L’incontro con il ‘blues’ del Mississipi

di Fernando Petrone –
Ho ascoltato venticinque anni or sono
un autentico bluesman sulle rive del Mississippi:
vivo è quel ricordo talché mi sembra appena ieri
Debbo confessare che io ho sempre amato il ‘blues’ fin da giovane di una vera e propria passione. Passione che ho nutrito per questa che, tutto sommato, non è altro che una musica profondamente malinconica nel più assoluto senso della parola. Ma il ‘blues’ è anche, proprio per quella sua accorata e struggente malinconia, una musica che esalta i contrasti essendo nel contempo dolce e amara, ritmica e suadente, appassionata ed appassionante, pur essendo molto semplice nella sua struttura. E questa semplicità le deriva proprio dall’essere il ‘blues’ una musica dalla strumentazione quanto mai elementare e limitata perché è musica nata, sviluppata e proveniente dai ceti più poveri di quella negletta società americana del profondo Sud la quale non aveva certo conoscenza alcuna né delle composizioni infinitamente possibili con le sette note, né della tecnica del pentagramma, né della fondamentale importanza del contrappunto. Ma essa è, per contro, una musica dove alla voce non sono mai stati posti limiti alcuno di ampiezza o d’altro tipo per cui, se questa è dispiegata al massimo oppure è dolcemente sussurrata, riesce ad avvincerti e a coinvolgerti, estasiandoti fino a farti dimenticare tutto ciò che ti sta d’intorno per poi definitivamente rapirti e trasportarti lontano….., molto ma molto lontano e per di più, proprio quel che in definitiva è la sua più strabiliante caratteristica, senza mai sapere dove….. Musica che è propria di uno strumento-voce impiegato in un modo del tutto spontaneo e assai frequentemente estemporaneo e che resta nel suo insieme il patrimonio inestimabile di un popolo che da sempre si è nutrito del dolore, della disperazione, della miseria, della emarginazione, senza mai porsene un limite.

Per tutti questi motivi, dunque, grande musica è il ‘blues’ che sicuramente inebria senza che tu, anche sol che lo volessi, possa in qualche modo sottrartene….. E, tutto sommato, sarebbe poi oltretutto assai difficile, se non impossibile, il poterlo fare…..

Per coerenza, però, debbo sinceramente confessare che io credevo di sapere molto, se non proprio tutto, del ‘blues’. E questa convinzione si è perpetuata fino a che non ho preso la decisione, poi rivelatasi quanto mai saggia, di venire una buona volta qui nel profondo Sud, proprio nella Luisiana che è quella mitica terra che ha dato i natali al ‘dixieland’. Ed ho avuto occasione di farlo a metà degli Anni Ottanta, proprio durante lo svolgimento del suo noto festival del jazz che qui, a New Orleans City, ogni anno si celebra fedelmente con grandissimi risultati sia in fatto di pubblico che in fatto di artisti-interpreti e di artisti-compositori, sia in tema di nuove proposte musicali. Non me ne sono mai pentito, anche perché mi è capitato di compiere un suggestivo soggiorno di dieci meravigliosi giorni, volati in un batti-baleno. Sosta che è stata di molto originale e veramente indimenticabile, trascorsa al fianco di quel lento e maestoso scorrere del Grande Fiume, il Mississippi, cioè proprio di quel mitico ‘Old River’ che da sempre è cantato e da sempre è personificato negli struggenti cori pieni di nostalgia e di dolorosi e sofferti ricordi della gente nera. Ho sostato infatti a lungo tra quelle anse ora sinuose ed ora contorte, estraniandomi, rapito dalla eccezionalità del posto, da tutto e da tutti rimanendo in silenzio in prossimità delle sue silenziose e nel contempo ammalianti rive, ampie e molto spesso sonnolente. Ho anche sostato a lungo in prossimità dei bordi dei mille e mille canali di quel suo vastissimo ed intricato delta. Mi sono infine immerso a lungo nel profondo ed attonito silenzio dello smisurato Lago Pontchartrain nel quale si specchiavano le tante barche che si muovevano lentamente e con dolcezza infinita sulla sua superficie talché sembravano volerla accarezzare con delicatezza smisurata e sensuale proprio come sogliono fare tutte le amanti di questo mondo.

Ed infatti non mi sono mai pentito d’esser venuto qui, in Luisiana, perché proprio qui e solo qui ho potuto ‘vivere’ nel vero senso della parola il Mississippi navigandolo al suono suadente di un incantato sax o di un dolcissimo banjo su quei grandi e nostalgici battelli a ruota, sbuffanti e asmatici che a momenti percorrono la sua mediana linea d’acqua lontano dalle due sponde verdissime e che da sempre si fronteggiano e a momenti invece rasentano quelle stesse sponde che sempre appaiono sonnolente, fra di loro distanti alcune centinaia di metri, talora dall’aspetto quanto mai maestoso ed incredibilmente immerse in un attonito silenzio senza fine, talché a momenti sembra avere lo strano sapore, misteriosamente suggestivo, del sacro e di convincerti di trovartici addirittura al suo cospetto…..
E fu allora -e solamente allora qui sostando- che mi accorsi di essere stato fino a quel momento un vero e proprio millantatore ogni volta che, con molto sussiego, ritenevo di parlare da vero competente del ‘blues’ e dei suoi ‘black-bluesmen’. Sì, proprio un vero millantatore perché ho potuto constatare ‘de visu’ e toccare con mano la realtà che nulla o quasi nulla io conoscevo di questa ‘arte’ musicale dolce e poverissima. O, meglio, della vera ‘anima’ del ‘blues’ la quale, in definitiva, non è altro che la autentica, unica ed infinitamente triste anima ‘nera’. Ovvero ancora, come figuratamente e saggiamente tutti dicono da queste parti, quella che è ‘l’anima del Mississippi’….. Quell’anima che, nella sconfinata area verde della ampia foce dell’Old River, aleggia sempre, ovunque e su tutto….. Certo, non puoi ‘vederla’ perché non ha contorni tangibili, però essa c’è perché la senti tutto all’intorno….. c’è perché ti ‘fascia’ come guaina serrata….. c’è perché la respiri insieme all’aria vitale…..



Me ne accorsi e lo capii allorché ebbi la ventura meravigliosa e assolutamente indimenticabile, e purtroppo per miei attuali motivi anagrafici forse in avvenire irripetibile, di udire dal vivo (ed era quella per me in assoluto la prima volta) un vero ‘bluesman’, nero come l’ebano, dal viso ‘antico’ perché era inciso da mille rughe profonde e sul quale si stagliava una smagliante dentatura bianca. Bianchissima come l’avorio…. Un uomo nero che, sicuramente, era assai carico di anni e senz’altro anche di ricordi….. di tanti ricordi, infiniti e di ogni specie. Quell’uomo teneva fra le labbra un corto mozzicone sempre spento e forse anche puzzolente di vecchio ed acre tabacco. Quel mozzicone comunque se ne rimaneva con pervicacia appiccicato ad un angolo della bocca. All’angolo di destra, mi pare….. Però debbo dire che suonava come un ‘dio’. Avrà avuto ottanta o novanta anni. Chissà….. Ma forse, a ben guardarlo e a ben pensarci, anche cento..… Sono volti, quelli, senza tempo ma che nel tempo sono eternamente stagliati….. Sì!, direi proprio cento….. Pensate: un secolo, quasi una ‘piccola’ eternità…..
Quell’uomo dalla pelle nera e lucida era taciturno ed era senza una apparente espressione su quel suo volto scarno che appariva come ricoperto da una vera e propria ‘antica patina’. E quella patina, in definitiva, non era altro che la inesorabile patina livellatrice del tempo. Sì!….., proprio quella patina che si accumula, tutto ricoprendo e talora anche nascondendo non solo sulla pelle d’ogni essere vivente, ma anche su tutte le cose di questo mondo, perché depositatavi dall’azione di un tempo lunghissimo e già ineluttabilmente trascorso e che continua ancora inarrestabilmente a scorrere…..

Quel nero dall’antica pelle era il ‘bluesman’ del cartellone di quella sera ed era il ‘clou’ del programma. Strano tipo: appariva, al primo vederlo, del tutto ‘assente’, come trasognato e tutto quello che si muoveva a lui d’intorno sembrava non interessarlo, quasi che egli, estraniato da ogni cosa terrena, stesse addirittura vivendo un’altra vita, proprio come se fosse misteriosamente immerso in un altro mondo. Ma in un mondo che era per te, per me, per noi astanti tutti, assolutamente estraneo ma che invece per lui era ben presente, reale, tangibile. Ed in sostanza era un mondo del tutto particolare destinato a non interessare alcuno, perché solo a lui noto e perché solo a lui strettamente riservato…..
Terminava nel frattempo la brillante esibizione strumentale di un giovane ed affiatato trio di colore (pianoforte, sax baritono e basso) che aveva con i suoi elettrizzanti virtuosismi riscaldato al punto ‘giusto’ l’insieme degli astanti. Tutto quel composito ambiente in ascolto, ma anche in trepida attesa, era formato da un ‘mix’ di persone strano ed eterogeneo sia perché composto di ragazzi adolescenti, di giovani, di adulti e di vecchi e sia perché ‘pluri-colorato’ per la presenza di bianchi, di mulatti e di neri. E tutti se ne stavano pazientemente lì, nessuno escluso, uno a fianco dell’altro, seduti gomito a gomito. Ed io e mia moglie con loro, in mezzo a loro.
Ad un tratto quel taciturno ‘bluesman’ sembrò finalmente risvegliarsi d’improvviso perché era giunto alfine il suo turno. E fu così che emerse da quel suo strano letargo in maniera veramente curiosa: lo vedemmo infatti muoversi in una strana maniera, e apparentemente senza fretta alcuna, da quel suo appartato angolo posto nel fondo della sala, proprio là dove era rimasto relegato fino ad allora del tutto solo, immobile ed immerso in un silenzio assoluto. Con quel caratteristico passo lento, trascinato e un po’ dinoccolato, che è tipico di ogni vecchio uomo nero magro ed asciutto, si avviò, come fosse profondamente assorto in chissà quali pensieri o preso da misteriose preoccupazioni, verso la scolorita pedana di legno che era posta proprio al centro di uno di quei tanti caratteristici ‘juke joint’ che fiancheggiano le maestose ed ombrose rive del Mississippi. E quel vecchio ‘juke joint’, nel quale ci trovavamo noi tutti in quella sera e che molto difficilmente potrò dimenticare, era situato proprio dentro il cuore e l’animo del mitico, storico e affascinante Quartiere Francese di New Orleans City, a due passi dalla storica Bourbon Street.
Dicevo che quell’ossuto suonatore nero, dalla faccia solcata, o per meglio dire incisa, da profondissime rughe, attraversava quella ‘antica’ sala comportandosi proprio come se questa fosse un solenne e colossale proscenio. Ed infatti quel nero ‘bluesman’ sembrava del tutto incurante di tutti quei calorosi battimani e di tutti i penetranti e sonori fischi di incoraggiamento dei tanti ‘fan’ presenti (‘fan’ suoi o ‘fan’ del blues?…..) colà convenuti in grandissimo numero. Cosicché, a prima vista, quel vecchio nero offriva agli astanti tutti, ovviamente anche me compreso, quella impressione, per il vero assai fallace come poi ebbe a dimostrarsi, che non fosse affatto un suo preciso compito il dover suonare su quella pedana e che egli comunque si accingesse a farlo quasi per forza, o, forse, solamente per assolvere all’obbligatorio rispetto di un contratto già da qualche giorno sottoscritto o, forse ancor più prosaicamente, per poter intascare alla fine di quel suo ‘lavoro’, più o meno dignitosamente svolto, quella somma di denaro, sicuramente modesta, che era stata a suo tempo pattuita da lui stesso o forse da uno di quei tanti voraci impresari che in numerose schiere ruotano come falchi insaziabili attorno al mondo dello spettacolo.

Nel suo procedere attraverso quella sala, la chitarra, portata con noncuranza a tracolla, gli pendeva ad un fianco del corpo come fosse per lui, benché se ne fosse poi dimostrato un suonatore provetto, una cosa del tutto estranea, se non addirittura fastidiosa, anziché l’indispensabile ‘strumento’ di lavoro. Il pubblico invece se ne stava lì, con il fondo schiena incollato alle sue sedie, impaziente e rumoroso: fremeva intensamente preso dalla attesa morbosa, direi quasi spasmodica, di poter udire finalmente le prime note. Ed io con gli altri…..
Io non conoscevo chi fosse quello strano suonatore nero, ma i tanti ‘fan’ no. Era per loro un volto noto: lo chiamavano infatti a gran voce, urlandone e scandendone ritmicamente il nome con il battito sia delle mani che dei piedi sull’antico impiantito di legno di quel vecchio ‘juke joint’ i cui assi, consunti dal tempo e dal continuo calpestio, ne ingigantivano il rimbombare:
“Mu-ddy….. Mu-ddy….. Mu-ddy…..”.
E fu allora, proprio in quel preciso momento, che mi folgorò improvvisa un’idea: era forse quegli il grande Muddy Waters, nato in una miserrima e lercia baracca della sconosciuta Issaquena sita qui vicino, proprio nel profondo Sud del Mississippi, e cresciuto poi in un’altra altrettanto miserrima e lercia baracca del villaggio di Stovall nel bel mezzo di una vasta piantagione di cotone dove cantò i suoi primi ‘blues’ pregni di quell’accorato sapore che è proprio del vivo dolore dell’animo, accompagnandosi con una povera chitarra per assurgere infine, dopo aver tentato per sopravvivere anche il contrabbando del whisky, ai trionfi di Chicago, proprio di quella grande città che oggi è divenuta una immensa metropoli, una delle più smisurate d’America dai confini che si perdono a vista d’occhio e che ebbe ad incoronarlo come l’incontrastato e grande re del blues e dove con il progredire della tecnologia si era definitivamente convertito all’irruente suono della chitarra elettrica?….. Mah!….. Ebbi una gran vergogna a doverlo chiedere a chi mi stava vicino: non osai farlo perché temevo proprio di fare una gran brutta figura, per cui non lo seppi mai. E poi ne fui trattenuto anche dal sorgermi, subito dopo, un altro dubbio: ma Muddy Waters ‘il Grande’ non era forse all’epoca già morto?…..
Comunque quel Muddy, il nero Muddy famoso o sconosciuto che fosse, salì alfine sulla pedana dopo essersi trascinato attraverso quella sala gremita e che viveva una spasmodica attesa, fremente e satura di emozioni che, a mille, lievitavano gonfiandosi di momento in momento. Ed il Muddy lo fece molto pigramente e con estrema lentezza, proprio come se si stesse avviando con grande rassegnazione verso un patibolo: non sembrava proprio che partecipasse a tutto quel clamore ed appariva addirittura come sordo ad ogni richiamo. Chissà,….. forse era anche un po’ seccato. Quel corto mozzicone, che un istante prima era con insistente pervicacia appiccicato alla mucosa di entrambe le sue labbra, ora invece gli pendeva sempre da un angolo della bocca, ancora il destro, senza però mai caderne, come se una attrazione magnetica lo mantenesse aderente alla spessa mucosa del solo labbro inferiore tumido e un po’ sporgente. Labbro, questo, che è tipico di chi per anni ed anni ha sempre soffiato alla morte nella tromba, così come dai tempi dei tempi fanno i mitici soffiatori di vetro che lavorano sulle strette stradine della Medina del Cairo o di Fès, fino a rimanerne ogni volta senza fiato.
Alzò quel ‘bluesman’ il suo volto verso le tante file di sedie allineate al suo cospetto, proprio di fronte a quella pedana sulla quale era salito qualche istante prima trascinandosi la sua chitarra: erano tutte occupate e parve meravigliarsi che tutta quella gente non aspettasse altro che lui. Io, là per là, arrivai persino a pensare che quel Muddy fosse uno di quei tanti suonatori neri ormai definitivamente ‘cotti’ i quali vagano di locale in locale proprio come anime in pena, tra un boccale di birra ed un sorso di whisky, solo per sbarcare alla meglio il loro modesto lunario impegnandosi per pochi ‘coins’ nei numerosi ‘juke joints’ di New Orleans City. Forse non era neanche abbastanza onusto di antica fama tanto da non essersi potuto sedere neppure per una sola volta, di sera, alla nobile ‘Preservation Hall’, ovvero in quel mitico tempio consacrato al culto del jazz, già dichiarato dal Governo monumento nazionale, e dove gli artisti di colore si esibiscono solo per donare a sé e agli altri la indicibile soddisfazione alla loro grande passione verso il jazz stesso e con l’unico intento di mantenere viva la gloriosa tradizione musicale della vecchia e maliarda New Orleans. E dire che io, consigliato nella scelta della serata proprio dal distinto portiere del mio albergo, anch’esso ovviamente nero e che mi era sembrato essere assai competente in materia, ero entrato in quel preciso locale del vecchio Quartiere Francese perché convinto che proprio là avrei potuto sicuramente udire e godere fino in fondo l’essenza inebriante del vero ‘blues’, proprio di quello ‘mitico’ del quale tanto si parla qui in Europa…..
Ma quando quel Muddy, ‘il nero’ e dinoccolato Muddy, dopo avere distrattamente gettato uno sguardo, che all’apparenza sembrava essere assolutamente indifferente, sulle tante teste di tutta quella folla che stava vivendo un vero e proprio delirio per via di quei tanti ‘fan’ che lì sedevano frementi immersi in una attesa spasmodica -delirio frenetico che sembrava essere addirittura senza fine- afferrò la sua fedele chitarra, quella espressione assente che fino ad allora era rimasta costantemente dipinta sul suo rugoso volto di ebano, ad un tratto scomparve: e fu così che, di colpo, gli si accesero gli occhi, mentre le rughe sembrarono spianarsi d’improvviso e scomparire del tutto e il sorriso farsi subito smagliante e comunicativo. In quel momento su quella antica pedana di legno era, quegli, un altro Muddy.

Eh, sì!….. in quel momento egli impersonava quasi certamente il Muddy d’altri tempi, quello dei suoi venti o trenta anni. Era insomma, in quel momento, un uomo nero che si accingeva a ripercorrere a ritroso tutta la sua lunga vita di autentico e vero ‘bluesman’ cosparsa di dolore, di umiliazioni, di sopraffazioni. La mano, scarna ma nervosa, sfiorava con sapiente maestria le corde della sua fedele chitarra toccandole divinamente con i polpastrelli di quelle sue lunghe dita, magre ed ossute, che si muovevano in maniera sorprendentemente agile.
In pochi minuti una cascata di note, ma no, che dico!….. una vera e propria valanga inarrestabile di note melanconiche e dolci, lente e strascicate, ritmiche e penetranti, melodiose e suadenti volarono sulla testa di tutti noi colà presenti, ce ne fasciarono poi il corpo, scesero nel fondo del nostro animo, penetrarono nel cuore d’ognuno di noi fino a straripare e riempire addirittura tutto lo ‘juke joint’, anche il suo più recondito angolo, il quale, nel frattempo, appariva come completamente impazzito. E quella inarrestabile valanga di note fu in grado di trasportare come per magia arcana gli astanti tutti, nessuno escluso, lungo le rive maestose dell’Old River, proprio là dove il popolo negletto degli schiavi dalla disprezzata pelle nera di quelle smisurate piantagioni di cotone ai tempi vergognosi della tratta umana si spezzava schiena, braccia e gambe per la fatica disumana e dove ognuno di quegli sfortunatissimi individui, profondamente ferito nell’animo e nel morale, consumava ogni suo muscolo, anche il più piccolo e fino al suo più completo esaurimento, in quel massacrante diuturno ed incessante lavoro, annegando poi dolore ricordi e sfinimento nel falso ‘nirvana’ dell’alcool distruttore.
La voce sensuale e roca di Muddy, roca come del resto è quella della quasi totalità dei vecchi ‘black-bluesmen’, raccontava, con gli occhi mantenuti costantemente fissi verso un punto lontano che era sicuramente fuori da quel locale dove tutti noi ci trovavamo e che egli solo era certamente in grado di ‘vedere’, di storie antiche e dolorose, di incontri felici ed inebrianti con l’altro sesso, di violenti giochi d’azzardo con i dadi che spesso sfociavano nella rissa più brutale, di canti melodiosi e di nenie dalla monotonia esasperante, di sanguinosi scontri, di invocazioni ora disperate ora fiduciose a Dio, di lente ma ritmiche e cadenzate marce funebri suonate in ricordo di chi, amico o semplice conoscente, era trapassato nell’Aldilà, approdando fiducioso ad un’altra vita senz’altro migliore di quella fino ad allora così duramente vissuta in terra…..
La voce di Muddy ‘il nero’ era affascinante e del pari affascinante era la struggente narrazione che andava via via facendo, accompagnato dal suono dolce di quella sua fedele chitarra le cui corde venivano ‘pizzicate’ da quelle lunghe e ossute dita con una elegante leggerezza che proprio non mi sarei mai aspettato di vedere. Sembrava proprio di assistere, come proiettata su una grande parete bianca e immacolata, tutto lo svolgersi di un lungo e appassionante film il quale era accompagnato da una meravigliosa colonna sonora che faceva da commento….. Film che appariva surreale ed irreale….. Film che, tuttavia, era pienamente corrispondente alla realtà perché sapeva parlare in maniera efficace ai presenti di storie vere e di vicende tristi con tanto dolore vissute in prima persona e con profondissima angoscia, fino allo ‘strazio’ dell’anima…..
E i numerosi ‘fans’ all’unisono, proprio come se rispondessero ad un unico comando, rompevano di colpo quell’estasiato silenzio con i loro applausi scroscianti e con le loro intense salve di fischi brevi e penetranti, per fare poi, subito dopo, posto ad un profondo ed assorto silenzio di attonita attesa, di un silenzio che fisicamente riempiva, senza rinvio di eco alcuna, quell’ambiente per altro affollato all’inverosimile. E così ebbe a ripetersi quella scena di minuto in minuto ed ogni volta sempre uguale a se stessa perché senza alcuna variazione fino al termine di quel meraviglioso recital, protrattosi per oltre un’ora buona, ma che a me sembrò, proprio per l’affascinante modo con il quale mi aveva ‘rapito’, essere durato solo il brevissimo spazio di un momento. E fu a quel punto, proprio quando l’eco dell’ultima nota ebbe definitivamente a spengersi nell’aria ancora attonita, che il decrepito soffitto di quell’antico e storico ‘juke joint’ del vecchio Quartiere Francese di New Orleans City di colpo sembrò voler crollare…..Era quella la conclusione vibrante dell’affascinante recital.
Sì!, è vero e non esagero. Sembrò proprio volessero crollare le antiche volte a crociera in mattoni rossi del vecchio soffitto a causa della caldissima intensità di quei frenetici applausi che si diffondevano ‘a cascata’, assordanti e scroscianti, nonché di tutti quei calorosi fischi di un assai sentito e spontaneo entusiasmo prolungati, decisamente penetranti e non più contenuti…..
E Muddy, ‘il nero’ ossuto e dinoccolato, al termine di quel suo recital veramente sublime, si alzò con molta flemma, proprio come se nulla fosse avvenuto e rivoltosi al folto pubblico, attento ed ancora preda di quel suo delirio, folle e senza fine, pronunciò, o meglio, sussurrò un assai timido “tank you…..”, ripetuto più volte: “tank you…..tank you.…. tank you…..”, accompagnandolo con l’accenno di un inchino appena abbozzato ed all’apparenza molto imbarazzato, ma comunque molto rispettoso verso il pubblico e certamente non servile.
E fu così che Muddy ‘il nero’, ricomparse che furono le profonde rughe sul suo volto di colpo nuovamente invecchiato, abbandonò alla fine quella pedana di legno, scolorita e consumata dal continuo scalpiccio e dall’inveterato uso, e fece per avviarsi con quei suoi lenti passi sempre trascinati, proprio come fossero quelli di una persona estremamente stanca, verso il fondo della sala gremita all’inverosimile. Silenziosamente, come del resto silenziosamente era entrato in quella sala, si allontanò trascinandosi dietro, sempre appesa al fianco, la sua fedele chitarra per poi definitivamente scomparire alla vista d’ognuno di noi, dopo un ultimo cortese ma solo all’apparenza imbarazzato inchino, come i precedenti appena accennato. Si infilò e scomparve dietro una consunta porta di legno che aveva, sì, una brillante maniglia di lucido ottone forse perché recentemente sostituita, ma che era per il resto del tutta scrostata a causa del suo uso chissà da quando ininterrottamente protrattosi durante il lungo ed inarrestabile incedere del tempo sul maestoso ‘vecchio’ Mississippi…..
Nessuno sfollò.

Tutto il composito pubblico, appassionato ed ancora intensamente fremente per quella ‘performance’, superba indimenticabile e assolutamente coinvolgente del nero Muddy, sembrava non volersi decidere ad abbandonare la sala di quell’antico ‘juke joint’ del vecchio Quartiere Francese di New Orleans City. Rimanevano tutti ancora in preda a quel loro vivo delirio collettivo….. E così tutti i convenuti se ne stavano lì, io compreso, assolutamente immobili, dando così la curiosa impressione che si volesse fiduciosamente rimanere, sprofondandovi, in una sospirata attesa di chissà mai che cosa, mentre nell’aria di quell’ambiente, che era rimasta ancora calda ed attonita, aleggiavano le ultime note della chitarra e gli ultimi echi suadenti della voce espressiva e un po’ roca di Muddy ‘il nero’, ossuto e segaligno, dal volto d’ebano che era un po’ ieratico e un po’ antico, solcato dalle profondissime rughe del tempo…..
Ed io, che credevo con sussiego fino a quella sera di sapere tutto o quasi tutto del ‘blues’, mi accorsi che non era così. Era bastato uno struggente ‘recital’, proprio quello di Muddy ‘il nero’ ascoltato in uno di quei caratteristici ‘juke-joint’ del vecchio Quartiere Francese di New Orleans City, per rivelarmelo.
Ed è vero, anzi verissimo: bisogna proprio venire quaggiù negli ‘States’ del profondo Sud, proprio qui nella Louisiana o nel Missouri o nel Mississippi e tuffarsi liberamente in quelle loro grandi città-megalopoli dove oggi a grandissima maggioranza vivono uomini e donne di colore. Quegli uomini e quelle donne tutti eredi diretti e legittimi di quegli innumerevoli schiavi, il cui numero esatto mai si conobbe, i quali furono brutalmente stuprati nel fisico prima e nella volontà poi e che infine vennero strappati impietosamente e a viva forza dai loro numerosi natii villaggi posti a ridosso della lontana costa atlantica dell’Africa, tutti penosamente ammassati come ‘inerti cose qualunque’ in quei tuguri osceni ed aberranti per essere sottoposti alla umiliante ‘conta’ e poi, spesso dopo la dolorosa ‘marcatura’ a fuoco come fossero dei capi di bestiame, caricati come merce senza valore su quei luridi vascelli della vergogna i quali facevano la spola ininterrotta, miserabile e triste con il Nuovo Mondo, per capire il ‘blues’.
Si!, perché il ‘blues’ deve essere ‘vissuto in loco’.
Disse John Hurt, uno dei più grandi ‘black-bluesman’ di tutti i tempi, ormai quasi centenario e soprannominato molto appropriatamente dai suoi concittadini ‘Mississippi’:
-“ Il vero blues è nelle bettole. Portate i vostri c..… nel Mississippi prima che sparisca definitivamente l’ultima bettola“- (Quel c….. di riferimento è ovviamente indirizzato al ‘fondo-schiena’ della gente, mentre con la parola non proprio delicata di ‘bettola’ egli intendeva sostituire il nome un po’ più gentile di ‘juke joint’).
E tutto questo è quanto mai vero. Il ‘blues’, quello indiscutibilmente vero, non è nei dischi, o nelle cassette, o nei ‘CD’. Non lo è neanche ‘SUL’ Mississippi….. Perché il vero ‘blues’, quello autentico che, inarrestabile, sgorga dall’anima della gente nera è ‘NEL’ Mississippi ed è da queste rive maestose trasportato poi con tanta malinconia proprio dalle acque dolci e tristi del maestoso Old River per essere diffuso nell’aria, nelle case, nei cortili e fino nell’intimo dell’animo della gente di colore. Dappertutto….. Perché il vero, l’autentico ‘blues’ è solo quello che, a suo tempo, si è spontaneamente diffuso, per divenire successivamente animo dolente prima e chiaro messaggio sociale poi, partendo proprio da quelle misere baracche di cartone pressato e malamente ricoperte da un infuocato tetto di vecchia lamiera molto spesso arrugginita e cadente, dove la domenica e nelle altre feste comandate tutti i miseri lavoratori delle vaste piantagioni di cotone, terminato l’ascolto della parola del Pastore, si cercavano l’uno con l’altro al termine del rito religioso e potevano così riunirsi fra di loro, affratellati in solidali gruppi per non sentirsi alfine sconsolatamente soli, ma sentirsi invece un po’ padroni del loro tempo, per cantare in cori struggenti, per ballare, per giocare a dadi che era l’unico gioco loro permesso dal padrone bianco, per pregare Iddio Misericordioso, per dimenticare le loro pene senza termine ed infine, a sera, per chiudere tristemente la loro squallida giornata, sempre misera, ubriacandosi con i peggiori whisky d’America, quelli da pochissimi centesimi la fiasca, o con le peggiori pinte di rhum che non era certamente quello originario della Giamaica, intensamente profumato ed elegantemente imbottigliato, perché fabbricati esclusivamente solo per loro dai tanti equivoci e loschi commercianti, tutti famelici proprietari di quelle numerose ed illegali raffinerie, altrettanto equivoche, le quali erano, in definitiva, delle vere e proprie fabbriche di morte…..
E da quei canti tristi e dolorosi è nato il ‘blues’…..
R.L. Burnside, un altro grande ‘bluesman’ anch’egli nero, diceva convinto che per interpretare veramente il ‘blues’ bisogna saperlo suonare soprattutto con il cuore perché solo così la gente che ascolta riuscirà a percepire appieno tutto quello che sente e che trasmette chi lo canta e lo suona. Ed aggiungeva poi, con una malcelata punta di orgoglio che non ammetteva repliche, per chiudere definitivamente il discorso:
-“” Il ritmo e le progressioni li decido io di volta in volta in base al mio umore del momento e la gente, se sa ascoltare, deve essere in grado di poter sentire il ‘mio’ umore “”-.
Scrive Art Tipaldi, uno dei più grandi e valenti ‘bluesmen’ dalla carnagione bianco-olivastra che sia mai esistito e, in aggiunta, con un misto di sangue forse mediterraneo nelle vene, e divenuto famoso grazie ai tanti preziosi consigli del suo grande amico e suo unico e vero maestro R.L. Burnside il quale infondendogli tutto il necessario ed indispensabile coraggio gli insegnò a suonare e a interpretare il ‘blues’ nelle tante ed affollate bettole che sorgono lungo l’ammaliante scorrere del Mississippi e che sono sempre sature di fumo e sempre pregne dei più disparati odori:
-“”E’ questo l’unico consiglio che io mi sento di dare ad ogni ‘fan’ che voglia considerarsi un vero appassionato di questa musica struggente la quale scende direttamente al cuore: per essere certi di captare tutta l’essenza del ‘blues’ bisogna viverlo nella forma più pura, il Mississippi””-
. Il grande Ray Charles, il famoso cantante non vedente recentemente scomparso e che seppe dare alla sua melodica voce l’amaro sapore del dolore inenarrabile e il deprimente colore della disperazione affatto mitigato da alcuna punta del verde di speranza, ha giustamente definito il ‘blues’ uno stato d’animo, sostenendo con tutte le sue forze che solamente un uomo nero può ‘avere i blues nelle vene’, perché questi gli derivano tutti dalla ancestrale e lontana sua terra d’Africa. E questo, a titolo di chiarificazione, proprio perché -ed egli con forza lo andava sempre sostenendo- il ‘blues’ è il figlio legittimo e diretto della profonda tristezza di quella autentica anima nera che è stata vergognosamente strappata dalle sue radici e ridotta alla condizione umana in assoluto la più umiliante, ovvero quella della schiavitù.

E per concludere, un critico musicale di un nostro quotidiano (e, per quanti di quegli sforzi di memoria io vada inutilmente da tempo sempre facendo, non riesco proprio a ricordare chi fosse, né quando e su quali colonne lo avessi mai letto) ebbe giustamente a scrivere che il vero ‘blues’ è solamente quello che è pienamente e perfettamente in grado di trasmettere, sempre e comunque, la genuina emozione del momento. Se questa comunicazione manca -ed egli certamente ci credeva visto che lo scriveva con una convinzione veramente incrollabile- vuol dire che, malgrado l’attentissimo ascolto che ognuno di noi potrà prestare, non ci si troverà mai di fronte ad un autentico ‘blues’ nero, spontaneo, dolce e soprattutto diffusamente velato di quella sua particolare, profonda ed inimitabile tristezza…..
…..proprio di quella ‘tristezza’, che è la più intensa nonché la più inimitabile perché profondamente unica, che Muddy, quell’ossuto, segaligno e malinconico ‘black-bluesman’ dall’antico volto inciso dalle profonde rughe del suo tempo irrimediabilmente trascorso e che portava sulle sue spalle l’oneroso peso del nome Muddy Waters, il più grande ‘bluesman’ di tutti i tempi e suo omonimo, mi aveva mirabilmente trasmesso, proprio là, in quell’affollato e caratteristico ‘juke joint’, sicuramente uno degli ultimi rimasti ancora in attività nello storico e vecchio Quartiere Francese della ’pazza’ New Orleans City, in una indimenticabile e calda serata di fine autunno, mentre un po’ più lontano da lì l’Old River, maestoso, sonnolento e taciturno, continuava senza interruzione la sua corsa pigra e lenta verso l’immensità stupefacente del ‘suo’ Oceano dove avrebbe poi scaricato non solo tutte le acque raccolte durante il suo lunghissimo viaggio attraverso gli immensi territori degli ‘States’, ma anche tutto quel dolore, amaro e senza fine, della gente nera che nelle vaste ed assolate piantagioni del profondo Sud nordamericano ha subito e sofferto, dietro l’imposto pagamento di un assurdo prezzo, quanto mai crudele ed esoso perché costituito dall’estremo schianto del suo fisico piegato e del suo animo affranto ed umiliato, gli anni più belli della sua vita, quegli anni che crudelmente nessuno, purtroppo, le ha mai più restituito.
Corsa antica come quel tempo, assai lungo, che è trascorso dal momento sublime in cui, per volere di Chi tutto regola, è avvenuta la creazione della fascinosa Luisiana…..

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