di Gabriella e Roberto –
L’Alaska ti entra dentro come l’Africa. Se nel continente africano il colore dominante è il rosso e arancio della terra, dei tramonti, del paesaggio bruciato dal sole, qui è il bianco-azzurro dei ghiacciai che, appena il cielo si apre, sono tutt’intorno a noi, il verde inteso e da mille sfumature della vegetazione. Ma anche il grigio delle nubi, la pioggerellina che va e viene e il sole, che quando esce accende tutto quello che ti sta intorno.
In entrambi i casi, Africa ed Alaska, quello che davvero impressiona è la vastità degli spazi. Strade deserte che si insinuano nella natura dove se incroci tre auto già puoi dire di essere nel traffico.
L’Alaska, ci è entrata dentro. Ogni tanto ce la guardiamo attraverso le webcam in rete. Da ottobre Anchorage è già sotto la neve, mentre scriviamo queste note è inverno e a Kenai la minima è a – 20.
Perché siamo qui?
Volevamo andare sul Mare di Bering, volevamo andare a Dutch Harbor sulle isole Aleutine da dove partono le imbarcazioni per la pesca dei granchi reali viste su Discovery Channel, ma l’organizzazione era troppo complessa e i costi troppo alti. Siamo quindi rimasti in Alaska, the Last Frontier. In un certo senso le scelte possibili, almeno per noi che avevamo solo una settimana, sono tra terra e oceano. La terra a nord, con Fairbanks e il parco Denali, in qualche modo sulle orme di Into the Wilde e di Zanna bianca di Jack London e l’oceano a sud con la Kenai Peninsula e i suoi ghiacciai. Quest’ultima è stata la nostra scelta.
Alaska is something you have under your skin.
Con Viki la proprietaria del B&B di Anchorage scambiamo qualche parola su questo posto da ultima frontiera. Ci dice che molti se ne vanno alla ricerca di un luogo meno estremo. Ma fra chi se ne va, ce ne sono molti che ritornano perché, dice, Alaska is something you have under your skin. L’Alaska è qualcosa che hai dentro la pelle. Il clima è senz’altro estremo, sei mesi e più di neve all’anno con temperature a meno venti, meno trenta gradi. “Ma non è questa la parte più dura” ci dice Viki. Al freddo ci si abitua, la neve porta lo sci, grande passione della gente di qui. La cosa alla quale davvero non ci si abitua è il buio. Sei mesi di oscurità quasi totale con tre, quattro ore di luce al giorno. Quando sente che la depressione si prende troppo spazio, Viki si rifugia in una stanza al primo piano della sua casa dove ha una lampada speciale che riproduce una luce simile a quella del sole. La depressione è infatti il male nascosto dell’Alaska.
13-08-2009 Anchorage
Atterrare all’aeroporto di Anchorage è come atterrare a Venezia, l’aereo scende ma intorno a te c’è solo laguna, solo acqua e speri che il pilota stia vedendo qualcosa di diverso da quanto stai vedendo tu. Quando ormai sei convinto che il carrello affonderà nel fango la pista si allarga e il sobbalzo ti dice che sotto i pneumatici c’è un’affidabile e robusta striscia d’asfalto.
Dopo l’esperienza negativa del B&B di Richmond, per fortuna Nana’s B&B si rivela una buona scelta con tutte le cose al posto giusto. E’ a pochi isolati dal centro che risulta quindi raggiungibile a piedi. La nostra visita si limita a oggi pomeriggio. Il cielo è grigio, l’aria fresca ma non piove. Camminiamo per il quartiere verso il centro. La struttura urbana a reticolo è quella tipica degli Stati Uniti, con le street indicate con le lettere dell’alfabeto che incrociano le avenue indicate con i numeri. Sullo sfondo una corona di montagne. Si avverte che qui non c’è alcuna necessità di costruire verso l’alto, di spazio ce n’è in abbondanza, le case sono basse, ben distanziate l’una dall’altra con ampi spazi verdi pubblici. Anche se siamo in città, Anchorage è il centro urbano più grande dell’Alaska con quasi 300.000 abitanti, la sensazione di essere in un posto “altro” è immediata e fortissima. Sicuramente abbiamo scritto “turisti” sulla fronte, nel nostro girovagare senza meta molti ci salutano sorridendo. Il centro si trova tra la Seconda e la Nona Avenue e la M Street. Molti i murales in questa zona sulla vita marina, sulle slitte trainate dei cani e sulla più famosa corsa che li riguarda: la Iditarod, che ogni marzo parte da qui per raggiungere, dopo 1800 km, la città di Nome e ricordare l’operazione di salvataggio che nel 1925 portò dei vaccini per salvare i bimbi del villaggio colpiti dalla difterite. Gara dura ancora oggi e che impegna uomini e cani per dieci giorni. All’eroe di quell’avventura, il cane Balto che guidò quella spedizione disperata, è dedicata una statua che si trova all’angolo tra la D street e la Fourth Avenue. Nello stesso angolo si trova il Wendler Building con la sua caratteristica torretta d’angolo e che è tra i più vecchi edifici di Anchorage. La città è stata fondata nel 1915, ma nel 1964 un violento terremoto la rase quasi al suolo. In centro dei pannelli ripercorrono la storia cittadina e se non avete ancora avuto l’esperienza della terra che vi trema sotto i piedi potete recarvi all’Alaskian Experience Centre dove c’è un simulatore di terremoti. Noi abbiamo preferito non ripetere un’esperienza comunque già vissuta dal vero a casa nostra.
La nostra passeggiata in città è punteggiata dal rumore degli aerei da turismo, per i quali Anchorage ha l’aeroporto più trafficato al mondo. Del resto qui, può essere l’unico modo per raggiungere alcune zone dell’Alaska.
Sicuramente ad Anchorage si può dedicare una giornata intera per potersi spostare verso la periferia come la zona di Salmon Viewing Area, sullo Ship creek, dove i colletti bianchi della città nella pausa pranzo pescano salmoni reali da 14 chilogrammi.
Abbiamo concluso il nostro pomeriggio con il primo incontro con le King Crabs Legs, le zampe di granchio, servite con una forbice per tagliarle, estrarne la polpa e intingerla in una ciotolina di burro fuso. Il posto dove mangiamo è proprio sulla strada da dove in marzo parte la corsa con le slitte. Piatti in plastica, sedie in plastica bianca da giardino. Se fossimo in Italia non ci avvicineremmo nemmeno a un locale come questo. Ma qui siamo in Alaska ed i parametri sono completamente diversi. Non saranno le nostre migliori King crabs legs, ma sono le prime e come ogni prima volta rimangono nella memoria più per affetto che per il palato.
14-08-2009 Verso Whittier lungo il Turnagain Arm
Stamattina partiamo per Whittier, abbiamo un appuntamento alle 13 con la crociera sul Prince William Sound. Per poter arrivare in tempo, entro le 12 per dobbiamo passare l’Anderson Memorial Tunnel unica via di accesso terrestre. La Seward Highway collega Anchorage con la Kenai Peninsula. Il tratto che percorriamo è il Turnagain Arm, che costeggia l’oceano e si snoda in un panorama incredibile fatto di montagne e ghiacciai di cui siamo circondati. Questo tratto si chiama così perché qui il capitano Cook, il primo a esplorare queste zone remote, dovette tornare indietro visto che questo braccio di oceano non ha sbocco. La strada è ricca di punti panoramici, dalle passerelle di Potter Marsch, al Beluga point, a molti altri punti dotati di piazzole dalle quali fotografare comodamente un panorama in continua trasformazione. Per noi non oggi, preferiamo non fare soste per non rischiare di arrivare tardi ai nostri appuntamenti. In Alaska ci sono quattro strade in croce e al nostro ritorno dovremo per forza ripassare di qui, avremo così una seconda occasione per fermarci. Proseguiamo il nostro viaggio sotto il cielo plumbeo che sembra schiarirsi verso ovest mentre nubi sempre più pensati si addensano a sud, proprio là dove andiamo noi. Al bivio di Portage svoltiamo per Whittier ed arriviamo al pedaggio del tunnel con buon anticipo rispetto all’ora di entrata. Il biglietto per passare costa 12 $US (il giorno seguente scopriamo che gli stessi 12 dollari valgono anche per l’uscita), ci sono delle corsie numerate verso le quali veniamo indirizzati, all’inizio di ciascuna corsia un semaforo. L’Anton Anderson Memorial Tunnel è stato realizzato al tempo in cui Whittier era un base militare. E’ un tunnel ferroviario di 3600 metri a un’unica corsia che nel 2000 è stato aperto anche alle auto. Auto e treni in entrata e uscita si alternano per un quarto d’ora ciascuno. Ciò significa che se per entrare o uscire si salta un turno occorre aspettare un’ora prima del prossimo ingresso. Appena il nostro semaforo diventa verde ci avviamo lentamente all’imbocco del tunnel. La corsia è molto stretta e la roccia si sporge verso di noi, procediamo molto lentamente, il limite è 40 km/h, sulle rotaie del treno avvolti nel rumore sordo e continuo degli enormi ventilatori. Meglio non pensare ai grandi terremoti della zona mentre si è lì sotto.
14-08-2009 Whittier: là dove nemmeno Google Map arriva
Appena sbuchiamo dal tunnel ci troviamo in un luce grigia fatta di nuvole basse e una pioggerellina leggera. La sensazione è che qui il tempo sia sempre così. Siamo dove nemmeno la mappa di Google arriva. Quando abbiamo tracciato il percorso la linea blu si è fermata dall’altra parte del tunnel. Whittier ha 150 abitanti nel periodo invernale che diventano circa 800 durante il periodo estivo grazie al turismo e alla stagione della pesca. Cerchiamo il nostro B&B non abbiamo molta scelta gli edifici si contano sulle dita di una mano. Amerigo (il nostro navigatore) ci indica di inoltrarci lungo una strada sterrata, a destra un condominio a sinistra delle costruzioni in evidente stato di abbandono. Ci dirigiamo verso il condominio di un decina di piani. E’ qui che vivono tutti gli abitanti di Whittier. Al piano terra la sede del comune, la scuola, la chiesa, l’ospedale. Negli altri piani le abitazioni. Tutta Whittier è qui. Ma non il nostro B&B.
Usciamo sotto la pioggerellina, non ci resta che dirigerci – con un certo senso di inquietudine – verso gli edifici abbandonati. I buchi vuoti delle finestre si aprono sullo stato di completo abbandono e distruzione. Si tratta di un ex palazzo governativo il Buckner Building la cui demolizione ha costi proibitivi anche solo per lo smaltimento dei detriti. Per fortuna sulla sinistra appare una fila di case basse in legno, una sorta di condominio orizzontale. E’ qui il nostro B&B, dove Pat, un’anziana signora ci accoglie. Si tratta dei vecchi appartamenti per i militari rimodernati (ma devono aver fatto i lavori parecchi anni fa). La stanza è ampia, dotata di cucina, e dà sul porto. Qui non si chiude niente a chiave, la porta d’ingresso della palazzina non ha nemmeno la serratura. Abbiamo il tempo di lasciare il bagaglio prima di tornare al molo per la nostra crociera. Ci adattiamo ai costumi locali e non chiudiamo la porta, ma l’abitudine si fa sentire e chiudiamo le valigie con la combinazione. Se vi state chiedendo perché siamo finiti in questo luogo dal tempo pessimo e che sembra dimenticato da Dio, o meglio, sembra che Dio si sia ricordato di questo luogo solo recentemente, dovete sapere che da qui parte una crociera verso i ghiacciai del Prince William Sound. La 26 Glaciers Cruise è l’unica crociera che abbiamo prenotato dall’Italia proprio perchè ci fermiamo 16 ore e non volevamo rischiare di non trovare posto. Nel prezzo (317,90 $us in totale comprese le tasse) è incluso uno spuntino fatto di aringa affumicata fredda e pane. Di caffè e tè ci si può servire a volontà.
Verso i ghiacciai
Il Prince William Sound è una zona spettacolare. Si estende per 2400 km di coste e fiordi. Whittier è il punto di partenza nello stretto ad ovest, mentre Valdez si trova nello stretto a est dove si trova il Columbia Glacier uno dei più vasti e attivi ghiacciai dell’emisfero boreale. Noi andremo nella Blackstone Bay vedremo il Surprise, e i 3 ghiacciai Cascade, Barry, Coxe. Qui non siamo in uno zodiac, sarebbe impossibile resistere per sei ore esposti al freddo e alla pioggia. Appena usciamo dal porto la foschia si fa più intensa. Non può sempre andare bene. A Victoria e Ucluelet, il tempo ci ha graziato nel momento topico dell’incontro con le orche e le balene. Ma siamo in Alaska e non dobbiamo sperare troppo in schiarite dell’ultimo minuto. Anche questo fa parte del viaggio. Il viaggio è accompagnato da un Ranger dei parchi nazionali che ci spiega alcune cose relative alla zona. Lungo il percorso incontriamo un gruppo di lontre che si fanno cullare placidamente a pancia in su dal movimento dell’oceano, e dalle focene di Dall che guizzano rapide davanti e intorno al battello come se stessero giocando con noi. Dopo un paio d’ore blocchi di ghiaccio che galleggiano nell’acqua annunciano che stiamo arrivando al ghiacciaio. Via via che ci avviciniamo i blocchi si fanno più grandi e vi sono stese delle foche in modo che ci fa supporre lasci la minor superficie del corpo a contatto con il ghiaccio. Il battello è grande e naturalmente non abbiamo le tute a proteggerci utilizzate sui gommoni. Ma anche se sono rapidi a lanciarti un salvagente, cadere in acqua qui non deve essere uno scherzo. Quando il battello entra in un’ansa, lo vediamo. Un’immenso fronte di ghiaccio che si getta direttamente nell’acqua le cui dimensioni esplodono davanti a noi man mano che ci avviciniamo. Benchè il battello sia grande, o forse proprio per questo, riusciamo ad avvicinarci così tanto da sentirci completamente sovrastati dalla massa di ghiaccio. I motori vengono spenti e il silenzio piomba su di noi. Il ghiaccio ci riempie gli occhi con venature di un azzurro intenso da ricordare l’anice. Davanti a noi è il Surprise ed il nostro primo ghiacciaio è davvero una sorpresa per i nostri occhi che sono ancora pieni dei balzi delle orche e delle balene. Le punte aguzze dei blocchi si stagliano sul cielo grigio. Noi ne vediamo la parte finale quella che, spinta dal ghiaccio compatto più a monte si spacca con profonde fratture. Nel silenzio sentiamo un crepitio, prima leggero e poi più intenso come una frustata secca nell’aria e un blocco di ghiaccio precipita nell’acqua. Non abbiamo neppure il tempo di pensare a Berta tanto rapido è stato l’avvenimento. Pochi minuti dopo un secondo crepitio ci mette all’erta e questa volta riusciamo a fissare la parte finale della caduta blocco e lo zampillo dell’acqua.
15-08-09 Verso la Kenai Peninsula
Pat ci ha lasciato due enormi muffin ai mirtilli e due succhi di frutta nella nostra stanza per colazione. Dato che ci siamo svegliati presto decidiamo di prenderli con noi e passare il tunnel alle otto. Il tempo, manco a dirlo, è del solito grigio, piovigginoso e con nuvole basse. All’imbocco del tunnel oltre a noi un pick up e cinque autobus. Lungo la Sterling Hiwghway verso la nostra meta, Kenai, qualche fessura nella coltre compatta delle nubi ci lascia intravedere sprazzi di cielo azzurro. Nonostante le strade siano ampie e senza traffico gli incidenti mortali devono essere un bel problema a giudicare dalla frequenza di cartelli “In memory of” che invitano a guidare con prudenza, a non bere mentre si guida, riportando i nomi delle vittime. Sulla strada incrociamo Copper Landing dove il Russian River incrocia il Kenai river ed è il punto di passaggio dei salmoni nella loro risalita della corrente. Lo sanno gli orsi e gli umani che a frotte lanciano le loro lenze nel fiume. Poco prima di arrivare a Kenai Amerigo ci abbandona. Il fusibile dell’accendisigari dell’auto non funziona e con l’ultimo fiato di batteria che gli rimane Amerigo dice che il nostro B&B è “di là”. Ma la strada porta così tanto fuori paese che pensiamo ad un errore dovuto al poco ossigeno. Decidiamo allora di tornare in centro e recarci al Visitor Center per chiedere informazioni. Appena arriviamo incontriamo una mamma alce con il piccolo che placidamente pascolano nei giardini delle case, appena disturbati dai click di Berta e dal nostro entusiasmo nell’averli così vicini e poterne constare le generose dimensioni. Al Visitor Center ci confermano che Amerigo aveva ragione, il B&B è ben fuori dal centro e capiamo che in nostri ospiti sono dei personaggi molto conosciuti in paese. La signora con la quale parliamo appena sa che veniamo dall’Italia si entusiasma. Se per noi l’Alaska è la meta che incarna i nostri miti da ultima frontiera, per loro l’Italia è il viaggio da sogno. La domenica successiva saremo oggetto delle conversazioni fuori dalla chiesa tra i nostri ospiti e la donna del visitor centre.
Anche l’arrivo a questo B&B è un po’ inquietante, la strada sterrata, che si inoltra fra enormi abeti, e finisce difronte una cunetta assolutamente invalicabile. Girando fra le stradine sterrate riusciamo infine a trovare quella che ci porta al B&B.
Kenai: tradizioni russe per l’estrema terra d’America
Kenai è il centro più grande della Kenai Peninsula e dà sulla Cook Inlet. Al di là dell’insenatura Mt. Redoubt , vulcano ancora attivo e non è raro che le ceneri delle sue eruzioni arrivino anche nella Kenai Peninsula. La cittadina conserva evidenti tracce del suo passato russo, dal nome di strade quali Kalifornsky e Kasilof alla graziosa chiesa ortodossa Holy Assumption of the Virgin Mary (1894) che è visitabile e dove troviamo un vecchio prete ortodosso in abiti tradizionali. La voglia di chiedergli una foto è enorme ma alla fine rispettiamo la sua singolarità, facciamo un’offerta per salvaguardare la chiesetta e gli chiediamo quante persone di fede ortodossa siano ancora presenti. Lui ci risponde che in quell’area la chiesa serve cento “anime”. Poco lontano la St. Nicholas Chapel una cappella ortodossa fatta di tronchi d’albero. Fu dai russi che l’Alaska fu acquistata dagli Stati Uniti nel 1865 ed è per questo motivo che qui si trovano ancora così tante tracce del passato russo. Proprio quest’anno (2009) il cinquantesimo stato degli USA compie 50 anni. Poco fuori dal centro si trovano i Kenai River flat, degli acquitrino che si estendono per 1200 ettari. A seconda della stagione è possibile vedere una varietà di animali. Noi non abbiamo visto praticamente nulla a parte un’aquila dalla testa bianca. Ma una mattina limpida ci ha svelato la vetta del Mt. Redoubt e del corollario di vette Mt. Iliamna a sud e Mt. Spurr a nord, al di là della Cook Inlet. Nei pressi del B&B abbiamo invece visto un’altra alce femmina con i cuccioli. La stessa giornata di sole ci regala anche un favoloso tentativo di tramonto sulla Kenai Beach Dunes, la spiaggia di Kenai. Qui in Alaska il tramonto è ben più in là dell’ora solita in cui avviene da noi e quindi alle nove di sera il sole è ancora discretamente alto nel cielo, tanto che nei ristoranti – per accendere le luci interne e creare un po’ di atmosfera – chiudono le imposte. Kenai si trova sul Kenai River e le sponde del fiume nel centro cittadino sono attrezzate con delle passerelle per i pescatori che cercano qui il loro salmone reale.
16-08-09 Homer: dove la terra finisce ed inizia il mare (Where the land ends and the sea begins)
Avevamo deciso di non andarci perché ci sembrava davvero lontano ed invece i nostri ospiti Barry e Marta ci hanno detto che ci si impiega un’ora e mezza. Così partiamo in una mattina indecisa se continuare a fare brutto tempo o volgersi al bello. La strada al solito è stupenda, un continuo saliscendi tra ampi spazi e abeti alti o bassissimi. Abbiamo due mete prima di arrivare a Homer. La prima a Ninilcik, villaggio di neppure 800 abitanti per visitare un’altra chiesetta russa del 1901. Nel piccolo cimitero, nel cortile della chiesa, croci ortodosse si mischiano a quelle cattoliche. La seconda meta è Anchor Point il punto autostradale più a ovest degli USA. Qui prendiamo il nostro diploma e tocchiamo per la prima volta la cenere eruttata da un vulcano che la gioviale signora del Visitor Center aveva raccolto pochi mesi prima con l’ultima eruzione al di là della Cook Inlet. Al tatto è soffice come il borotalco ma molto più sottile. Accanto ad Anchor Point passiamo anche una buona mezz’ora ad osservare i trattori che portano e riprendono le barche dall’acqua.
Una volta arrivati ad Homer il tempo si è messo decisamente al bello. Attraversiamo il centro cittadino e ci dirigiamo verso l’Homer Spit, l’ultima striscia di terra della Kenai Peninsula e punto finale della Sterling Highway. Oltre questo punto solo l’oceano. In qualche modo ad Homer ci ricongiungiamo con il progetto iniziale di questo viaggio, ovvero l’andare a Dutch Harbor sulle isole Auleatine da dove partono le imbarcazioni per la pesca dei granchi reali. Qui ad Homer vivono i componenti di una di queste imbarcazioni la Time Bandit ed abbiamo fatto una foto con una delle nasse tante volte viste in TV. Lungo la passerella dove si affacciano i piccoli negozi vediamo per la prima come sono fatti gli Halibut, presso un ristorante un ragazzo ne sta pulendo parecchi oltre ad avere una fila di salmoni reali. Da Homer si può andare dall’altra parte della Kachemak Bay a Halibut Cove o Seldovia in aereo o in battello che parte alle 10.30 e che abbiamo mancato. Da qui partono anche i voli turistici per il Bear watching nel Katmai National Park. Noi abbiamo scelto un tranquillo e rilassante giro in water taxi verso la Gull Island, l’isola degli gabbiani. Oltre a questi abbiamo visto anche i cormorani e la nostra prima Pulcinella di mare o puffin. La piccola imbarcazione ha fatto poi un giro nella baie più vicine dove abbiamo visto delle aquile.
17-08-09 Seward: ritorno ai ghiacciai del Kenai Fjords National Park
Partiamo sotto un cielo plumbeo dopo un’ottima colazione con i biscotti preparati da Marta. Imbocchiamo una deserta Sterling Highway verso Soldotna e Sterling. Ripassiamo Copper Landing e ancora una volta corriamo il rischio di mancarlo. Il piccolo centro, paradiso dei pescatori, è una striscia di case nella foresta che fiancheggiano la strada. Ce la prendiamo comoda. Il paesaggio è così meraviglioso che godiamo dei cambi di scenario che ci aspettano ad ogni curva, ad ogni angolo. Lungo il percorso il tempo migliora con un’esplosione di sole, le nubi scompaiono e il cielo si tinge di un azzurro intenso.
Arriviamo a Seward e cerchiamo subito una crociera per i ghiacciai solo per scoprire che tutte le crociere sono salpate già da una mezz’ora. Ne prenotiamo una per il giorno successivo ma usciamo comunque con l’amaro in bocca. Qui il bel tempo bisogna prenderlo quando viene e che oggi ci sia il sole non è assolutamente una garanzia che ci sia anche domani. La sensazione di aver mancato un’occasione, solo per non esserci informati prima, ci naviga dentro per tutta la giornata. Avremmo potuto velocizzare il nostro arrivo a Seward e prendere quella crociera e approfittare di questa stupenda giornata.
A piedi sull’Exit Glacier
Decidiamo di andare sull’Exit Glacier il ghiacciaio “sotto casa” di Seward. Una breve passeggiata di circa 1,5km che ci porta ai piedi del ghiacciaio. La partenza è pochi chilometri fuori da Seward nei pressi del Nature Center. Ci sono due percorsi uno più breve e il secondo, appunto di 1,5km che costeggia l’Exit creek. Da qui parte anche l’Harding Icefield trail di 10 km per raggiungere i 900 metri sul ghiacciaio, ma non abbiamo scarpe adatte. La parte iniziale della passeggiata verso l’Exit si snoda all’interno del bosco. Una cosa che impariamo dell’Alaska è che quando il sole c’è fa tutto il suo lavoro. L’aria si scalda subito e facciamo tre quarti del percorso in maniche corte. Il sentiero è davvero facile e molto piacevole con la lingua del ghiaccio sempre a portata di vista. E’ solo una piccolissima parte dell’Harding Icefield che si estende sulle Kenai Mountains che ci circondano regalandoci un panorama spettacolare. Il percorso verso l’Exit procede senza intoppi ma appena saliamo sull’Overlook Loop Trail e ci troviamo in una zona esposta un vento gelido si abbatte su di noi facendoci indossare le giacche. Ovviamente non è possibile salire sul ghiacciaio, gli enormi crepacci sono davanti a noi, il ghiaccio che sembra così immobile ed invece è una trappola che può essere mortale. Ricordiamo ancora il via vai delle eli-ambulanze sulla Marmolada per recuperare sciatori incauti volati in qualche crepaccio.
Spendiamo il pomeriggio in città camminando nella zona verso L’Alaska Sealife Center il punto in cui, anche qui,la strada finisce e comincia il mare. Improvvisamente sentiamo un fruscio sordo sulle nostre teste. Un’enorme aquila aveva appena preso il volo. Era vicinissima, mai visto un’aquila da così vicino. Scopriremo poi che l’albero accanto all’acquario era il suo albero e lì l’abbiamo trovata spesso. L’aquila, che subito abbiamo battezzato ScriCal, ci ha tenuti impegnati per delle buone mezz’ore. Una volta l’abbiamo trovata con una testa di pesce fra gli artigli. Abbiamo capito che la sua preferenza per quell’albero era dovuta al fatto che le dava una buona visuale sulla spiaggia dove i pescatori pulivano il pesce. Lei sorvolava la spiaggia, artigliava il cibo e poi volava verso la collina dietro Seward dove spariva. (nel libro dire della nostra stanchezza)
18-08-09 e 19-08-09 Harding Icefield
Il mattino del 18 agosto il bel sole del giorno prima è solo un ricordo. La sensazione di aver mancato un’occasione unica per una crociera con il cielo azzurro ci si ripresenta in tutta la sua forza. Per un disguido avvenuto con la compagnia di navigazione riusciamo a ottenere un secondo giro ai ghiacciai gratuito il giorno dopo che decidiamo di sfruttare nel caso il giorno seguente sia una bella giornata. E così sarà, dandoci finalmente l’opportunità di vedere questi luoghi meravigliosi illuminati dal sole. Se con il brutto tempo l’Alaska conserva tutto il suo fascino da ultima frontiera, con il sole e il cielo azzurro svela un tesoro spesso celato sotto le nubi. Dei ghiacciai, che fino ad oggi, ultimo giorno in Alaska avevamo visto solo la parte finale che si getta nell’oceano, vediamo ora la distesa che scende dalle vette. Tutt’intorno a noi l’esplosione dell’Harding Glacier. Per darvi un’idea dell’Holgate Glacier che abbiamo davanti guardate la foto a fianco, in basso a sinistra un catamarano come quello sul abbiamo fatto la nostra crociera. Nel silenzio che si crea sull’imbarcazione il crepitare del ghiaccio risuona con un colpo secco. Questa volta siamo riusciti a fotografare il ghiaccio che crolla nell’acqua. Il viaggio riserva anche gli ultimi nostri incontri con puffin, leoni marini, foche, una megattera e un’orca, cormorani, focene di Dall, Urie, lontre, aquile e per la prima volta anche le capre di montagna, punti canditi in movimento su dirupi a strapiombo sul mare.
Il nostro ultimo pomeriggio in Alaska si chiude con una passeggiata in riva al mare a Lowell point. Dall’acquario una stradina sterrata porta alla parte estrema di Seward dove ci si ritrova circondanti dalle vette del Kenai Mountains. La nostra aquila non è sul suo albero, così non la possiamo salutare. Ma va bene così, alle aquile non si comanda.
20-08-09 Seward – Anchorage
Ancora una giornata stupenda di sole. Sembra proprio che l’Alaska voglia salutarci mostrandosi al suo meglio. Qualche pigra nuvola si è impigliata tra i rami degli abeti, ma è solo l’effetto del mattino. Con il scaldarsi dell’aria il cielo di un azzurro intenso si distende su di noi. Riprendiamo il Turnagain Arm fermandoci al Beluga point ma senza fortuna, per i Beluga, mentre il cielo sgombro ci svela sullo sfondo il profilo delle vette del Denali Park a nord di Anchorage. Anche la sosta a Potter Marsh non ci riserva nessun avvistamento esplosivo come quelli indicati nella lavagnetta all’ingresso delle passerelle. Notiamo solo dei salmoni morti, loro non ce l’hanno fatta a tornare nel luogo dove sono nati. Passeggiamo lenti sulle passerelle, cercando di respirare tanta bellezza intorno a noi per incamerarla per sempre. L’Alaska ci è entrata dentro. Ne abbiamo visto una parte piccolissima, con le nostre crociere abbiamo senz’altro contribuito all’inquinamento che ne sta sciogliendo i ghiacciai più in fretta di quanto essi riescano a rigenerarsi, ma nonostante questo l’Alaska ci è entrata dentro.
Non mangiamo mai cibo italiano quando siamo in viaggio. Ma l’aeroporto di Anchorage ci sembrava un posto memorabile per ordinare una pizza. Tutto sommato buona, a parte il fatto che al solito Scri ha fatto impazzire il cuoco con la sua richiesta di averla senza formaggio.
Ci lasciamo alle spalle un’assolata Alaska, dall’aereo un ultimo sguardo alle vette del Denali Park e alla Kenai Peninsula per quello che ci auguriamo sia solo un: Arrivederci Alaska!
Il Viaggio Fai da Te – Hotel consigliati in Alaska Autonoleggio – Noleggio Auto Low Cost negli Stati Uniti |