafila burocratica è rimandate, se non altro possiamo fare il biglietto per l’Isola Sud e prendere il traghetto al più presto.
Guidando nel traffico cittadino, dallo specchietto retrovisore vedo le biciclette oscillare pericolosamente sul gancio di traino. Il cielo intanto si fa sempre più pesante, gonfio di cattivi presagi…
In vista dell’imminente avventura euroasiatica, pur contrari ad inciuci e governissimi, benché almeno la metà di noi sia obiettivamente impresentabile (nel senso che ha bisogno di una doccia)…
In barba agli intransigenti e ai loro veti, memori della nostra storia passata, di cui è bene assumersi ogni responsabilità e da cui bisogna pur imparare, in data odierna ci siamo riuniti in seduta comune sul letto sfatto della roulotte e abbiamo approvato con voto unanime quanto segue.
Disprezziamo la scomodità in ogni sua forma.
Ogni giorno almeno un pasto caldo seduti a un tavolo. Basta panini e scatolette. Soprattutto, basta cucinare sui comodini ammuffiti delle pensioni a una stella.
Ogni notte un letto vero in una stanza dignitosa, dotata di doccia. Si scarteranno sistematicamente le prime due bettole in ordine di prezzo.
I taxi collettivi una soluzione affascinante? Nah!
Indigeni d’ogni dove, imbrogliateci pure! Mai più discussioni al mercato o sugli autobus per spuntare lo stesso prezzo dei locali. Sei bianco? Paga pegno e taci.
Se ci sono due strade possibili, memo: quella più tortuosa non ha assolutamente nulla da insegnare. Solo polvere e mal di schiena.
Quando l’ostacolo si fa insormontabile, noi molliamo la presa. Per avere un visto di un mese volete la lettera d’invito (ma di chi, che non conosco nessuno?), il voucher di viaggio (e che cazzo è?), cinquantaquattro foto tessera, la prenotazione di un hotel tra quelli nella vostra lista, il biglietto di uscita, il visto per il paese d’arrivo, una dichiarazione del mio datore di lavoro che dica che sono in vacanza, un’assicurazione sanitaria di quelle nella vostra lista, eccetera eccetera? Beh… Non ci meritate!
Sputeremo chiunque dovesse profferire la frase: “Io non sono un turista, sono un viaggiatore”. Sputeremo anche lo specchio, se necessario.
Placheremo il nostro disgusto per l’insegna “Backpackers”. Se non c’è alternativa a portata di mano, che sarà mai passare una notte in un ostello? In una camera da dodici, col cesso in comune, per un prezzo doppio rispetto a quello delle pensioni “locali”? Se non altro avremo Internet.
Prima viene l’obiettivo, poi le valutazioni economiche sulla fattibilità, quindi lo stanziamento dei fondi necessari. Abbiamo sempre fatto al contrario…
Il lavoro debilita la donna, e rende l’uomo di pessimo umore. Finiti i soldi, finito il viaggio.
Firmato, Laura (Presidente della Carovana) e Andrea (Vice Facchino)
1-3 maggio
Abbiamo lasciato Wanaka sotto un tappeto di foglie, giusto un attimo prima che arrivasse l’inverno. Le giornate erano ormai brevi e le cime intorno al lago bianche di neve. Ma le infinite gradazioni di gialli e di rossi non si erano ancora spente, e a seconda della posizione del sole ogni albero cambiava faccia e colori. Colori che non avevo mai visto prima.
A Wanaka abbiamo lasciato un mondo che era ormai il nostro. Luoghi, abitudini e soprattutto persone. Due sere prima di partire abbiamo cenato con Gersende e Cyril, una coppia di francesi con cui avevamo fatto amicizia e che avrebbe poi preso alloggio nella roulotte in cui vivevamo noi, in cambio di qualche ora di lavoro al campeggio. Rimarranno lì per l’inverno, come noi siamo rimasti per l’estate. Anche loro, stregati da quel luogo, non hanno voluto sentire ragioni. Vani sono stati i miei consigli di spostarsi in un luogo magari più “contaminato” dal turismo, ma meno disperatamente isolato. Anche loro hanno bisogno di risparmiare qualche soldo prima di riprendere il viaggio e tuffarsi in Indocina.
Alla cena erano invitati anche Nick e Karen, una coppia di inglesi che da qualche giorno avevano preso il nostro lavoro al campeggio, mentre noi recuperavamo energie e regalavamo cose in giro per rendere gli zaini di nuovo leggeri. Anche Nick e Karen passeranno l’inverno a Wanaka, anche loro risparmieranno soldi per viaggiare ancora. Ma non in Asia, perché è da là che arrivano. Hanno passato alcuni mesi in Corea del Sud, dove lui ha lavorato come ingegnere, e poi hanno viaggiato per tutta l’Indocina. La loro prossima tappa sarà l’America del Sud.
A Wanaka abbiamo lasciato anche Natsuko, che da un paio di settimane aveva comprato un furgone Ford e si era trasferita in una zona remota del campeggio, dove i suoi animali possono scorrazzare liberamente. “Stare nel bungalow è troppo costoso e il mio conto va sempre più giù” ci aveva detto durante uno dei tè pomeridiani presi insieme nella nostra roulotte. Peccato che ora stia arrivando l’inverno, che da quelle parti è decisamente rigido. Per il momento si arrangia scaldando il piccolo ambiente del furgone con taniche d’acqua bollente, dato che dove ha deciso di stare non c’è elettricità. Ma a scaldarla, immagino, sono soprattutto gli animali. Yashi, il cane dagli occhi grandi, e i suoi quattro gatti. Ognuno di loro ha un piccolo spazio dedicato nel piccolo abitacolo, a seconda delle sue esigenze. Il gatto Kyu, con problemi di deambulazione, può salire e scendere dal letto a suo piacimento grazie a una rampa fatta di due cuscini e una tavola bodyboard.
La sera prima di partire abbiamo cenato da Francesca’s, il ristorante di cucina italiana in cui ha lavorato Laura. Insieme a noi c’erano Nicolas e Silvia, suoi colleghi italiani, entrambi giovanissimi (19 anni lei, 24 lui) che hanno deciso di andarsene dall’Italia e farsi una vita altrove. In Nuova Zelanda per il momento, poi chissà.
Prima di partire per un lungo viaggio credi di stare facendo qualcosa di eccezionale, qualcosa che molti hanno sognato, ma che pochi hanno avuto il coraggio di fare prima. Invece ne abbiamo incontrate tante di anime fuori posto, lontana da casa e dagli affetti. Gente che ha viaggiato per anni, magari a più riprese. Persone che hanno chiamato casa la Norvegia, e poi allo stesso modo la Thailandia o l’Australia. Qualcuno sembra aver perso l’orientamento e non sapere più su quale sedia appoggiare il sedere, qualcun altro invece mostra una lucidità assoluta e la consapevolezza che dovunque vai, alla fine, è sempre con te stesso che te la devi vedere.
C’è chi si muove per soldi, chi per cercare se stesso, chi semplicemente per curiosità o per “vedere il mondo prima di sistemarsi”. E in Nuova Zelanda più che altrove ne abbiamo incontrati molti, soprattutto provenienti da quei paesi in cui la gente normale può permettersi il lusso di avere un vuoto da colmare: europei, statunitensi, canadesi, australiani, giapponesi… Pochi italiani, questo sì.
Ma tutta questa gente, di cui anche noi facciamo parte, non ha molto a che fare con i migranti veri e propri, certamente più numerosi. Loro viaggiano una volta sola e per sempre e si spostano per altri motivi, che hanno più a che fare con la necessità di far fronte a mancanze materiali che con la sete di conoscenza o carenze spirituali. Per quanto riguarda la Nuova Zelanda, molti migranti vengono dall’Asia: cinesi e indiani, per citare i più evidenti, arrivano in flussi regolari e popolano quartieri, aprono negozi, iniziano una nuova vita a metà tra quella vecchia (a cui probabilmente non torneranno mai) e quella nuova.
Abbiamo lasciato Wanaka ed era quello che per lungo tempo abbiamo desiderato. Ogni giorno fissando il calendario e soppesando con lo sguardo la mole crescente dei giorni andati contro quella sempre più sottile dei giorni rimasti.
Il giorno della partenza ci siamo svegliati in fibrillazione per le poche cose che restavano da fare. Ma allo stesso tempo avevamo già addosso une leggerezza ritrovata, quella tipica del primo giorno di vacanza. Una lunga vacanza, in luoghi dai nomi evocativi come Australia, Singapore, Malesia, Thailandia… E poi Vietnam, Laos, Cina. E ancora!
A Queenstown passiamo due giorni e due notti in attesa del volo per Sydney. Il nostro ostello, il Queenstown Adventure, è il più bello che abbia mai visto: divani, mega schermi, una cucina enorme e accogliente, ambienti freschi e puliti. Addirittura una camera di sicurezza con serratura a combinazione all’interno della quale ognuno ha un suo armadietto, che a sua volta può essere chiuso a chiave. Dentro ad ogni armadietto c’è una presa (due per quelli più grandi) in cui caricare cellulari e laptop. Questa sì che è cura per i particolari. Nella stessa camera di sicurezza sono appese mountain bike e biciclette da corsa, disponibili gratuitamente. Altrettanto gratuitamente si possono fare telefonate internazionali. Insomma, questo sì che è un buon inizio, decisamente in linea con le nostre nuove regole.
Durante il giorno passeggiamo per le strade del centro, sotto un cielo pesante di pioggia. Ci rendiamo conto che il posto è più bello e interessante di come l’avevamo giudicato durante la nostra prima visita e facciamo inutili considerazioni sulla nostra scelta, forse sbagliata o forse no, di stabilirci a Wanaka e non proprio a Queenstown. Ma ormai è andata, e anche se è stata dura ora abbiamo in tasca più o meno la stessa somma che avevamo quando siamo partiti dall’Italia. Potremmo ricominciare tutto daccapo, se lo volessimo.
3-6 maggio
Atterriamo a Sydney verso mezzogiorno. Sebbene si trovi a poche ore di volo da Queenstown, qui la giacca a vento e la felpa non servono. Abbiamo tre giorni e nessun programma preciso, se non guardarci attorno nell’attesa del prossimo volo.
Il nostro ostello, il D*Lux, è il più squallido che abbia mai visto, tanto per riportarci in contatto con la realtà. Letti sgangherati, mobili sfondati, porte che non si chiudono. Lo stabile è molto vecchio e l’insegna gialla all’esterno, malgrado conti ben quattro stelle, si distingue dalle altre lungo la strada per la sua decadenza. Ma, al di là delle apparenze, il fatto è che tira una brutta aria. C’è molta gente che ci vive in pianta stabile e altra gente che ci lavora – svogliatamente – in cambio di un posto letto. Tutte queste persone formano un mondo a parte, che mal si amalgama con quello dei clienti occasionali che, come noi, non sanno dove sono padelle e fiammiferi. E nessuno glielo dice.
Depositati i bagagli ci tuffiamo nella città. Siamo affamati e compriamo un kebab lungo la strada, ma non è facile trovare un posto in cui sedersi a mangiarlo. Le città come questa non sono fatte per sedersi. Sono fatte per orbitarci dentro come topi da corsa. I palazzi altissimi sono alveari da cui entrare e uscire alacremente a orari stabiliti. Ma, effetto collaterale forse sfuggito ai loro architetti, dalla solitudine serale di quei balconi si gode di un punto di vista distaccato sulla distesa di luci impazzite che si muovono là sotto. Un punto di vista che quotidianamente ricorda alle persone il tipo di vita che hanno scelto. Forse, avere un balcone oltre il ventesimo piano aiuta a fare autocritica, a rinnovare le proprie scelte di vita. O a farla finita (magari cambiando casa).
Per le strade di Sydney ricompare tutto ciò che in Nuova Zelanda sembra non esistere. Nemmeno ad Auckland o a Wellington, per quanto abbiamo potuto notare noi. La gente che vive in strada, tanto per cominciare. Non lontano dall’ostello c’è un vecchio un po’ matto che sta tutto il giorno ad uno sportello bancomat, fingendo di prelevare e facendo complimenti a tutte le donne che passano. Incontriamo tanti senza tetto, di solito muniti di trolley a cui legano materassi arrotolati, per facilitare gli spostamenti durante il giorno. Ci sono poi i clacson e folle di persone che camminano in fretta senza guardarsi intorno.
Una cosa che notiamo è che la gente sorride molto meno di quanto non facesse in Nuova Zelanda. A cominciare dal poliziotto dell’Immigrazione all’aeroporto. Passaporto in mano e zaino in spalla gli ho detto “Salve!” “Togliti il cappello” mi ha risposto.
I tre giorni a Sydney scorrono all’insegna del turismo: lunghe passeggiate, visita al Museo di arte moderna, all’acquario e allo Zoo. Facciamo anche un assaggio di cucina vietnamita in un ristornate, tanto per preparare il palato per i prossimi mesi in Indocina. Ma tre giorni sono davvero pochissimi, e prima ancora di renderci conto di essere davvero a Sydney, un nuovo aereo ci catapulta in un’altra grande, sbalorditiva città: Singapore.
Atterriamo a Singapore alle sette di sera, ora di cena. Il che è perfetto, dato che siamo affamati e che abbiamo un’ora di tempo libero. Un’ora per aspettare che un altro volo, proveniente da Kathmandu, atterri. Chiamiamole coincidenze.
Tra un’ora incontreremo Tomi e Tei, una coppia di finlandesi al rientro di uno dei loro numerosissimi viaggi. Abitano a Singapore, sono scienziati informatici e lavorano per l’Università Statale. Cos’hanno a che fare con noi? Coincidenze. E la disposizione all’incontro di cui si gode quando si viaggia o si vive lontano da casa.
Wanaka, Nuova Zelanda. Una coppia varca la soglia del Francesca’s Italian Kitchen, il miglior ristorante in città. Chiedono un tavolo, ma non hanno prenotato e devono accontentarsi di sedere al banco. Ordinano antipasti misti e una pizza al barista Zack, un americano del Colorado. Accanto a loro c’è una cameriera gentile, dal forte accento italiano, che trascrive l’ordine per trasmetterlo alla cucina. Mentre trascrive nota che l’uomo sa quello che dice: dice “Bruschetta”, non “Bruscedah”, come le capita di sentire ogni giorno. Così la cameriera italiana si avvicina al barista del Colorado e dice sottovoce: “Scommettiamo che sono italiani?” Perde la scommessa. Viene fuori che i due sono finlandesi e tutti insieme si fanno una bella risata.
Due giorni dopo i due tornano al Francesca’s. Questa volta hanno prenotato e si godono il tavolo fino a chiusura. Verso le undici rimangono gli unici avventori in sala. La cameriera italiana è stanca, vuole andare a casa e si avvicina per chiedere se vogliono ordinare altro. I due sono sazi, ma fanno volentieri due chiacchiere sui soliti argomenti noti ai viaggiatori: da quanto tempo sei qui, dove sei stato prima, dove andrai dopo. La cameriera dice che la sua prossima tappa è Singapore, ed ecco la prima coincidenza: i due a Singapore ci vivono, e la invitano a stare a casa loro. (Col suo compagno di viaggio, s’intende!)
Così eccoci in attesa della prossima coincidenza: i due finlandesi tornano proprio oggi da un viaggio in Nepal, proprio un’ora dopo il nostro arrivo. Laura fa le presentazioni: “Tei, Tomi, Andrea.” “Nice to meet you!”
Insieme prendiamo un taxi. Tomi è un fiume in piena di entusiasmo e informazioni, e lungo il tragitto ci racconta qualche aneddoto su Singapore. Ingaggia anche una disputa col taxista riguardo al raggio d’estensione della Città: “40 Km” dice Tomi “Sono almeno 60!” dice l’altro.
Quando arriviamo a casa loro rimango a bocca aperta. È un appartamento ultra-moderno, in un complesso residenziale nuovo di zecca dal nome “Reflections”, le cui palazzine si riflettono, appunto, in una serie di fontane: vasche di vetro incastonate tra giardini curatissimi, illuminate durante la notte da luci colorate. Vi sono guardie armate all’ingresso, eserciti di giardinieri continuamente all’opera, due piscine e una palestra. Cancelli, ascensori e porta di casa si aprono e si chiudono grazie ad un’unica chiave elettronica. All’interno dell’appartamento tutto è bianco e lucido e funzionale, compresa la cucina a scomparsa (se non me l’avessero mostrata non sarei stato in grado di trovarla). L’ufficio di Tomi, per così dire, è una chaise long di pelle nera in fondo alla quale, dalla parte dei piedi, c’è il monitor di un computer dotato di mouse a tastiera senza fili.
Il tour della casa continua. Ci mostrano la nostra stanza e il nostro bagno.
“C’è anche il rifugio anti-bomba” dice Tomi mostrandomi lo sgabuzzino.
“Come scusa?” dico io, convinto di aver capito male.
Me lo ripete. Ha detto proprio “anti-bomba”. Mi fa notare la porta d’acciaio rinforzato, i muri spessi e la presa d’aria con relativa protezione d’acciaio.
“E cosa ve ne fate di un rifugio anti-bomba?” chiedo, dato che non mi risulta che Singapore sia o sia stata di recente al centro di conflitti armati. Tomi dice “Non lo so”, ma mi informa che tutte le case di Singapore ne hanno uno, anche se probabilmente finisce sempre per essere usato come sgabuzzino.
Singapore è Disneyland con la pena di morte. Così almeno la descrive il giornalista William Gibson. Di sicuro è la città più moderna e funzionale che abbia mai visto: architettura dalle forme improbabili, slanciate verso l’alto; trasporti pubblici veloci e puntuali che coprono tutto il territorio; immensi centri commerciali nei quali è più facile perdersi e prendersi una polmonite che trovare quello che si cerca. Singapore è il luogo in cui si può aprire una società in dieci minuti, ma è anche il luogo in cui puoi ritrovarti completamente nudo, piegato a novanta gradi e legato ad un trespolo, pronto per la fustigazione. Per reati quali furto, stupro e traffico di droga, ma, a discrezione delle autorità, anche per le infrazioni del codice della strada. E poi, sì: c’è la pena di morte.
È una città multiculturale, in cui vivono fianco a fianco (ma ciascuno nel suo quartiere) persone di origine cinese, malese, indiana… Tutti sono cittadini di Singapore, e spesso comunicano tra loro in inglese. Ci sono anche molti occidentali, attirati dalle opportunità che questa Disneyland offre.
Benché conti oltre cinque milioni di abitanti, (quasi un milione in più dell’intera Nuova Zelanda!), il traffico sembra sostenibile. Tomi mi spiegherà il perché: non basta possedere una macchina e una patente per poter circolare: è necessario comprare una – costosissima – licenza. Ecco spiegato perché in giro, a parte i taxi e i motorini, si vedano quasi solo auto di lusso.
La città è molto pulita e non ricordo di essere entrato in un bagno pubblico senza inciampare nell’addetto alle pulizie intento nel suo lavoro. È ancora Tomi a suggerire una possibile spiegazione: qui la legge non prevede alcun salario minimo, quindi bisogna darsi da fare per sbarcare il lunario.
A Singapore rimaniamo sei giorni, e sono abbastanza. Il nostro fedele compagno è il caldo, che qui a due passi dall’equatore incolla i vestiti alla pelle e rende faticosi anche i pensieri. A complicare le cose ci si mette l’aria condizionata, che ci investe sulla soglia di ogni edificio o mezzo di trasporto gelandoci addosso il sudore. Per poi ripiombare sotto un caldo pesante come un macigno, e così via.
Teniamo un ritmo rilassato, direi vacanziero. Ci svegliamo tardi e usciamo per fare un giro da qualche parte: un giorno al Museo delle Civiltà Asiatiche, un altro lungo il Singapore River. Poi una visita a China Town, una a Little India…
Il quinto giorno prendiamo un autobus a caso e arriviamo fino al capolinea, decisi a vedere coi nostri occhi i luoghi in cui vive la gente normale (quella che dopo aver curato i giardini dei ricchi e pulito i cessi dei centri commerciali del centro torna a casa a far da mangiare). Fuori dal centro la città cambia faccia, ma non di molto. I grattacieli avveniristici lasciano il posto ad altrettanto alti palazzoni dai balconi tutti uguali, coi loro panni stesi come bandiere alle aste che sporgono dalle finestre. Sono immensi formicai di cemento, ma almeno dall’esterno non c’è traccia di degrado: non c’è spazzatura in giro, gli intonaci sono intatti e la poca erba tagliata di fresco. Accanto ad un palazzo un cartello dice “Allerta crimine”. Leggendo oltre, si capisce che fa riferimento ad un’attività di prestiti non autorizzata segnalata in quella zona in un determinato periodo di tempo.
L’ultimo giorno è un sabato. Con Tomi e Tei andiamo a Wetland, un parco naturale in cui avvistiamo lucertole giganti, coccodrilli, lontre e un orribile serpente. Assistiamo anche alla scena di alcuni ragazzi cinesi che, camminando in infradito, mentre cercano di avvistare una lucertola nel fiume che gli scorre accanto, quasi inciampano in un’altra lucertola, ben più grande, che se ne sta tranquilla a scaldarsi in mezzo al sentiero. Quando se ne accorgono fanno un salto all’indietro.
Ripartiamo la domenica mattina con un autobus diretto a Kuala Lumpur, Malesia. E sono sei ore di maledetta aria condizionata.
Mi chiedo cosa li stampino a fare i menù, qui in Malesia. Ancora prima che tu ti sieda, già il cameriere vuol sapere cosa ordinerai. Magari tu gli dici “Scusa, ho bisogno due minuti”, e fai la faccia dispiaciuta di chi chiede comprensione. Allora lui ti guarda come se fossi un animale buffo: “Ok” ti risponde. Ma non si muove. Aspetta, con la punta della matita sul foglio di carta. E quindi tu, che hai dei problemi con la lingua e nessuna esperienza di cucina asiatica, finisci col puntare il dito su una pietanza a caso. È più o meno così che a Kuala Lumpur ci siamo beccati la diarrea.
Al Korner, un ristorante immenso all’angolo tra due strade, fanno cucina indiana, cinese e malese. La gente entra e esce a sciami, dato che non ci sono pareti esterne a dividere lo spazio occupato dai tavoli di plastica dal marciapiede affollato. Sul soffitto girano pigramente le pale unte dei ventilatori e, in fondo alla sala, un televisore trasmette il GP di Spagna. Per un lungo minuto provo a reggere la tensione e a concentrarmi sul menù, ma mi sento addosso lo sguardo di quel tale, in piedi nelle sue infradito a pochi centimetri dal tavolo. “Tandoori chicken”, dico puntando il dito sul menù. Laura invece ripiega su un più conservativo riso con carne. Ciò che mi viene servito, in un piatto di plastica rigida e dopo una lunga attesa, è un pezzo di pollo dal colore violaceo, così tenero che si taglia con un grissino e così piccante da far invidia al cibo messicano. Anche Laura, errore fatale, ne assaggia un boccone. Quella notte stessa mi sveglieranno i crampi alla pancia.
Non posso dire che sia per scelta, quindi, se a Kuala Lumpur ci restiamo cinque giorni (quattro in più del previsto). Abbiamo bisogno di rimetterci in sesto.
La città è enorme. Il cemento è ovunque si rivolga lo sguardo, anche in alto, e non fa che amplificare la sensazione di soffocamento data dal clima equatoriale e dal rumore dei motori, surriscaldati nelle code tra un cantiere e un semaforo.
Bighelloniamo in giro cercando di sfuggire il caldo, su e giù dalla piccola monorotaia (solo due vagoni) e dentro e fuori dagli enormi centri commerciali (quello più vicino al nostro albergo è di nove piani). Se ci aspettavamo (chissà poi perché) una città arretrata, quello che troviamo è una città poliglotta e tecnologica. Poliglotta perché quasi tutti i suoi abitanti, siano essi malesi, cinesi o indiani, oltre alla loro lingua madre e al malese, parlano anche l’inglese. Tecnologica nel senso che è difficile guardarsi attorno e trovare qualcuno che non stia facendo scorrere il dito sullo schermo di uno smartphone o di un tablet.
È davvero impressionante, ma allo stesso tempo settoriale. Mentre siamo alla ricerca di una chiavetta USB nella quale archiviare le migliaia di foto che Laura continua a scattare, ci ritroviamo in un centro commerciale di cinque piani, tutto dedicato alla tecnologia. I prezzi sono molto convenienti e ci viene l’idea di comprare un eReader (che pesa meno dei libri di carta e, soprattutto, ci consentirebbe di tornare a leggere in italiano). Ma in esposizione non vediamo altro che computer portatili, tablet e telefoni cellulari. E tutti gli accessori del caso. Chiediamo in giro: dal primo piano ci mandano al quarto, poi al terzo. Alla fine ci arrendiamo, e la sensazione è che non sappiano proprio di cosa stiamo parlando. Al Korner non ci siamo fatti più vedere. Per mangiare andiamo sempre dai cinesi, e la scelta è ampia tra i tanti ristoranti di Jalan Alor, una strada sovrastata da centinaia di lanterne rosse che la sera si riempie di odori di carne e pesce alla griglia, di tavoli apparecchiati e di pentoloni fumanti. La folla invade il poco spazio rimasto al centro della strada, rendendo difficile il transito delle auto. L’ambiente ci piace, e soprattutto sappiamo che dai cinesi possiamo sempre trovare riso bianco e pollo. Quasi riesco a battere sul tempo il cameriere, fingendo di guardare il menù e ordinando a tempo record, ma ho ancora tanto da imparare. Tempo tre giorni e stiamo di nuovo bene, pronti per ripartire. Verso il mare del nord. Arrivati a Kuala Besut ci troviamo una stanza per la notte e compriamo i biglietti per la barca che l’indomani mattina ci porterà sull’Isola di Perhentian. Passiamo una notte infernale, sudati sotto le pale traballanti del ventilatore. Verso mezzanotte sento dei rumori in corridoio, poi vedo girare la maniglia della nostra porta. Infine uno spiraglio di luce sempre più ampio illumina brutalmente la stanza. Salto seduto sul letto, in mutande, e abbaio qualcosa verso l’intruso. Laura si sveglia, si spaventa, urla anche lei. Il malintenzionato è in realtà un povero giapponese col cappellino rosso e il trolley, e ha sbagliato stanza. Richiude cerimoniosamente la porta, con un mezzo inchino, e se ne va. “Ci siamo dimenticati di chiudere!” “Eh già.” “Ti alzi tu?” “No.”
Arrivati sull’isola prendiamo in affitto una casetta sulla spiaggia e proviamo a rilassarci per qualche giorno: passiamo il tempo leggendo, guardando film e facendo bagni nel brodo caldo e cristallino che è il mare da queste parti. Noleggiamo anche una canoa, con la quale solchiamo lentamente le acque alla ricerca di spiagge nascoste. Ma, soprattutto, mangiamo un sacco di pesce al Mama’s Place, un ristorante sulla spiaggia del quale siamo presto diventati habitué. Il pesce è fresco e cucinato ad arte, ma la vera attrazione è il loro succo di mango. Buono da far scoppiare il cervello. È piacevole trascorrere le giornate senza avere niente di particolare da fare. Spesso si finisce col combinare molto di più che nelle giornate frenetiche, nel senso che si ha finalmente il tempo di occuparsi di se stessi e di fare cose rimandate da tempo. Ma la solita inquietudine chiama, ci ricorda che c’è un viaggio da continuare, altri mari da vedere, altre grigie città da cui scappare. Il quinto giorno risaliamo in barca e torniamo sul continente. A Kuala Besut prendiamo un taxi insieme a due cileni appena conosciuti e in un’ora e mezza di sorpassi assassini siamo a Rantau Panjang, al confine con la Tailandia.
Nel taxi che da Kuala Besut (Malesia) ci porta a Rantau Panjang (confine thailandese) nessuno apre bocca. Il ragazzo cileno siede davanti mentre la sua giovane sposa, seduta accanto a noi sul sedile posteriore, si addormenta a bocca aperta a pagina 114 della biografia di Steve Jobs. Il tassista, mani serrate sul volante, schiena piegata in avanti e occhi stretti, porta a termine le sue manovre ai limiti dello scontro frontale. Ma non fosse per quelli che vengono in senso contrario, che si buttano di lato per lasciargli strada, la sua carriera – e forse la nostra – sarebbe finita da tempo. Fuori dal finestrino scorrono palme a perdita d’occhio e poche case isolate. Molte sono baracche piuttosto mal messe, in legno o lamiere ondulate, ma non mancano le case in muratura dai portici ombrosi, sotto i quali la gente cerca sollievo dal sole stendendosi su un’amaca o sedendo in compagnia.
Coi due cileni non siamo amici. La nostra è una di quelle collaborazioni tra viaggiatori nate in un secondo e lunghe un minuto: li abbiamo sentiti contrattare il prezzo del passaggio verso la nostra stessa destinazione e abbiamo chiesto loro se volevano dividere la spesa. A volte queste situazioni portano alla nascita di belle intese, conversazioni interessanti e la promessa (quasi di certo vana, ma non si sa mai) di vedersi ancora da qualche parte nel mondo. Ma non è questo il caso.
Se i nostri tentativi di iniziare conversazioni non hanno avuto successo, i nostri compagni di strada ci fanno almeno la gentilezza di prestarci la loro Lonely Planet, visto che non abbiamo idea di dove andare una volta passato il confine. E proprio alla voce “Entrare in Thailandia dalla Malesia” mi trovo a leggere che il punto in cui stiamo per passare è pericolosissimo. L’autore sconsiglia fermamente l’intera zona, riferendo di “attacchi imprevedibili” da parte di banditi.
“La vostra guida dice che è pericoloso il posto dove stiamo andando. Lo sapevi?” dico a José (non che si sia presentato, ma la sua signora lo chiama così).
“Sì,” dice lui girandosi appena verso di me “ma ormai siamo qui, non ci possiamo fare niente.”
Non fa una piega.
Inizio ad innervosirmi, a sudare, nonostante l’aria condizionata. Continuo a leggere, pressato tra il braccio di Laura e la portiera. Scopro che dopo il punto di controllo tailandese c’è un chilometro da fare a piedi prima della stazione dei treni, che è la nostra destinazione. Penso a quante cose possono succedere in un chilometro: in quella terra di nessuno mi immagino coltelli, sgommate, urla, sangue e morte sicura. E poi teschi (i nostri) lasciati a marcire nella giungla.
Non appena scesi dal taxi i cileni ci salutano e vanno per conto loro verso l’ufficio immigrazione. Li ritroviamo pochi minuti dopo, in coda poco più avanti di noi, ma continuiamo a non avere niente da dirci. Subito dopo il controllo Laura e io ci fermiamo in bagno per i soliti aggiustamenti da “zona pericolosa”: carte di credito e passaporti nascosti nelle zone più recondite e… scongiuri.
Iniziamo a camminare, di buon passo. Fa caldo, sento la fronte gocciolare di sudore, lo zaino mi pesa sulle spalle e mi costringe a piegarmi in avanti. Dei tipi con delle casacche blu ci fanno cenni in lontananza. Quando gli passiamo accanto ci propongono un passaggio in motorino fino alla stazione. “No.” dico. A priori. Ignoro le timide proteste di Laura: non ci fidiamo di nessuno.
Dopo trecento metri di marcia siamo già stravolti. Altri turisti ci superano a tutta velocità, coi capelli al vento sui motorini. “Vedrete!” penso io “Vi ritroverete in mutande in un fosso insieme ai coccodrilli!”
Avanziamo lungo il ciglio della strada per altri cento metri e veniamo affiancati da un vecchio magrissimo alla guida di una bicicletta con sidecar tutta arrugginita. Ci offre un passaggio. Siamo sudati fradici e la strada, a guardarla meglio, sembra una strada normale: gente che viene e che va, venditori ambulanti, bambini per mano ai genitori, biciclette, macchine, motorini… e io inizio a pensare che come al solito ho esagerato. Ci accordiamo sul prezzo e accettiamo. Il vecchio ci fa caricare gli zaini su un portapacchi posteriore e ci fa accomodare sul sidecar, con la delicatezza di girare il cuscino di finta pelle nera per non farci scottare le chiappe. Ma appena fa per montare in sella il trabiccolo si impenna e si ribalta all’indietro per il peso. Il pover’uomo è desolato e cerca di riportare le ruote (e i clienti) a terra, mentre sulla strada i turisti sfrecciano comodamente sui sedili posteriori dei motorini, voltandosi per godersi la scena. Risistemato il carico partiamo. Il vecchio deve spesso scendere a spingere, ogni volta che la strada non è in discesa. Vorrei scendere ad aiutarlo, ma lui mi fa cenno di restare al mio posto. Io e Laura sorridiamo e io mi ricordo, d’improvviso, il motivo per cui non ho mai voluto comprare una guida turistica.
A Su-Ngai Kolok passiamo accanto ad alcuni soldati in divisa mimetica che presidiano l’entrata della stazione. Le mitragliatrici sono la prima cosa che notiamo entrando in Thailandia e la gente, almeno in questo piccolo paese di frontiera, sembra aver fatto l’abitudine all’esercito e alle mascelle serrate dei militari.
Attraversiamo i binari sotto il sole, camminando su tavole di legno messe a patchwork per dare una parvenza di passerella. In biglietteria scopriamo che un treno diretto per Bangkok ci sarebbe, ma ci mette 20 ore ad arrivare a destinazione. Il che vorrebbe dire passarci l’intera giornata e tutta la notte. L’idea non ci piace affatto, visto lo stato dei treni che ci sfilano davanti.
Il bigliettaio indossa una divisa impeccabile in stile militare, con tanto di cappello. Ma in inglese sa dire solo i numeri, quindi è difficile spiegargli che, anziché andare direttamente a Bangkok, vogliamo fare una tappa intermedia. Non importa dove, ma vogliamo scendere dal treno di pomeriggio. Alla fine tiriamo fuori la mappa dallo zaino e puntiamo il dito su Phatthalung (nient’altro che un nome per noi, ma ad una distanza che sembra essere un quarto della strada per Bangkok). Il bigliettaio ha capito: “5:00 pm” dice sorridendo.
Credo sia la prima volta che mi avventuro in un paese senza preoccuparmi di imparare una sola parola, o senza procurarmi un dizionario. Forse perché mi sento solo di passaggio, già proiettato in Cina. Forse per pura pigrizia, o magari per l’arroganza propria di quelli che “con l’inglese vai dappertutto”. Fatto sta che mi trovo a rimproverarmi per ragioni etiche e che, presto, me ne pentirò per ragioni pratiche.
Le sei ore in treno sono lunghe come sei giorni. La carrozza è vecchia di decenni, con le pareti interne in legno e i sedili spaziosi ma scomodi. Si viaggia con le finestre aperte,mentre grossi ventilatori in fila al centro del soffitto girano senza sosta alla massima velocità. Ma né l’una né l’altra cosa aiutano: finestre aperte e ventilatori non fanno che spararci addosso raffiche di aria calda, procurandoci uno dei peggiori mal di testa della nostra vita. Il paesaggio fuori dal finestrino è quasi sempre verde: foreste interrotte da qualche villaggio o piccola città. Le moschee della Malesia qui lasciano il posto ai templi buddisti, coi loro tetti rossi e le statue dorate.
Mentre il treno rallenta, entrando nella stazione di Phatthalung, un tale sui 50 ci guarda caricare gli zaini in spalla per dirigerci verso l’uscita del vagone. Ci ripete per due volte il nome della stazione, evidentemente convinto che stiamo per scendere alla fermata sbagliata: che cosa ci vanno a fare due turisti con lo zaino a Phatthalung? Buona domanda.
Quando arriviamo in un posto sconosciuto, abbiamo una strategia: uno di noi sta fermo in un punto sicuro con gli zaini mentre l’altro va in esplorazione e alla ricerca di una sistemazione per la notte. Oggi tocca a me. Appena fuori dalla stazione mi guardo intorno nel tentativo – vano – di individuare la scritta “Hotel”. Mi rendo conto che oggi non sarà facile: tutte le insegne sono in alfabeto Thai. Provo a chiedere in giro, ma mi rendo conto, con un certo imbarazzo, che nessuno sa una parola d’inglese. Alcune persone capiscono cosa sto cercando e mi indicano con le dita strade e svolte da prendere, ma non potendo fare riferimento alle insegne non ho davanti altro che file di edifici tutti uguali. Alla fine busso ad una serranda dietro la quale mi sembra esserci la hall di un hotel. È in realtà una gioielleria, ma l’errore mi porta comunque alla soluzione, dato che il gioielliere parla un po’ d’inglese (e si compiace di poterlo finalmente fare con qualcuno).
L’albergo ha ampi corridoi e larghe scalinate. Malgrado le macchie di muffa sulle pareti della stanza e le bruciature da sigaretta sui mobili, si capisce che deve aver conosciuto tempi migliori. Comunque poco importa: è solo per una notte, visto che domani riprenderemo a muoverci verso Bangkok.
La prima cosa che mi viene in mente, appena sganciato lo zaino sul pavimento della stanza, è buttarmi sotto l’acqua fredda della doccia. E sotto l’acqua fredda della doccia, un minuto più tardi, mi ritrovo al buio: è saltata la corrente. Dietro al pallido fascio di luce di una torcia elettrica (ma perché le pile sono sempre scariche in queste circostanze?) decidiamo di uscire in cerca di cibo. L’intera città è al buio, illuminata ad altezza pube dai fari delle automobili e dei motorini. Attraversiamo le bancarelle del mercato seguendo la corrente: gli ambulanti continuano ad arrostire carne e la gente continua a comprarne, come se tutto fosse normale. Come se ci fosse la luce. Sul marciapiede della via principale prendiamo posto al tavolo metallico di un ristorante, illuminato da una candela consumata per metà. Ordiniamo a gesti e onomatopee una zuppa di riso e pollo. Intorno al nostro tavolo la città continua al buio la sua esistenza ed è questo fatto, più della mancanza di luce, a rendere la situazione ai miei occhi surreale. A pochi metri di distanza c’è un passaggio a livello (che per fortuna continua a funzionare grazie ad un generatore di emergenza). Le sbarre si chiudono e veniamo investiti dalla luce rossa intermittente del semaforo, mentre auto e motorini si accatastano in una fila scomposta e rumorosa. Ripartiranno qualche minuto dopo in un rombo polifonico, lasciandosi alle spalle l’odore dei gas di scarico.
Il mattino seguente cerchiamo il modo di andarcene con un autobus visto che ieri, al nostro arrivo, abbiamo scoperto con un certo sconforto che i treni per Bangkok partono solo di pomeriggio. È stata quindi una pensata inutile quella di fermarci per riprendere a viaggiare con la luce del giorno ed evitare di farlo di notte. Consultiamo il tabellone con la mappa della città, appena fuori dalla stazione. Accanto all’icona del treno, a indicare appunto la stazione, ce n’è un’altra raffigurante un autobus, ma non è chiaro dove sia esattamente. Proviamo a chiedere alla gente, ma ci ritroviamo sempre nella stessa situazione di incomunicabilità. Dopo vari tentativi una ragazza ci fa capire con qualche parola d’inglese che il posto che vogliamo raggiungere è lontano e dobbiamo andarci con la moto. (“Questa è una piccola città,” mi ha spiegato ieri il gioielliere “non ci sono taxi. Solo moto-taxi.”) La ragazza chiama uno dei moto-taxisti in attesa fuori dalla stazione e gli spiega in thai dove vogliamo andare. Il tipo si passa una mano sui capelli pettinati all’indietro, poi si sistema gli occhiali fumé con le dita rinsecchite che gli spuntano da un paio di guantini da ciclista. Sembra venuto fuori da un film italiano degli anni ottanta. “Sono 100 bath,” traduce per noi la ragazza, “50 a testa.” “Ok” dico, ormai curioso di sapere come diavolo pensa di portarci tutti e due in moto. Con un sidecar? Ingaggerà un collega e andremo su due mezzi diversi? La risposta è ovvia quanto disarmante. Una manciata di secondi dopo eccoci tutti e tre schiacciati l’uno dietro l’altro, lanciati a 50 Km/h per le strade della città in sella ad un piccolo scooter Honda dal rumore di taglia-erba. L’unico a mettersi il casco è il nostro autista, ma lo toglierà poco dopo per ravviarsi i capelli e fare una telefonata. Il mio stupore non dura che un minuto: il tempo di venir sorpassati da un altro scooter, a bordo del quale ci sono mamma, papà e due bambini nel mezzo. Più uno più piccolo davanti, sulle ginocchia del papà.
La stazione dei bus è davvero fuori mano, ma ormai siamo qui e tanto vale chiedere informazioni. Il problema è sempre lo stesso: le insegne con le destinazioni sono in thai e in thai parlano tutti gli addetti di tutte le compagnie. La cosa più difficile,comunque, è far capire al nostro moto-taxista che deve aspettarci: all’arrivo pago la prima parte della corsa e gli faccio cenno con la mano aperta di aspettare. Ma lui pensa sia un saluto e ripete lo stesso gesto chinando il capo, mentre l’altra mano già gira l’acceleratore . “No, no, wait!” gli dico. Lui sembra confuso. Scende di sella e entra con noi per chiedere ai bigliettai che gli traducano quello che diciamo. È una scena patetica: facciamo il giro di tutti gli sportelli di tutte le compagnie di autobus, ma nessuno ci capisce e il nostro uomo è sempre più confuso (e noi sempre più mortificati). Alla fine approfitterà di un momento di nostra distrazione per andarsene.
Con gli impiegati della compagnia di autobus comunichiamo a gesti, con molta fatica, e riusciamo a capire prezzi e orari. Ma ci rendiamo conto che non è una soluzione praticabile: come ci arriviamo alla stazione, all’alba, con gli zaini… e in motorino? Ci rassegniamo al treno.
Ma sul sito delle ferrovie ci aspetta una bella sorpresa: esistono vagoni letto con aria condizionata. Così arriviamo a Bangkok il mattino seguente, non proprio freschi ma nemmeno distrutti.
Dovendo parlare di Bangkok, potrei raccontarvi delle nostre avventure in tuk tuk, i moto-taxi a tre ruote tipici di queste parti. Allora dovrei dirvi di come sia difficile ingaggiarne uno per un prezzo onesto senza per questo doversi sorbire “visite gratuite” a negozianti loro amici, che pagano loro la benzina in cambio di nuovi avventori. Ci abbiamo provato:
– Noi dobbiamo andare al tempio del Budda sdraiato, quant’è?
– 30 bath.
– Un prezzo fantastico, dov’è la fregatura?
– Che vi porto anche qui, lì e là.
– Ma noi vogliamo andare al tempio e basta…
– Allora andate a piedi.
Potrei anche dirvi delle nostre lunghe camminate (per il motivo di cui sopra), dei nostri su e giù per il fiume Chao Phraya a bordo del ben più economico ed affollatissimo traghetto di linea, o della movida notturna del quartiere Banglamphu fatta di offerte a raffica di cibo, massaggi e spettacoli a luci rosse.
Potrei anche dilungarmi sul “business del buddismo”, col suo merchandising, i riti “su offerta” e le visite guidate ai templi.
Ma la verità è che l’evento più interessante del nostro breve soggiorno a Bangkok è stato andare a vedere gli incontri di thai-boxe al Rajadamner Stadium. Nove incontri, due dei quali terminati con lo sconfitto portato fuori in barella privo di sensi.
Il luogo è esattamente quello che un qualsiasi regista di Hollywood sceglierebbe per girare una scena di incontri clandestini. Il ring è l’unica parte illuminata, al centro di tre anelli di tribune, l’ultimo dei quali è privo di sedili e protetto da una rete metallica.
All’ingresso ci consegnano una fotocopia in bianco e nero del programma, in cui sono riportati i pesi in libbre dei pugili (da un minimo di 100 a un massimo di 165) e i nomi delle palestre di appartenenza. Tre telecamere riprendono l’evento, trasmesso in diretta nazionale.
Appena si fanno avanti i primi due pugili, quattro musicisti muniti di due tamburi, un campanello e una sorta di corno, iniziano a suonare una musica ossessiva chiamata Dontree Muay, che durerà per tutta la durata dell’incontro, facendosi più intensa durante le fasi più cruente.
I due pugili, dal fisico asciutto e un’altezza non superiore al metro e settanta, iniziano a girare in tondo sul ring passando una mano lungo le corde, ognuno per conto proprio, assorti, come se né l’avversario né il pubblico esistessero. Poi si fermano ad ogni angolo del ring, facendo una sorta di inchino. Infine si inginocchiano al centro del quadrato, flettendo il busto a destra e a sinistra. Si muovono a ritmo della musica, in quella che è a tutti gli effetti una danza, la Ram Muay, che racchiude in sé significati magici e scaramantici, oltre che essere una sorta di stretching. Entrambi indossano il Mongkon, un amuleto di forma circolare che cinge loro il capo e che i rispettivi maestri rimuoveranno prima dell’inizio del combattimento, sfiorando con le labbra il capo dell’allievo nel sussurrare una formula propiziatoria.
Finalmente ci siamo. La musica smette d’improvviso e una campana dà il via all’incontro. La musica riprende e i pugili sembrano di nuovo ballare, questa volta insieme, con la guardia alta e una delle gambe in avanti, pronta a sferrare il primo colpo. Il pubblico partecipa urlando, incitando i pugili e talvolta avvicinandosi all’angolo tra un round e l’altro per dare consigli.
All’inizio tutto mi sembra incredibilmente lento e innocuo, anche quando i due iniziano a colpirsi sul serio e ad azzuffarsi, prendendosi a ginocchiate attaccati alle corde. Cambio idea durante il sesto incontro, quando vedo Muenarkhom, 117,4 libbre, sferrare una gomitata rapidissima sulla testa di Jeff, 115,4 libbre, e quest’ultimo cadere a terra ad occhi chiusi. L’arbitro gli toglie il paradenti, i barellieri entrano e lo sollevano senza che lui dia il minimo segno di vita.
L’incontro successivo, il settimo, è quello più atteso. A combattere sono i pesi massimi della situazione. Nel secondo anello, dietro di noi, gli scommettitori si scaldano più di quanto non abbiano fatto fino adesso, urlando a squarciagola, alzando le mani per comunicare agli allibratori le proprie intenzioni e facendo passare banconote. Quando l’incontro entra nel vivo, i sostenitori di ciascun pugile urlano all’unisono ad ogni colpo sferrato, facendo salire la tensione in tutto lo stadio. Uno di loro inizia a percuotere con la mano un tabellone pubblicitario attaccato alla balaustra, producendo un suono che rimbomba nella penombra degli spalti. La musica è quasi scomparsa nel frastuono generale.
Purtroppo la magia del momento non dura a lungo. Verso la metà del primo round Trairat mette a segno un paio di diretti ben assestati e Suwuthlek inizia a barcollare. Tiene duro per un lunghissimo minuto, ma non appena i colpi dell’avversario lo raggiungono di nuovo cade a terra e non riesce più a rialzarsi.
Durante i due incontri successivi la tensione cala un poco, di pari passo col peso dei pugili. Le scommesse continuano, ma gli animi sembrano più calmi.
Alla fine del nono incontro lo stadio si svuota in fretta e la musica tace. Io rimango incantato ancora per un po’ e mi dirigo a passo lento verso l’uscita, ancora sbalordito dall’esperienza appena vissuta. Fuori ci aspetta una pioggia battente e una città da attraversare.
“Io in Cambogia voglio andare ad Angkor.” mi aveva detto Laura. Io come al solito non avevo voglia di fare ricerche e non avevo idea di cosa si trattasse, quindi ho detto che mi stava bene. Chi non si informa si arrangia, giusto? Avremmo dovuto fare una piccola deviazione verso nord per poi continuare a scendere in direzione Phnom Penh, dove ci saremmo fermati per le solite seccature burocratiche, in questo caso il visto per il Vietnam. Poi però, come sempre all’ultimo, non me la sono sentita di arrivare in un posto di cui non sapevo assolutamente nulla, e ho fatto le mie ricerche…
“No! I sassi no!” dico appena capisco a cosa vado incontro.
“Non ricominciare, non sono sassi. Sono rovine.”
“Che poi, alla prova dei fatti, sono sassi transennati. E per giunta rovinati, lo dice la parola stessa.”
“No invece! Sono luoghi in cui si è fatta la storia, in cui rimane la testimonianza di civiltà passate.”
Non voglio avere ragione, non posso. Ma è più forte di me: mi annoio a morte in giro per rovine, monumenti e musei archeologici. Sarà perché di architettura non capisco niente, di arte nemmeno. Sarà che la mia preparazione in storia pre-coloniale è pari a zero.
Angkor Wat si rivela poi essere un maestoso tempio indù, fatto costruire dal re khmer Suryavarman II tra il 1113 e il 1150. Si trova immerso nel verde, insieme a numerosi altri templi che insieme formano il sito archeologico di Angkor. Ha un perimetro di 3,6 km, è formato da tre gallerie rettangolari concentriche ed è circondato da un enorme fossato pieno d’acqua verdastra su cui il tempio stesso si riflette. C’è gente che ci arriva prima dell’alba e poi vi rimane fino al tramonto, per poterlo fotografare con la luce migliore.
Per arrivarci da Siem Reap, la città in cui alloggiamo, dobbiamo ingaggiare un autista per tutto il giorno. Non c’è altra scelta, ci dicono, funziona così e basta. L’autista ci accompagnerà di tempio in tempio e ogni volta ci aspetterà fuori, anche per ore, seduto all’ombra della carrozza del suo tuk tuk. Appena ci fa scendere davanti ad Angkor Wat rimango affascinato dalla sua imponenza solitaria ed equilibrata, dalla sua forma simmetrica ma per niente spigolosa. Ci incamminiamo lungo il ponte che attraversa il fossato, ma a metà strada dobbiamo rifugiarci per dieci minuti sotto un chiosco di informazioni turistiche dal tetto di foglie di palma. Piove a dirotto.
La magia, per quanto mi riguarda, svanisce in fretta quando mi trovo accalcato insieme a centinaia di turisti chiassosi e a gruppi di giapponesi in posa per farsi fotografare ad ogni angolo e… ad ogni sasso. Come puoi godere dell’atmosfera di un luogo simile con tutto questo casino? Poi finalmente imbocchiamo un corridoio silenzioso, dove ci accoglie un vecchio. Ci mette in mano dei bastoncini d’incenso e ci guida verso la statua di una divinità indù, davanti alla quale, con modi bruschi, ci fa cenno di inginocchiarci. Dice delle preghiere, credo, poi ci chiede di toccare la statua. Infine solleva un panno rosso alla base, scoprendo una banconota da 10 dollari, chiaramente invitandoci ad aggiungerne un’altra uguale. Questo è troppo, mi girano veramente le palle.
A fine giornata siamo entrambi stanchi. Siamo contenti di farci portare a casa e lasciare libero con anticipo il nostro bravo e silenzioso autista, che per scrupolo ci chiede se siamo sicuri di non voler aspettare il tramonto.
Ok, forse Angkor Wat (e il Colosseo, i templi greci…) non è solo un ammasso di sassi, ve lo concedo. Ma se guardo indietro al nostro viaggio, i luoghi che più hanno suscitato il mio interesse sono stati quelli trovati per caso. Quelli in cui ci siamo fermati per una notte mentre eravamo diretti altrove, come San Cristobal in Guatemala o Phatthalung in Thailandia. Posti in cui non c’è assolutamente nulla “da vedere”, eppure c’è un mondo in carne e ossa da scoprire. Là dove la gente è spaesata quanto te nell’incontrarti, perché non è abituata a relazionarsi con gli stranieri. In quei posti non esistono due mondi paralleli: quello in cui vive la gente normale e quello dorato (e salato) inventato apposta per i turisti. Lì nessuno ti aspetta fuori dalla stazione per proporti soluzioni facili, con l’intenzione di tenerti dentro la bolla del turismo, in un’enclave invisibile che ha poco a che fare con la realtà del posto in cui ti trovi. E Angkor Wat è servita a ricordarmi la lezione: i sassi proprio non mi interessano.
Comunque è andata, sono sopravvissuto un’altra volta. Dopo una breve escursione in tuk tuk attraverso i villaggi di palafitte intorno a Siem Reap, dove i bambini giocano nudi in strada e gli uomini si radunano nell’ombra scura dei bar, si riparte per Phnom Penh, dove rimaniamo alcuni giorni in un triste albergo accanto alla stazione dei bus, in attesa che i visti vietnamiti siano pronti. Ammazziamo il tempo passeggiando per una città grigia, caotica e deprimente. O forse siamo noi che siamo sulla via della depressione, anche se non manchiamo di sorridere quando, sul largo spiazzo pedonale sulla riva del Mekong, ci troviamo di fronte a decine di persone che si muovono a ritmo di musica, seguendo i movimenti del maestro di aerobica. C’è la giovane donna in tenuta ginnica, l’anziano col cappello, l’uomo d’affari appena uscito dall’ufficio e una serie di altri divertenti stereotipi. E pensare che al Parco Sempione la gente fa taiji!
Quella stessa sera, per disperazione, compriamo un pacco di pasta e la cuciniamo sul fornello elettrico nella nostra stanza. Non ne possiamo più di riso e noodles, e da queste parti non si trova altro (nemmeno il McDonald!). Di sicuro a stare in Indocina si diventa più magri. Un po’ per il caldo tropicale che toglie l’appetito, un po’ per la scarsezza delle porzioni (e della scelta dei cibi), farsi un giro da queste parti può essere una soluzione alternativa alla dieta.
Stamane l’ennesimo piccolo grande contrattempo mi ha guastato la giornata. Ora cammino per le strade di Saigon accanto a Laura, con le spalle curve più del solito, come avessi addosso chili di abiti bagnati. Dopo essere stati all’ambasciata cinese (e aver scoperto che per varie ragioni non possiamo ottenere il visto qui, ma “forse ad Hanoi sì”) abbiamo fatto due calcoli sui paesi che ci mancano da attraversare e ci siamo resi conto che i nostri passaporti non hanno abbastanza spazio libero per i timbri. Questo vuol dire guai, noie burocratiche che vanno a complicare un quadro già abbastanza incasinato per ottenere i visti stessi. Laos, Cina, Mongolia e Russia (questo l’itinerario che avremmo in mente prima di rimettere piede in Europa) pretendono almeno due pagine vergini a testa sul passaporto, mentre noi ne abbiamo due in tutto. Questo vorrebbe dire arrivare in Laos e poi rimanere bloccati, visto che a Vientiane non c’è un’ambasciata italiana in cui chiedere un nuovo documento.
“Hai detto qualcosa?” mi chiede Laura.
“Non ho aperto bocca.” rispondo bruscamente.
In realtà stavo mugugnando tra me e me, mandando maledizioni ai quei bastardi dei poliziotti di frontiera (messicani, australiani e statunitensi in prima fila) che nell’ultimo anno e mezzo, con lo scazzo proprio di chi non aspetta altro che tornare a casa ad accendere la televisione, hanno messo timbri a caso sul mio passaporto ancora nuovo, portandosi via intere pagine che ora sarebbero preziose.
Ci sediamo al tavolo di un ristorantino, in un vicolo affollato di venditori, motorini parcheggiati e viandanti. Ordiniamo due piatti di noodles e non diciamo una parola. Mentre aspettiamo i nostri piatti inizia a piovere, come succede ogni giorno quasi sempre alla stessa ora (siamo agli inizi della stagione delle piogge) e io, che sono seduto di fronte a Laura, con le spalle al vicolo, devo spostarmi e andare a sederle accanto per poter stare sotto la tettoia. Mangiamo in silenzio guardando la pioggia che scende e la gente che passa, avvolta nelle mantelle di plastica colorate. Di fronte a noi, dall’altro lato del vicolo, un uomo è seduto a terra nel suo minuscolo negozio e gioca coi suoi due figli piccoli. Di tanto in tanto si affaccia un avventore per comprare una bottiglia d’acqua o una birra, e allora lui si tira su con la forza delle braccia, appoggiandosi all’espositore di vetro pieno di saponette e deodoranti. Ha le gambe corte, sottilissime, e un piede girato in una posizione innaturale che non gli permette camminare. È uno dei tanti, e tra i più fortunati, che a oltre trent’anni dalla fine della guerra contro gli americani ancora pagano le spese dell’uso di armi chimiche. Il cosiddetto “Agent Orange” in particolare, usato dagli americani per fare “terra di nessuno” grazie all’azione devastante della diossina.* A questa schiera impressionante di deformi, che si incontrano ad ogni angolo di strada, si uniscono le migliaia di mutilati che, anche dopo la fine della guerra, hanno lasciato le gambe e qualche volta le braccia sul terreno a causa delle mine.
Col piatto ormai vuoto, aspettiamo in silenzio che spiova, ma venti minuti più tardi dobbiamo deciderci ad alzarci, visto che non accenna a diminuire. Attraversiamo in un balzo il vicolo, schivati all’ultimo da un motorino in transito, e compriamo nel piccolo negozio dell’acqua e una bevanda al cioccolato per la colazione di domani. L’uomo ci dà il resto e ci saluta con un sorriso, poi si risiede a terra accanto ai figli. Noi camminiamo muro muro cercando riparo sotto le tende parasole dei negozi, ma quasi sempre ci ritroviamo in mezzo alla strada per aggirare mercanzie in esposizione, tavoli di ristoranti, macchine e motorini parcheggiati che rendono il marciapiede impraticabile.
Infine viene la parte più difficile: attraversare la strada. Aspettare non serve a niente: non ci sarà mai un momento in cui il flusso del traffico (un fiume di migliaia di motorini) smetterà. Il trucco è iniziare a camminare lo stesso, senza fare l’errore di fermarsi o esitare, e aver fiducia nel principio di autoregolazione del flusso.
*Si stima che tra il 1961 e il 1971 siano stati gettati sul territorio del Vietnam del Sud circa 77 milioni di litri di diserbanti, nell’ambito dell’operazione americana “Ranch Hand”, mirata alla distruzione della vegetazione nella quale i Vietcong si nascondevano. Di questi, 49,3 milioni di litri erano di Agent Orange e contenevano più di 360 Kg di diossina, distribuita a più riprese su oltre 2,6 milioni di acri. Anche i soldati americani (e australiani, neozelandesi, sud-coreani e vietnamiti dell’esercito “regolare”) hanno subito l’esposizione all’Agent Orange, ma i civili sudvietnamiti hanno continuato – e continuano – a pagarne le spese negli anni a causa della profonda contaminazione del terreno. Secondo diversi studi scientifici vi sarebbe una correlazione diretta tra l’uso dell’Agent Orange e le malformazioni alla nascita.
Poco distante dalla città di Saigon si trova Cu Chi, un’ area percorsa da centinaia di chilometri di tunnel sotterranei, costruiti inizialmente dai Viet Minh durante la guerra di liberazione contro i francesi (1945-1954) e poi ricondizionati e ampliati in occasione della nuova guerra di liberazione, quella contro gli americani, combattuta tra il 1960 e il 1975. Si tratta di una complessa rete di gallerie, costruite su tre livelli di profondità, che consentivano ai VietCong di muoversi senza essere visti, di far muovere informazioni e rifornimenti e, infine, di sopravvivere alla schiacciante superiorità di mezzi dei nemici, che bombardavano innanzitutto per via aerea. Sotto terra si trovavano anche ospedali, depositi di armi, dormitori, cucine… A garantire la quantità d’ossigeno necessaria erano una serie di condotti che collegavano le gallerie con la superficie.
Per noi tutto inizia quando troviamo, in una stanza d’albergo in Cambogia, un libro abbandonato. Si intitola “The tunnels of Cu Chi”. Laura lo legge, mi racconta quello che viene a scoprire, ed entrambi veniamo incuriositi da quella storia. Decidiamo di andarci.
Per pigrizia facciamo l’errore di prenotare una visita guidata ai tunnel direttamente dall’albergo, a Saigon. Le visite guidate hanno di solito un ritmo imposto, in genere si è in molti e ci si affolla tutti insieme intorno ad uno stesso oggetto. E poi manca il silenzio, necessario a far lavorare l’immaginazione, per poter ricreare nella propria mente situazioni passate, fatti accaduti in quel determinato luogo. Comunque ormai è fatta, vada come vada.
Viene a prenderci un ragazzo magro dagli occhi affilati che sarà la nostra guida per la giornata e ci accompagna attraverso il vicolo fino alla strada principale, dove ci aspetta un bus già riempito di altri turisti di diverse provenienze.
Siamo una trentina di persone. La guida dice di chiamarsi Em: “Da non confondere con Am! Non mangiatemi per favore!” dice, prendendo un piglio sarcastico che manterrà per tutto il tempo.
Mentre fa i biglietti per tutti, lo aspettiamo in una sala le cui pareti sono percorse da fuciliere piene di armi da guerra, prevalentemente di fabbricazione americana e cinese. Carabine, mitragliatrici, lanciagranate e altra artiglieria lasciata sul terreno dai soldati durante la guerra. Em ci raggiunge pochi minuti dopo: “Scegliete la vostra preferita!” dice “AK47? Come John Rambo? Ta-ta-ta-ta-ta.”
Dopo aver visto un video documentario dal sapore propagandistico, datato 1967, che illustra la vita dei soldati rivoluzionari e la collaborazione dei civili nella lotta armata, ci spostiamo all’imbocco di uno dei tunnel. Em indica un punto sul terreno dove non vedo altro che foglie e terra: nessun buco, nessun segno visibile. Poi muove alcune foglie col piede e scopre una piccola botola di legno rettangolare, non più lunga di 40 cm e larga 30. La apre e spiega che quella è un’entrata “standard”, ovvero che è stata lasciata delle misure originali e non allargata per meglio consentire le visite turistiche. Chiede se qualcuno se la sente di provare ad entrarci e a chiudere il coperchio dietro di sé. Dentro non si vede altro che una biforcazione e poi il buio, in entrambe le direzioni: sembra la tana di una talpa. “Il volontario deve essere magro,” spiega, “a misura di vietnamita.” Poi prepara un’altra frecciata: “I GI, i soldati americani, rimanevano bloccati quando cercavano di entrare nei tunnel perché erano grassi.” Simula una pancia gonfia con le braccia. “Gli piaceva troppo fumare la marjuana, e la marjuana mette fame.”
Un rumore molto simile a uno sparo in lontananza mi distrae, poi un altro e un altro ancora. “Hai sentito?” chiedo a Laura. Lei non l’ha sentito, e io mi sto sicuramente sbagliando. Deve essere una suggestione dovuta al luogo in cui mi trovo e ai troppi film spazzatura che Hollywood ha dedicato al tema e che io mi sono sorbito da bambino.
Proseguiamo attraverso le trappole atroci che i VietCong nascondevano per impedire ai loro nemici di trovare i tunnel: vecchie gabbie per tigri, buche con una varietà di spuntoni in bambù (o in metallo recuperato dai detriti delle bombe americane) che andavano a conficcarsi in diverse parti del corpo a seconda del tipo. I malcapitati rimanevano così bloccati e feriti, finché i VietCong non andavano a recuperarli per portarli nelle prigioni e trasferirli poi ad Hanoi, nel Nord.
Riprendiamo a camminare attraverso un bosco di alberi della gomma, che tra l’altro a quel tempo non c’era. Non un albero era rimasto, solo terra bruciata, grazie ai bombardamenti al Napalm e agli agenti chimici a base di diossina usati dai GI.
Ci avviciniamo ad un carro armato americano, probabilmente danneggiato da una mina anticarro, e sento di nuovo gli spari. Una vera e propria mitragliata questa volta, e molto vicina. E poi altri spari ancor più vicini, finché non arriviamo alla sorgente di quel rumore e io rimango a bocca aperta: c’è una cava di terra rossa alla cui estremità sono sistemate diverse armi: gli AK47 vanno per la maggiore, ma c’è anche un M16 montato su un cavalletto, a bordo di una Jeep dell’esercito americano. Capisco che Em non scherzava quando diceva “Scegliete la vostra preferita”. Per una cifra che va dai 20.000 ai 40.000 VND (da circa 1 a 2$) è possibile sparare con una di quelle armi. Solo uno di noi, un australiano, lo farà. Mi avvicino incuriosito: non mi aspettavo proprio di trovarmi in una sorta di parco dei divertimenti. Una raffica di mitra mi assorda e devo portarmi le dita alle orecchie: era un italiano a sparare, ed ora se ne va col figlio in adulazione sottobraccio. “Papà, com’era?”
La situazione è paradossale: in un luogo in cui un’atroce guerra d’aggressione ha avuto luogo, turisti occidentali provenienti da quello stesso mondo un tempo sconfitto impugnano quelle stesse armi per gioco, sotto gli occhi annoiati dei locali. Quegli stessi locali che hanno organizzato tutto, e che ora ne ricavano profitti.
Il nostro australiano divarica le gambe nude una davanti all’altra, avvicina un occhio al mirino, si concentra. Poi fa fuoco, sembra soddisfatto. Un soldato vietnamita, responsabile di quell’arma, lo guarda con un’espressione incolore ad una distanza di un metro. Si avvicina per ricaricare il fucile, senza dire una parola, poi torna al suo posto. Ho la sensazione che tutto questo non gli piaccia affatto. Quanto a me, che ho fatto obiezione di coscienza, perdo volentieri l’occasione di impugnare un’arma per la prima volta.
Lasciato il rustico poligono di tiro, entriamo finalmente in uno dei tunnel, nel quale sono stati allargati gli ingressi e sistemate alcune fioche luci. Facciamo un tratto di soli 100m, ma ne esco con le gambe a pezzi e fradicio di sudore. Penso ai VietCong, che a volte ci rimanevano per mesi senza uscire. Le donne ci partorivano, i malati ci morivano. C’era perfino una compagnia di teatro che girava per i tunnel intrattenendo i soldati, cercando di tenerne alto l’umore facendo la parodia degli americani.
Em si guarda bene dall’accompagnarci sotto terra e ci aspetta dall’altra parte. “Se volete continuare a camminare” dice “da quella parte potete sbucare fino in Cambogia! E pensate” continua ” che una parte dei tunnel si trovava proprio sotto una delle basi americane. Loro cercavano Charlie, e ce l’avevano sotto al culo!” Continua poi raccontando che a volte i VietCong si travestivano da civili e si avvicinavano alle basi americane. “Ma non per spiare, per ascoltare la musica!” Mi domando se questo ragazzo abbia un motivo per essere così spietatamente sarcastico nei confronti degli sconfitti americani, o se sia solo orgoglio patriottico. Gli chiedo se abbia avuto qualche parente coinvolto nella guerra e lui mi dice di sì. Suo padre. Ma non stava coi VietCong, stava con l’esercito sud vietnamita, e quindi ha combattuto con gli americani. Ora sì che sono confuso.
Poco tempo fa un vecchio amico mi chiedeva via e-mail se fossi proprio sicuro di voler tornare in Italia e se non temessi, una volta in patria, di ritrovarmi a dire: “Ma io qui che ci sto a fare?” Io rispondevo che sì, ero sicuro di voler tornare perché ogni posto in cui ero stato nascondeva i suoi guai e che, vista da fuori, l’Italia non è poi tutta una merda. Aggiungevo però che rimandavo il mio giudizio al momento in cui sarei effettivamente tornato, perché il mio punto di vista poteva anche essere distorto dalla nostalgia.
Evidentemente doveva proprio essere la nostalgia, perché mi è bastato passare un’oretta all’ambasciata italiana di Hanoi per ricordarmi di che pasta è fatto il mio paese.
All’ingresso ci accoglie un uomo sui quarantacinque, dall’accento campano, gentilissimo. “Prego, venite avanti” dice uscendo dalla guardiola. Lo segue un ragazzo giovane in divisa, dal sorriso timido.
“Oh, finalmente un carabiniere!” mi scappa di dire, sinceramente contento di vedere colori familiari. (La lontananza fa brutti scherzi, riescono a mancare anche le cose più strane.)
“Due carabinieri!” precisa quello più anziano, che però veste con pantaloni larghi, una camicia a maniche corte e una borsa a tracolla. “Allora, ditemi, come vi posso aiutare?”
Gli spieghiamo che ci restano solo due pagine libere sul passaporto e che, quindi, ce ne serve uno nuovo, dato che siamo diretti in Cina, Mongolia e Russia e che ciascuno di quei paesi chiede almeno due pagine libere, per il visto e per i timbri. L’uomo ci parla con un calore che sento sincero, dice che non dovrebbe essere un problema, che di solito ci vogliono una decina di giorni per ottenere il nulla osta dall’Italia.
Prima di entrare per parlare con l’incaricata scambiamo due parole. L’uomo vive qui da due anni e mezzo e sa parlare il vietnamita. Non lo dice direttamente, ma capisco che è assolutamente contento di vivere qui. Dice che ci invidia un po’ per il viaggio che stiamo facendo, che è sempre stato anche il suo sogno stare in giro tanto tempo, perché quello è l’unico modo per conoscere davvero il mondo. Io gli rispondo che lavorare all’estero come fa lui è anche meglio dal punto di vista della conoscenza, e lui riconosce che ho ragione. Poi indica il suo giovane collega, che ci ascolta sulla soglia della guardiola “Lui è appena arrivato invece”. Il ragazzo è al suo primo giorno di servizio. Fa una faccia disperata, dice “Mi mancano ancora 50 giorni per tornare a casa!”
Il carabiniere più anziano ci accompagna in una piccola sala d’attesa e avvisa l’incaricata della nostra presenza.
“Arriva subito” dice.
Noi ci sediamo, assolutamente fiduciosi, e aspettiamo di essere ricevuti.
Dopo 45 minuti si affaccia alla porta una donna italiana.
“Qual è il problema?” chiede, senza invitarci a entrare.
Glielo spieghiamo. A metà del discorso la vedo scuotere il capo.
“Ma voi siete iscritti al registro degli italiani all’estero?” chiede.
“No…” diciamo in coro io e Laura. Il sorriso ci si spegne in faccia.
“Ah, no no no,” attacca lei “noi non rilasciamo passaporti ai non residenti in Vietnam. Abbiamo troppo lavoro. Al limite possiamo farvi un documento di viaggio fino alla prossima destinazione o per rientrare in Italia.”
Chiusura totale, atteggiamento teatrale. Si aspetta che ce ne andiamo, si comporta come una che è stata fin troppo paziente con due testimoni di Geova, sulla porta di casa sua, la domenica mattina. Io insisto, voglio capire.
“Ma a queste cose bisogna pensarci prima,” dice lei “prima di partire!” Senza conoscerci minimamente ci tratta come fossimo idioti, due sprovveduti rimasti schiacciati con la macchina sotto la sbarra di un passaggio a livello.
Le faccio notare che siamo in viaggio da quasi due anni, che siamo partiti con due passaporti nuovi di zecca. Lei non sembra prendere in considerazione nulla di quanto le diciamo, ripete che hanno troppo da fare, che noi non ci rendiamo conto della mole di lavoro, tanto più che sta iniziando la stagione turistica e c’è un sacco di gente che ha bisogno di assistenza. Laura le fa notare che due di quei turisti bisognosi d’aiuto ce li ha proprio di fronte in questo momento.
Per togliersi d’impiccio l’impiegata decide di chiamare la responsabile, un’altra italiana, che ci raggiunge nella sala d’aspetto. Nel frattempo entra un signore, un altro italiano, che ha un appuntamento proprio con lei.
“Mi libero dei signori e sono subito da lei” dice la nuova venuta in tono cordiale. Non avrebbe potuto scegliere una frase più infelice e appropriata.
Ci ripete, in sostanza, la stessa tiritera: niente passaporti per i non residenti, hanno troppo da fare, soprattutto in questi giorni… Io a questo punto me ne andrei anche. Deluso e arrabbiato, ma me ne andrei. Ma alla responsabile scappa di aggiungere in tono paternalistico che uno a queste cose ci deve pensare per tempo. Ripeto anche a lei che siamo in giro da molto tempo.
“Ah,” dice inarcando le labbra e facendo roteare la mano “beati voi!”
“Guardi che i soldi ce li siamo guadagnati lavorando!” dice Laura, indignata. Noi… vorrei precisare io.
Non ci vedo più dalla rabbia. Le dico che se non possono aiutarmi mi sta anche bene, anche se è assurdo che un italiano all’estero non possa contare sulla propria ambasciata, ma che non si permetta di farci la ramanzina sull’essere previdenti.
“Noi ci pensiamo per tempo” le dico “tant’è che siamo qui all’ambasciata da Hanoi ora per non rimanere bloccati a Pechino tra un mese. Ma purtroppo essere previdenti non basta, visto che a volte si incontrano problemi di questo tipo.” Punto l’indice verso di lei e la sua collega.
Non so perché, ma invece di incazzarsi la tipa si ammorbidisce un poco. Ovviamente quella di Hanoi resta l’ambasciata più intasata del mondo, ma a quanto pare la richiesta per un nuovo passaporto si potrebbe fare, ma solo in caso di emergenza.
“Ma voi ce l’avete un biglietto aereo?” chiede la responsabile.
“No.” rispondo, ormai deciso ad andarmene sbattendo la porta.
Lei sgrana gli occhi come se avessi bestemmiato e sputato in un tabernacolo.
“Ma scusate, voi viaggiate e non avete neanche un biglietto aereo?”
“Sa com’è, esistono i treni…”
“Se aveste i biglietti aerei che lo giustifichino potremmo avviare una procedura di emergenza. Lo abbiamo fatto una volta per un ragazzo che stava facendo il giro del mondo. Sapete, lui non poteva aspettare.”
“Perché, noi che cosa stiamo facendo, scusi?”
“Sì, ma ci vogliono i biglietti dell’aereo.” dice, barricandosi dietro la nuova barriera burocratica.
Se c’è una cosa che mi fa incazzare sono le regole non chiare, e la gente che gode del proprio piccolissimo potere per creare problemi anziché risolverli. Dal mio punto di vista, o si può o non si può. Se c’è una procedura, deve essere quella per tutti. Faccio notare alla funzionaria che dal non si può siamo passati al si può in certi casi, per certe persone e a loro discrezione.
“A quanto pare” aggiungo “noi non rientriamo nella schiera dei fortunati. Arrivederci.”
“Quando ripartite voi?” dice mentre apro la porta per uscire.
“Il nostro visto scade il tre luglio.” le risponde Laura.
“Se volete potete fare la richiesta, ma non vi garantisco che facciamo in tempo.”
“Questa mi sembra già una risposta” dico. La responsabile dice all’impiegata di consegnarci i moduli e torna al suo lavoro. Ci faranno sapere loro se e quando avranno ottenuto il nulla osta.
“Ma di dove siete voi?” chiede l’impiegata.
“Di Milano!”
“Uuuh, Milano è anche peggio di Napoli. Ci mettono una vita!”
Usciamo dall’ambasciata furiosi, ci riversiamo in strada come un fiotto d’acqua da un tubo appena scoppiato. Laura prende a calci le cartacce per strada e inveisce, rossa in volto. Io sono troppo arrabbiato per manifestare qualsiasi emozione. Entrambi pensiamo la stessa cosa: probabilmente non avremo i nostri passaporti in tempo, ma chi se ne frega. Una soluzione si trova sempre e noi la troveremo a Pechino, o a Ulan Bator. Il problema è l’Italia, è casa nostra. Perché questa non è un’eccezione, un caso sfortunato: questa è una storia italiana, una situazione-tipo che entrambi abbiamo già vissuto, mille volte. Una gran tristezza ci assale mentre camminiamo guardando l’asfalto. Non sentiamo più nemmeno i clacson e il rombo acuto dei motorini lungo la strada. Pensiamo all’Italia.
La sera ad Hekou c’è musica per le strade. Un gruppo di uomini sui cinquanta, seduti in cerchio su sedie di plastica, suona l’erhu, una specie di violoncello cinese dalla voce di donna. Uno di loro canta e tutti gli altri lo seguono, all’unisono sulla stessa melodia. Pochi loro compaesani si fermano a sentire, ma forse li ascoltano i vietnamiti, dall’altra parte del fiume. Poco più in là un impianto audio suona musica dance, e lì ci sono i giovani che ballano e si divertono. Nella piazza davanti al nostro albergo, invece, gente di mezza età è impegnata in una specie di danza aerobica.
Usciamo dalla nostra stanza che è già buio, in cerca di qualcosa da mangiare. Potremmo andare da KDS, una specie di Burger King locale: facile e indolore, un’esperienza nota e uguale in tutte le parti del mondo. Invece ci buttiamo a kamikaze in un locale dai divanetti rossi e tavoli in due file lungo i muri. In due secondi sfodero tutto il mio vocabolario cinese: entrando dico buonasera e rispondo con un grazie quando una ragazza mi porge il menù. Ma il menù è in cinese e la mia pronuncia di quelle due semplici frasi dev’essere stata orribile, a giudicare dal sorrisetto della mia interlocutrice. Per un momento mi sembra che tutti i clienti smettano di mangiare per guardare noi, due animali esotici, due orsi polari paracadutati in piazza del Duomo. La situazione è imbarazzante, ma anche divertente: le donne che lavorano nel locale si radunano intorno a noi e si sforzano di capire, mentre noi ricorriamo a strategie varie per spiegarci. Digito “pollo” e “patate fritte” sul traduttore che ho installato all’occorrenza sul cellulare, mostro loro il risultato in caratteri cinesi e sembra che ci siamo capiti. Per sicurezza una di loro ci porta al tavolo dei surgelati, per chiedere conferma che sia proprio quello che volevamo. Io e Laura ci guardiamo, e in quel breve sguardo comunichiamo più o meno quanto segue: Cos’è ‘sta roba? Boh, è tutto scritto in cinese… Dovremmo provare a chiedere del cibo fresco? Sì, e come? Lasciamo perdere va’, questa roba andrà benissimo. Sì dai, ho fame, quel che arriva arriva.
Ad arrivare invece è un ragazzo sui trenta dalla faccia butterata dall’acne, tale Gong Hu, che si offre come interprete. È gentilissimo, ma combina solo casini. Il suo inglese è davvero elementare e a nulla vale dirgli che abbiamo già ordinato: lui vuole aiutarci.
Le donne stavano già preparando quello che avevamo ordinato, ma Gong Hu dà loro dei contrordini. Quelle gli gridano dietro, ma lui è solo l’interprete, un ambasciator che non porta pena, quindi che facciano come dice, poche storie. Dopo aver impartito gli ordini ritorna da noi, appoggia sul tavolo il suo succo di frutta bevuto a metà e chiede se può sedersi con noi.
La conversazione procede a stento, ma la gentilezza di Gong Hu vale la fatica. Ci racconta che lavora nelle costruzioni e fa un sacco di quelle cerimonie tipiche delle persone timide: “Sank you, sank you very much!” mi dice arrossendo quando gli chiedo dove ha studiato inglese. Forse ha pensato che gli stessi facendo un complimento, e io non ho nessun motivo per precisare il contrario. Comunque mi risponde poco dopo, quando parlando si sé dice che sa un po’ di inglese perché suo padre insegnava la lingua in una scuola media.
La cena è orribile. Prima arrivano delle crocchette bisunte dal sapore inconsistente. (Non sembra proprio pollo. Ma allora cos’è?) Poi arriva una scodella di banane fritte (forse dono di Gong Hu, che ne mangia con noi). Infine ci vengono servite le patate fritte, mollicce e crude all’interno. Ingoiato il tutto, Gong Hu chiede più volte se vogliamo ordinare altro e noi, terrorizzati, facciamo scene da mani sulla pancia: “No, grazie, siamo pieni da scoppiare!”
Una cena da dimenticare, un’esperienza da ricordare. Usciamo in fretta, diretti al KDS.
Lasciamo la desolata stazione di Hekou in tarda mattinata. Il bus scivola dentro a un’autostrada nuova di zecca: asfalto regolare, guardrail e arredi impeccabili, stazioni di servizio immacolate e deserte. Intorno a noi coltivazioni a perdita d’occhio, terra rossa e terrazzamenti.
C’è un rumore fastidioso a bordo, una specie di beep intermittente che comincia di quando in quando. Inizialmente i beep sono distanti l’uno dall’altro, ma si fanno progressivamente più frequenti, fino ad essere quasi un suono continuo, per poi scemare di nuovo e scomparire. Si tratta di un marchingegno che, oltre a perforare i timpani della gente, serve all’autista per sapere dove sono i controlli della velocità. Ma potrebbe anche farne a meno, dato che questi controlli sono ovunque.
A parte quel suono fastidioso, non mi sembra vero di viaggiare ad una velocità accettabile, su una strada dritta e priva di buche, senza sorpassi, sbandate e brusche frenate. Ma la festa dura poco, perché l’autostrada è interrotta (forse non è stata ancora completata). E allora è all’autista che non sembra vero di potersene finalmente infischiare dei controlli e lasciarsi andare a sorpassi, sbandate e inchiodate a suo piacimento.
Inizialmente passiamo attraverso una città dalle decine di semafori, tutti rossi, a distanza regolare l’uno dall’altro. Poi, appena fuori dalla zona urbana, l’asfalto viene a mancare per un po’ ed è come essere in barca. In mezzo alla tempesta. A un certo punto rimaniamo bloccati in un ingorgo, in attesa che una gru rimuova un enorme pannello pubblicitario crollato in mezzo alla strada.
Il nostro autista, va detto, è proprio uno stronzo e ce la mette tutta per rendersi antipatico. Se c’è una coda, lui sente il dovere morale di occupare l’altra corsia e sorpassare tutti. Se c’è un valido motivo per rallentare, lui accelera. Poi inchioda.
Finalmente una sosta: mi serve un bagno e sto morendo di fame. Ancora non lo so che risalirò sull’autobus con la pancia vuota e con la vescica piena, pur avendo pagato sia per il pranzo che per l’entrata al bagno. Laura non ha appetito, dice. L’ultimo tratto di strada le ha dato la nausea e preferisce rimanere a bordo.
Ad un lato dello spiazzo, delimitato da costruzioni fatiscenti e spazzatura, c’è una piccola mensa. C’è poco tempo e la gente si accalca in una coda cinese: chi si impone sugli altri viene servito per primo. Io, almeno secondo Darwin, sarei destinato all’estinzione, se non altro per il fatto che non so una parola di cinese. Decido però che voglio sopravvivere: mi piazzo davanti all’espositore e indico le due cose che mi sembrano meno disgustose. La signora dall’altro lato del banco spiaccica due cucchiaiate di cibo in un vassoio di metallo a scompartimenti (l’ultima volta che ci ho mangiato dentro è stato alla mensa dei poveri a Città del Guatemala) e mi liquida in fretta, dandomi come resto delle banconote impiastrate di salsa di soia.
Riuscirò a mandar giù solo una parte di quel cibo. In uno degli scompartimenti, quello che mi era sembrato essere pollo si è rivelato un avanzo di macelleria: ossa e articolazioni di animali vari con ben poca carne attaccata, e comunque piccante da farmi grondare di sudore. Per fortuna nell’altro scompartimento riuscirò a isolare dei brandelli di uovo e qualche pezzo di pomodoro.
Bene. Di fame non si muore per così poco. Almeno fatemi andare in bagno.
C’è una scritta di vernice azzurra su di un muro grigio: WC. All’ingresso una signora mi chiede 1¥. Pago e faccio un passo avanti, oltre il muretto che mi separa dalla soglia dei bagni. E sulla soglia rimango, pietrificato, per mezzo minuto buono. Davanti a me c’è un tale, accovacciato. Fuma una sigaretta e sembra rilassato. Sta cagando. Sotto di lui un buco pieno di merda. Cerco di capire come dovrei comportarmi: la stanza è larga circa due metri e si restringe verso il fondo. Sul lato sinistro c’è una specie di fossato di cemento, per i bisogni liquidi; sul lato destro tre piccole buche, per quelli solidi. Un odore terribile e niente muri, niente porte, niente sciacquoni. Niente di niente.
Il tipo accovacciato mi guarda. Sto facendo la figura dello scemo. Ormai sono qui, penso, ci devo almeno provare. Mi dirigo al lato sinistro e provo a fare il mio dovere. Ci provo ma non ci riesco. Tiro su la cerniera dei pantaloni ed esco di corsa, imprecando nella mia lingua. La signora all’ingresso mi guarda perplessa.
Allora mi è tornato in mente quel ragazzo di origine cinese, cresciuto nel Sultanato del Brunei. Eravamo in una strada del centro di Siem Reap, in Cambogia, coi piedi in ammollo in una vasca piena di pesci carnivori che si occupavano di ripulirci da calli e pelli morte. Era sera, intorno a noi un gran baccano di gente in giro per locali, musica e venditori. Gli avevo chiesto del suo paese d’origine, se ci fosse mai stato. Lui si era limitato a dire che in Cina aveva fatto la peggior “toilet experience” della sua vita e che ci consigliava vivamente di portarmi dietro delle pastiglie contro la diarrea. La sua fidanzata annuiva, mentre io e Laura ci guardavamo confusi. Ora so che cosa intendeva.
Ritorno alla mensa. Questa volta provo a farmi dare dei noodles e li porto a Laura, ma anche quelli sono immangiabili: li abbandonerò su un paracarro. Infine mi guardo intorno in cerca di un angolo per fare ciò che non ho potuto fare prima, ma l’autista ha appena finito di fumare. Butta il mozzicone in una pozzanghera, si siede al posto di guida e suona il clacson: è ora di ripartire.
L’ultimo tratto del viaggio torna ad essere piacevole. Riprendiamo l’autostrada e attraversiamo la Foresta di pietra, una distesa di rocce calcaree simili a stalagmiti che danno l’impressione di essere tronchi d’albero pietrificati.
Arriviamo a Kunming prima del tramonto, ma sarà buio da un pezzo quando avremo trovato un posto per la notte, dopo ore passate a disperarci e a camminare schiacciati dal peso degli zaini. Impossibile trovare un taxi libero, e se c’è non ci capisce e preferisce trovarsi un cliente più facile. Verso le undici finiamo in un ostello che ha un solo posto letto e mi trovo ad implorare la ragazza della reception di lasciarmi dormire da qualche parte sul pavimento. Sarà magnanima abbastanza da concedermi il divano del bar, dove per tutta la notte le zanzare approfitteranno senza scrupoli del mio corpo.
La piazza del centro di Kunming è un enorme monumento al capitalismo più genuino, quello entusiasta degli albori, che ancora non ha imparato a mascherarsi dietro i banchetti per le adozioni a distanza, o a scaffali di prodotti biologici. Una zona a traffico limitato assediata da decine di banche, luccicanti centri commerciali, fast food americani.
Proprio in uno di quei fast food ci eravamo rifugiati, presi da fame improvvisa. (D’accordo: che senso ha andare in Cina per poi mangiare da McDonald? E soprattutto, che senso ha mangiare da McDonald? Ma mettiamo per un attimo da parte gli integralismi. Un occidentale, per quanto dica peste e corna dell’Occidente – seduto sulla poltrona di casa sua – sente poi bisogno dell’Occidente quando i punti di riferimento vengono a mancare. Come un bambino abbandonato torna sempre, anche se con rancore, a cercare i suoi vecchi, così l’occidentale, almeno una volta al mese, si trova a cercare conforto tra le braccia tossiche della Grande Distribuzione).
Inizia a piovigginare e stiamo per tornare verso l’ostello. Verso l’uscita della piazza c’è una ragazzina, in piedi accanto a una fioriera. Ha una frangia di capelli dritti come spaghetti che le copre completamente gli occhi, un paio di jeans e uno zainetto dagli spallacci lunghi che le poggia sul sedere. Non ne ho mai letto uno in vita mia, ma mi fa pensare a un personaggio di un manga giapponese. Con lei ci sono un uomo e una donna che potrebbero essere i genitori. Lui, in una polo lilla, preme dei tasti su un piccolo lettore mp3 e fa partire la base di una canzone cinese. Il suono esce pulito e potente da un amplificatore poggiato sul lastricato, al qual è collegato anche un microfono. L’uomo attacca a cantare sulla base con una voce impostata e vibrante, con la sicurezza di chi conosce il proprio lavoro a memoria. Solo sugli acuti mi sembra che stoni un poco, ma ciò nonostante i passanti iniziano a radunarsi intorno ai tre e sembrano entusiasti. La donna inizia una danza armoniosa e saltellante, facendo svolazzare la larga gonna. La gente deve arretrare un poco per lasciarle spazio e le fa cerchio intorno.
Alla fine della prima canzone i due adulti sembrano incitare la ragazzina a cantare. Lei non reagisce. Non dice nulla; non scuote la testa per dire no, non prende il microfono per dire sì. L’uomo canta una seconda canzone. La donna ricomincia a ballare. Qualcuno, prima di andarsene, lascia una banconota nella custodia floscia dell’amplificatore.
Finita la seconda canzone prende il microfono la ragazzina. Ora è chinata a terra, con il lettore mp3 in mano. Inizia a cantare tenendo la bocca lontana dal microfono, seguendo la voce originale di una canzone. Canta bene, comunque: soave e intonata. Penso che forse è agli inizi e sta prendendo coraggio. Alzo lo sguardo per vedere le facce di quelli che forse sono i suoi genitori: saranno fieri? Commossi? Severi?
Sono semplicemente spariti. La musica smette d’improvviso, come se avessero tagliato i fili della corrente. Vedo la ragazzina discutere con un tipo sui trenta, in camicia bianca e scarpe lucide, che nel frattempo sta chiamando qualcuno dal suo gigantesco smartphone. Compaiono delle guardie private e la ragazzina raccoglie di corsa la strumentazione. C’è la polizia poco distante, quella vera. Gli agenti chiacchierano distrattamente al chiuso di una piccola stazione di controllo, ma non sembrano occuparsi di queste cose. Le guardie private, appurato che la musica è cessata, lasciano stare la ragazzina e partono alla ricerca dei due adulti (che ormai saranno lontanissimi).
Nel silenzio lasciato dall’amplificatore spento mi accorgo che c’è altra musica nell’aria, proveniente da altri angoli della piazza. Altre voci di bambini, anche quelle troncate una ad una al passare delle guardie.
Alcuni minuti più tardi la ragazzina dalla lunga frangia si riunisce ad altri bambini, quasi tutti più piccoli di lei. In tutto sono poco meno di una decina, alcuni con un amplificatore caricato sulla schiena, altri con un microfono in mano. Confabulano tra loro e decidono che è meglio andarsene di lì.
Mettete pure, accanto al banco dei prosciutti, un banchetto per adottare (si intende a distanza) un tenero negretto del Burkina Faso (ma dov’è il Burkina Faso?). Ma non metteteci sotto gli occhi i bambini poveri del quartiere. Quelli non sono teneri. Quelli ci ricordano chi siamo stati ieri e chi siamo veramente oggi.
A Kunming, capoluogo dello Yunnan, trascorriamo circa cinque giorni. Giorni oziosi fatti di brevi passeggiate, chiacchiere da ostello con altri viaggiatori e pasti consumati sui marciapiedi, ai tavoli di ristoranti improvvisati che offrono carni alla griglia, riso, noodles e ravioli al vapore.
Più o meno lo stesso copione si ripete a Xi’An, una città antica (più di 3100 anni di storia), capoluogo dello Shaanxi. Solo che qui la questione alimentare si risolve in ristoranti al chiuso, in cui sperimentiamo pietanze mai viste prima. Costante è la difficoltà di comunicazione, che ci porta a non sapere mai con certezza cosa abbiamo ordinato e ad affidarci alla fortuna e alla buona fede di chi ci sta servendo.
Kunming e Xi’An. Due grandi città, due capoluoghi. Iniziamo a sentire il richiamo della provincia, del posto tranquillo. Siamo diretti a Pechino, la Grande Capitale, ma nulla ci vieta di fare una tappa intermedia. Così, consultata la mappa delle ferrovie, scegliamo Anyang. Una città di una certa rilevanza storica, ma luogo di scarso interesse turistico, in cui non c’è motivo di andare. È il luogo che fa per noi.
Il vasto piazzale della stazione di Xi’An è affollato di gente che si muove in tutte le direzioni. Attraversarlo vuol dire muovere piccoli passi, schivare di continuo, non lasciarsi scoraggiare dalle urla e dalle spinte di chi, senza guardarci in faccia, vuole passarci oltre. Nella confusione generale capiamo che c’è una lunghissima coda da fare per entrare nella stazione. Uno alla volta si passa accanto alla guardiola, dalla quale un poliziotto ammette solo le persone munite di biglietto. È una seccatura, ma se non lo facessero la stazione rimarrebbe semplicemente bloccata. Una volta dentro, infatti, siamo come due pesci in un acquario troppo piccolo. Sono solo le 19:00, il nostro treno è in partenza alle 21:30 e non ci resta che fare come tutti: scegliere un punto a caso del pavimento, sederci sugli zaini a guardare i piedi della gente schivarci e farsi strada nella corrente.
Verso le 20:00 il numero del nostro treno compare sul tabellone luminoso. Ci mettiamo in coda. C’è già molta gente accampata sul pavimento: pochi hanno avuto la fortuna di trovare una sedia libera. Qualcuno mangia, qualcun altro gioca a carte. Famiglie, gruppi di amici, anziani con grossi sacchi di iuta al seguito. Ci sediamo di nuovo sugli zaini ad aspettare che aprano le porte metalliche e che ci facciano accedere al binario. Accanto a noi una mamma fa fare la cacca al proprio bambino nel piatto in cui ha appena finito di mangiare. Abbandonerà il tutto con noncuranza sotto il sedile sul quale è seduta. Alle 21: 20 la calca si serra a ridosso delle porte, ma quelle non si aprono. Venti minuti più tardi, mentre sto fissando il piccolo fazzoletto di pavimento libero davanti ai miei occhi, sento un boato. Il tabellone luminoso comunica che il treno partirà alle 22:20. Manca l’aria e fa caldo, ma non c’è molto da fare.
Nel salire sul treno mi trovo faccia a faccia con un tale. Ha un grosso sacco di iuta caricato su una spalla e un ventilatore, con piantana e tutto, nell’altra mano. Io ho il solito zainone sulle spalle, lo zaino piccolo sul davanti e la chitarra in mano come Toto Cutugno. Siamo all’entrata del vagone, già affollato di viaggiatori. Non ci passiamo. Le persone in fila dietro di me si bloccano sui gradini e mi spingono in avanti; l’uomo col ventilatore mi spinge indietro. Per farla breve, faccio l’errore “culturale” di indietreggiare. Mi troverò a percorrere un intero vagone in retromarcia, ad impigliarmi nella maniglia di una porta e prendere a zainate praticamente tutti i passeggeri, più divertiti che infastiditi dalle mie goffe manovre. L’uomo di fronte a me continua ad avanzare, io non trovo un’ansa nella quale ritirarmi e alla fine non mi resta che spingere anch’io, spremermi contro quel tale e contro la gente ai lati finché non riusciamo a sgusciare via, ognuno nella sua direzione. Se l’avessi fatto subito avrei evitato di congestionare il traffico e di passare per ridicolo, dato che non mi sembra essere una questione di educazione. La gente è semplicemente troppa e lo spazio troppo poco: per starci non c’è altro modo che stringersi. Stringersi molto.
Ripercorro il vagone e raggiungo Laura, che ha già preso posto. Noi siamo fortunati: per quanto i sedili siano scomodi e angusti, noi abbiamo i posti assegnati. C’è talmente tanta gente che si sposta in treno che, nonostante la rete sia moderna e ben sviluppata, vengono venduti più biglietti di quanti siano i posti a sedere: i cosiddetti posti “in piedi”. Noi abbiamo comprato i biglietti con cinque giorni di anticipo ed erano gli ultimi due sedili rimasti su questo treno. Ci sarebbero i vagoni con le cuccette, o altri con sedili più grandi e reclinabili, ma i posti erano esauriti per settimane.
Seduta di fronte a noi c’è una ragazza che parla un po’ di inglese. Ci offre delle piccole prugne e vuol fare un po’ di conversazione. Siamo gli unici stranieri nel vagone (e forse in tutto il treno) e la gente è curiosa. Molti chiedono alla ragazza da dove veniamo: “Yìdàlì” risponde lei, e quelli annuiscono guardandoci.
Abbiamo tutta la notte davanti. Molte donne hanno comprato un solo biglietto e tengono in braccio i loro bambini. Finiranno col dormire per terra e lasciare il sedile ai figli. C’è gente seduta sul pavimento lungo tutto il corridoio, gente davanti ai bagni, gente sui gradini, gente sulle soglie, gente che dorme in piedi accasciata sui poggiatesta dei sedili.
Ma non uno screzio. Non un litigio. Solo tanta pazienza. Ogni volta che qualcuno deve andare in bagno tutti si svegliano e senza dire beh si alzano, lasciano passare, si risiedono. Lo stesso al passare del carrello dei cibi o ad ogni stazione, quando scendono e salgono i passeggeri con le loro valigie. Quando a scendere è un passeggero che aveva un posto a sedere, le persone usano quel sedile a turni, comunicando i cambi con semplici sguardi.
A me manca un po’ il respiro. Sono seduto tra Laura e una signora con la figlia in braccio; posso appena muovere i piedi di qualche centimetro, incastrato come sono tra le gambe degli altri, i bagagli, la chitarra… E poi le sigarette, anche se il cartello dice che non si può. Certo, le persone vanno a fumare nello spazio tra un vagone e l’altro, ma che differenza fa? L’aria è pesante e non c’è altra soluzione che aspettare con pazienza l’indomani mattina.
Ci sveglia un sole pallido pallido. Una luce grigia illumina il vagone. Il treno entra nella stazione di Anyang alle otto del mattino e la gente ci aiuta a caricarci gli zaini in spalla, ci fa spazio per uscire. Lasciamo loro altri due posti liberi da spartire.
Per prima cosa compriamo il biglietto per Pechino, con largo anticipo, determinati a viaggiare di giorno e su un sedile comodo. Ma tutto ciò che troviamo, dopo un’ora di coda allo sportello, sono due posti come quelli che abbiamo appena lasciato, per un treno che parte quattro giorni dopo.
Leo, il mio collega cinese in Nuova Zelanda, mi aveva descritto la Cina come un paese sovrappopolato, caotico ai limiti dell’invivibile. Lui veniva da Pechino ed evidentemente non era mai stato al Sud. Probabilmente frequentava poco le remote zone di provincia, così come io non sono mai stato in Sardegna o in Basilicata.
Qui ad Anyang, come a Hekou, la tranquillità regna sovrana. Il traffico è più che sostenibile, fatto più che altro di biciclette elettriche, e ogni individuo ha il suo spazio. Non c’è certo da sgomitare per camminare sui marciapiedi o per entrare nei negozi.
Ci rimaniamo cinque giorni, in attesa del treno per Pechino. Trascorriamo il tempo nell’ozio, nella spaziosa stanza del 7 Days Inn o camminando per il quartiere. Stiamo bene: ci sentiamo a nostro agio nella quiete e nei ritmi lenti di una città che non ha motivo di correre.
Mangiamo quasi sempre ravioli al vapore in un ristorante dietro l’angolo: è il nostro organismo che ce lo chiede. Basta schifezze. Basta esperimenti ai suoi danni. La cuoca è molto gentile con noi. Ci lascia sbirciare nelle padelle in modo che possiamo indicare il ripieno che preferiamo: funghi, carne, verdure… perché, ovviamente, qui nessuno parla inglese e noi il cinese non l’abbiamo certo imparato in due settimane.
La gente è curiosa di noi, ancor più di quanto lo siamo noi di loro. L’ultimo giorno di permanenza lasciamo libera la stanza e ci sediamo sui divani della hall, in attesa che sia ora di andare a prendere il treno. Due uomini e una donna si avvicinano, ci guardano, parlano di noi tra loro. Poi si siedono vicino a noi e ci fanno delle domande, ma noi non capiamo niente e glielo diciamo, in un’altra lingua. Quelli allora vanno avanti argomentando qualcosa sul fatto che noi non capiamo niente e via così. Per darci un taglio chiedo a Google di tradurre per me: “Io non capisco il cinese.” Mostro il display del telefono a uno dei due uomini e quello fa capire che non mi devo preoccupare. Ma poi, come se si fosse già dimenticato di quanto ha appena letto, prende in mano il mio cellulare e inizia a farmi altre domande, immagino riguardo a certe funzioni che anche lui vorrebbe avere sul suo enorme smartphone. È imbarazzante e divertente al tempo stesso. Più imbarazzante che divertente a dire il vero. Prendo dalla tasca dei pantaloni il mio taccuino per annotare quanto quella situazione sia imbarazzante e li ritrovo tutti e tre alle mie spalle, a commentare la mia scrittura, così strana ai loro occhi.
Che Leo non dicesse il falso l’avevo capito già alla stazione di Xi’An e sul treno che ci ha portati fin qui. Ma è alla stazione di Pechino capisco esattamente cosa intendeva. Non credo di essere in grado di descrivere la quantità di esseri umani che brulicano, si muovono, si scontrano. Più di un formicaio, più di una miriade. Un puttanaio insomma.
Appena scesi dal treno non possiamo che seguire la fiumana, che rallenta sempre più fino a fermarsi. Ma noi non sappiamo perché: non riusciamo a vedere oltre le centinaia di teste che abbiamo davanti. Lo scopriamo quando viene il nostro turno: non è altro che un ordinario imbottigliamento all’imbocco delle scale del sottopassaggio.
La metropolitana di Pechino è moderna e ben sviluppata: 14 linee, treni ogni 3-4 minuti nelle ore di punta e ottimi collegamenti. Ma non basta per avere la certezza di riuscire a entrare nel vagone.
Questo capita anche a Milano, è vero, anche se non esattamente allo stesso livello. Ciò che a Milano non succede, però, è di trovarsi imbottigliati nei sottopassaggi di raccordo tra una linea e l’altra, di metterci dieci minuti per raggiungere una scala mobile.
Piede sinistro, piede destro. Un centimetro alla volta. Il tale che cammina accanto a me non guarda nemmeno dove va, si lascia portare dalla corrente mentre legge e scrive messaggi sul suo telefono. Probabilmente vive questa scena tutti i giorni. Anche quello accanto a lui ha il telefono in mano, anche quello davanti. Praticamente tutti hanno in mano il cellulare, appoggiato alla schiena della persone che li precede. Sento qualcosa di freddo toccarmi il collo, penso sia un insetto, mi giro di scatto: è quello dietro e mi guarda indispettito. Quasi gli facevo cadere il telefono.
Ci muoviamo tutti in modo meccanico, con lo sguardo altrove. I piccoli passi di centinaia di piedi mi fanno tornare in mente i bambini di Another Brick In The Wall, il video dei Pink Floyd, che alla fine finiscono nel trita-carne. Oppure si ribellano e distruggono tutto.
A Pechino troviamo anche il tempo di fare il nostro dovere di turisti: Muraglia Cinese, Città Proibita e Piazza Tienanmen. Fatto, fatto, fatto.
La stanchezza ha raggiunto livelli mai visti. Bisognerà farci qualcosa, e una mezza idea ce l’abbiamo già. Tenetevi pronti.
Quel pomeriggio di giugno me ne stavo seduto sui gradini d’ingresso del Viet Lotus Hotel a fissare la pioggia. Una pioggia battente che, sul centro di Hanoi come su tutta l’Indocina, avrebbe continuato a scendere per i prossimi tre mesi. Ma non era affar mio, questo lo sapevo: l’indomani Laura e io saremmo partiti in treno per il confine cinese e presto avremmo cambiato latitudine, orizzonte e stagione.
Non so da quanto tempo fossi lì, mi ero semplicemente imbambolato e quasi non sentivo più i clacson e lo sciabordare dell’acqua sotto le ruote dei taxi. Il traffico continuava nel suo solito tenore; la gente mi passava davanti agli occhi nelle mantelle colorate, in bici, a piedi o in motorino. Ma io non vedevo i dettagli, non percepivo ogni passante come un individuo. Vedevo solo macchie liquide di colore.
Una donna camminava lungo il marciapiede dall’altro lato della strada. Non so perché misi a fuoco proprio lei. Procedeva senza schivare le pozzanghere, avvolta nella sua mantella nera. La sua faccia rimaneva nell’ombra del cappuccio e non riuscivo a darle un’età, non potevo dire se fosse bella o brutta. La vidi attraversare la strada proprio all’altezza in cui mi trovavo io, senza guardare a destra o a sinistra. Veniva verso di me e ora potevo vederle il viso: aveva un’espressione che giudicai saccente, di quelle facce che hanno le persone che la sanno lunga e stanno per rivelare, a te che non capisci un cazzo, come gira il mondo.
Mi si parò davanti e io mi sentii subito in imbarazzo. Ero anche irritato per esser stato privato del mio status di osservatore e per il fatto di dover ora partecipare a una qualche conversazione.
“Hello.” dissi.
“Non mi riconosci?” mi rispose in italiano, mentre la sua mantella nera mi gocciolava sui piedi bagnandomi i sandali.
La guardai più attentamente: non mi ricordava proprio nessuno. E poi, pensai, mi sarei ricordato di un’asiatica che parla italiano. Diventai diffidente, come sempre. Pensai che il gestore dell’albergo le avesse detto che ero italiano e che, col pretesto di quella lingua imparata chissà come, avessero ordito un piano per abbindolarmi e derubarmi.
“Non credo che ci conosciamo.” dissi.
“Sicuro che non ci siamo visti prima?”
“Assolutamente sicuro.”
Rimasi in silenzio. Toccava a lei ora: doveva dirmi chi era. Oppure poteva spremersi in un sorriso imbarazzato, se ne era capace, e dirmi che si era sbagliata. Invece avvicinò le labbra al mio orecchio. La sua mantella mi gocciolava addosso, bagnandomi i pantaloni e la maglietta. Mi sussurrò il suo nome.
“Non conosco nessuna Lara” dissi.
Roteò gli occhi verso l’alto, tra il divertito e lo spazientito.
“Non Lara, Lora!”
“Nemmeno.”
“Ma allora sei proprio stupido! L’ora! ELLE-APOSTROFO-ORA.”
Ma certo, l’ora! Sapevo che sarebbe arrivata e adesso che ci pensavo aveva ragione lei: ci eravamo già incrociati. Ma ogni volta avevo trovato un pretesto per evitarla, infilandomi in un negozio all’ultimo momento, attraversando la strada, o cacciando la testa sott’acqua. L’ora di tornare a casa…
Quando la donna sparì (quando tornò a non esistere) rimasi a riflettere. Passai un momento difficile su quel gradino. Mi accorsi che un’ombra si era allungata su di me, silenziosa, senza che me ne fossi accorto. Qualcosa si era rotto, una luce s’era spenta da qualche parte e io non trovavo l’interruttore. Non avevo nemmeno in tasca un fiammifero. Buio.
Iniziai a farmi delle domande, a darmi delle risposte. Non ero andato fin là per ammalarmi di un male che mai in vita mia mi aveva sfiorato. Non avevo attraversato mezzo mondo per sentirmi oppresso come quand’ero un uomo bloccato nel traffico e avevo un orologio al polso.
Immaginate di essere stati a una festa di matrimonio. Avete mangiato e bevuto a volontà, senza badare al portafoglio né al fegato, e ora siete stanchi ma soddisfatti, pronti per tornare alla normalità e ricordarvi di questo giorno magico. Entrate in casa e quando accendete la luce tutti i vostri amici sono lì, con dei cappellini buffi in testa: “Sorpresa!” Vi eravate dimenticati che oggi è anche il vostro compleanno ed è appena cominciata un’altra festa. Intorno a voi c’è musica, c’è da bere e da mangiare, ma voi avete altro per la testa.
È più o meno così che mi sentivo in quel momento. Pensai che sarebbe stato uno spreco continuare ad attraversare paesi e continenti senza riuscire a vedere più niente, senza avere fame.
Tornai dentro e ne parlai con Laura. Anche lei era stanca; aveva raggiunto un livello d’entusiasmo minimo e non aveva certo la forza per risollevare il mio, fisiologicamente più basso. Cercammo di ragionare insieme, mettendo su un piatto della bilancia il nostro progetto (non ufficiale ma nemmeno segreto) di tornare a casa via terra attraversando la Cina, la Mongolia, la Russia, eccetera. Oltre alle infinite traversate c’erano anche da considerare i problemi relativi ai passaporti e ai visti: tutti guai che solo un anno prima avremmo affrontato con spirito d’avventura e che ora ci sembravano solo insormontabili rotture di coglioni. Sull’altro piatto della bilancia ci abbiamo messo la stanchezza e la voglia di essere a casa, tra le nostre cose e i nostri cari. E la voglia di tornare ai nostri progetti, alle migliaia di cantieri aperti con la fantasia negli ultimi due anni alla voce “Quando torneremo…”
Se il nostro viaggio era un cerchio, quel cerchio andava chiuso. Su questo non avevamo dubbi. Forse l’errore era stato pensare di doverlo chiudere sulla carta geografica, mentre bastava farlo nella nostra testa.
Ci abbiamo messo un altro mese a fare di quelle sagge parole un’intenzione, e infine un’azione. Ormai avevamo il visto per la Cina, e la Cina era ciò che avevamo aspettato per tanto tempo. E poi, poteva anche darsi che la Cina stessa ci avrebbe rigenerati, che ci avrebbe ridato le energie e la voglia di farci frullare ancora sugli autobus, di farci stipare nei vagoni di terza classe, di passare notti insonni in stanze troppo calde.
Ma non è successo. A Xi’An, nella lussuosa suite di un ostello (!), il giorno del mio compleanno, abbiamo messo uno stop a tutti i se e a tutti i ma. Abbiamo comprato un biglietto aereo. Per Mosca? Per Berlino? Parigi, Londra, Riga, Helsinki? No. Per Milano. Tutte le altre sarebbero state inutili consolazioni simboliche di cui non avevamo più bisogno. Tanto valeva avere il coraggio di tornare, così come avevamo avuto quello di partire. Appena la compagnia aerea ha confermato l’ordine via e-mail abbiamo iniziato a ridere come due scemi. Due scemi contenti.
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