di Simone Mariotti –
Cinque fermate per il paradiso del tè
Kumily, montagne del Kerala meridionale (India del Sud), 4 settembre
La notte non era stata una delle mie più gloriose, ma migliore di quella precedente che mi aveva visto a stretto contatto con il piccolo bagno della stanza che avevo preso al Coffee Inn. Mi ero rimesso a posto molto in fretta, ma avevo una gran voglia di andarmene da quel luogo sì carino, ma che sembrava tanto una specie di Disneyland in versione forestale, dove tutto era organizzato e tutto un po’ scontato. Ma c’era comunque una delle più grandi riserve al mondo per la salvaguardia della tigre, e ogni cosa ruotava attorno a essa, e lasciare un po’ di soldi al parco era quasi doveroso, non molto avventuroso, ma doveroso, ed era quel che contava.
La stazione degli autobus di Kumily era il solito spiazzo caotico e polveroso come lo trovi in tutta l’India, con i bestioni della Tata colorati e malridotti che si muovono con disordinata autorevolezza, strombazzando sereni, mentre i venditori di samosa, noccioline, ananas, giornaletti e molto altro ancora attendono di salire sul mezzo che sta arrivando per tirar su qualche rupia.
«L’autobus diretto per Munnar, quello delle 14, oggi non parte».
La notizia ferale, che in realtà si rivelò provvidenziale, me la diede un uomo in divisa, nervosetto che stava nell’ufficio della stazione, «prova a sentire con qualcuna delle compagnie private, ma tanto non c’è nulla», insisteva.
«Come mai? E’ sicuro? Mi avevano detto che uno c’era comunque».
«Sì è rotto a metà strada e arriverà solo stasera. Quindi riparte domani».
Mi diressi verso un’altro ufficio, dove un addetto, questa volta ben più rilassato, in maniche di camicia e lunki, il lenzuolone indossato a mo’ di sottanone, diffusissimo tra gli uomini del Kerala, ascoltata la mia richiesta, si guardò attorno e mi indicò un controllore appena sceso da un bus, urlandogli una qualche spiegazione in lingua malayalam. Come un pacco venni spedito sopra un pulmino rosso che stava partendo, ma fatti pochi metri, ero di nuovo a terra perché l’autista, che parlava un’inglese più comprensibile dei suoi colleghi, capito dove dovevo andare realmente, mi disse che se restavo a bordo non sarei arrivato neanche e a metà strada e che per giungere sino alle piantagioni di tè di Munnar, c’era tutti i giorni un diretto… quello delle 14!
Vistomi di nuovo a terra, l’uomo in “gonnella” mi chiamò e mi disse che un autobus per Munnar forse c’era alle 15.45, ma non era sicuro che arrivasse in tempo lì a Kumily. E la parola “forse” in India ha un suono ancora meno rassicurante che altrove.
«Come ci arrivo a Munnar, non mi dire che devo restare qui ancora una notte?»
Ero tornato al primo ufficio, dove l’uomo in divisa, che in realtà, a guardarlo bene, probabilmente aveva dieci anni meno di me, anche se ne dimostrava cinque di più, stava leggendo un giornale. Questa volta sorridente, si alzò e diede un’occhiata molto veloce alla mappa che era appesa al muro, giusto per cercare un dettaglio che forse mancava nella sua mente o una conferma. Rimuginato il tutto per un attimo, mi consegnò un piccolo pezzo di carta lungo dieci centimetri e largo tre, che ancora conservo, su cui aveva scritto, oltre a Kumily e Munnar, altri tre nomi di città, o meglio di piccoli paesini, in ognuno dei quali avrei dovuto prendere una coincidenza.
«Devo cambiare 4 autobus, sei sicuro?», già mi vedevo passare la notte in mezzo alle montagne, perché se avessi dovuto scommettere sulla mia capacità di centrare in un tempo ragionevole tutti i cambi, in una tratta che un diretto impiegava oltre cinque ore a coprire, non avrei puntato una rupia sul fatto che sarei riuscito ad arrivare a Munnar prima di mezzanotte.
Perché mi fossi trovato in quella condizione, senza aver programmato quasi nulla, senza essermi informato con precisione su orari tempi di percorrenza, senza la certezza, ma solo la speranza di arrivare e di trovare un posto per dormire, speranza che si affidava a un passaparola di una settimana prima, come dirò poi, non lo so. Ma era, ed è, bello così, e chi lo ha provato lo capisce. Sentirsi vivi perché privilegiati nel riuscire ad assaporare la bellezza di un cammino nella sua complicata imprevedibilità.
Dopotutto non è questo lo scopo del viaggiare? Viaggiare, appunto, per vedere. Spostarsi anche scomodi, anche senza obiettivi, anche perdendo tempo, indifferenti alla pioggia e al vento, alla solitudine, allo sporco, al disagio. Ma lì per guardare, riempirsi del mondo che ti siede accanto, mentre la meta finale è quasi solo il punto di partenza di un nuovo percorso, anche lui vago.
La prima destinazione era Paliynmaly.
Ricaricato lo zaino sulle spalle tornai in trincea. Questa volta mi avvicinai subito a un gruppo di bigliettai che parlottavano in attesa di prendere servizio. Mostro loro il mio mini foglietto e ancora una volta salii quasi al volo su un bus già strapieno, e ancora una volta sentii il bigliettaio, da terra, urlare delle parole all’autista e l’ultima di queste era il nome della mia prima destinazione.
Dopo una mezzora molti dei passeggeri erano già scesi, anche se avevamo percorso appena una quindicina di km. Riuscii anche a trovare un posto a sedere e potei osservare meglio quel che accadeva attorno a me. Avevo già fatto tanti spostamenti in autobus e l’ambiente non mi era assolutamente nuovo. Ma non so perché, quel viaggio di quel giorno, quel sali e scendi, quella diversità che caratterizzò ogni tappa, una così vicina all’altra, mi fecero fissare nella memoria, meglio che in altre occasioni, tanti particolari di quella parte così tipica della vita indiana (gli spostamenti, quasi delle “transumanze” dato il numero di persone coinvolte, con spesso animali al seguito), a cominciare dagli indaffaratissimi e meticolosissimi bigliettai.
Erano tanti anni che non ne vedevo di quel tipo. Mi ricordavano quelli che c’erano sul flilobus di Rimini, quando da bambino lo prendevo tutti i giorni per andare a scuola ai Salesiani. Avevano gli stessi mini blocchetti per i biglietti, quelli fatti di carta colorata con toni pastello, verdi, gialli, blu, rossi, grigi. Ricordo che io e i miei amici osservavamo sempre il bigliettaio, che stava sul suo seggiolone davanti alla porta centrale, per vedere se durante il tragitto finiva uno di quei piccoli blocchi, per essere pronti a chiedergli la mazzetta rimasta prima che la buttasse via, come fosse qualcosa di importante, una specie di finto denaro che poi utilizzavamo per giocare. Roba che a raccontarla ai bambini di oggi ti danno del disadattato, e che invece per noi aveva un suo significato, quasi rituale, un contatto con il mondo ufficiale dei grandi, che ancora godeva di rispetto, e noi con quei mazzetti ce ne appropriavamo di un pezzettino.
I bigliettai indiani avevano un borsello identico a quello che vedevo nei miei bus infantili, che conteneva anche un quadernino su cui fare i conti precisi dei biglietti staccati e dei soldi incassati, che ovviamente dovevano quadrare. Ne ho visti tanti e quasi tutti, appena all’interno si stabiliva un po’ di calma, si rintanavano su uno dei sedili liberi a fare i calcoli con grande attenzione; a volte restavano anche in piedi, poggiandosi su qualche schienale, quando la ressa non permetteva di fare altrimenti. E non poche volte si sono messi seduti vicino a me, ché spesso c’era un posto vuoto di fianco.
Il primo autobus di quel mio curioso viaggio era un classico Tata rosso e giallo. Ancora non pioveva e i finestrini erano tutti aperti. Lo sono praticamente sempre e nessuno di essi ha vetro o plexiglas per permettere una chiusura ermetica. Hanno però una tela di plastica grossa che cala dall’alto a soffietto una volta sbloccata e che copre molto efficacemente e velocemente dalla pioggia improvvisa, che spesso arriva violenta nel giro di pochi secondi, e anche dal freddo. Durante la stagione delle piogge è un continuo su e giù, con la luce, il vento, i profumi e i rumori della vita esterna che entrano ed escono. Quando sono tutti chiusi si accendono le luci, che non servono poi a molto perché dentro all’autobus si crea sempre una specie di effetto cinema grazie alla quasi onnipresente tv, che c’è in ogni carrozzone che si rispetti, sempre accesa, sempre con un film made in Bollywood sparato a tutto volume.
Sono i polpettoni indiani prodotti a Bombay, e sempre più anche a Madras, e che hanno una particolarità: l’eroe vince sempre per tutto il film. Le trame seguono un canovaccio ricorrente: storie d’amore, problemi familiari, gang che vogliono far del male alla bella di turno ecc. A differenza dei loro omologhi dell’Estremo Oriente, quelli prodotti più che altro a Hong Kong, dove in trame simili il divo di turno le prende di santa ragione sino agli ultimi dieci minuti, per poi scatenarsi miracolosamente alla Braccio di ferro e salvare la sua donna dai cattivi, qui, perlomeno in tutti quelli che mi è capitato di vedere sui pullman, mai una volta il protagonista è parso essere in difficoltà, e le sue imprese avrebbero fatto impallidire, non dico Superman, ma certamente Batman e Uomo Ragno! Nel 95% dei casi è trash estremo, roba forte; Ciccio e Franco al confronto sono due seriosoni da cineclub.
Se l’autobus “disgraziatamente” è sprovvisto di TV, è la musica a farla da padrona, ed è sempre e solo musica in lingua locale. L’attaccamento degli indiani alla loro cultura è infatti encomiabile, e inattaccabile.
Arrivai alla prima fermata del mio itinerario. Era un paesello con tre strade al cui incrocio si formava una Y: quella da cui eravamo arrivati, quella imboccata dall’autobus da cui ero sceso, quella lungo la quale avrei proseguito. La fermata non era esattamente una “fermata”. Era un pezzo di strada dove tutti sapevano che l’autobus si sarebbe fermato, con un piccolo, perenne capannello di persone in attesa, che aveva così la funzione sociale di segnaposto. Il controllore del bus precedente, indicandomi l’uscita, mi aveva detto qualcosa che suonava come: «vai là e chiedi a qualcuno prima di salire».
Giunto in loco, poggiai lo zaino e mi armai subito del mio foglietto “lasciapassare”. Un ragazzino, che sembrava il più incuriosito dalla mia presenza, si fece avanti.
«Devo andare a Nedumkandom», dissi in un inglese molto lento, con la certezza di aver storpiato il nome della mia destinazione. Ma il ragazzino capì al volo, e ridendo mi disse di aspettare; anche un signore dietro di lui, forse il babbo o lo zio, anche lui con un lunky, mi fece un cenno bonario col capo.
Il ragazzino aveva voglia di parlottare un po’.
«C’è una festa qui, l’Onam, e anche in altri villaggi», e mi indicò una piccola manifestazione che avevo scorto arrivando. Non sembrava nulla di speciale, ma in effetti, data l’esiguità del paesino c’era molta gente, caotica e colorata, tutta attorno a un carretto con sopra uno degli dei del ricco pantheon indù.
Il ragazzino rimase in silenzio per un paio di minuti, guardandomi come se si trattenesse dal chiedere qualcosa di imbarazzante. Poi non resistette più:
«Perché vai a Nedumkandom, non c’è nulla là».
Gli spiegai il mio “problema” e, rotto il ghiaccio, scattò la solita sfilza di domande e risposte a cui ero ormai abituato da tempo.
«Sono italiano».
«Italia! Milano, Torino…»
Non so quante volte ho sentito ripetere questa tiritera, soprattutto dai venditori per strada. E Torino era molto più quotata di Roma, Venezia e Firenze. Potere “olimpico” probabilmente, anche se tra gli indiani e lo sport, cricket a parte, non è che ci sia mai stato un gran feeling. Eppure Torino primeggiava quasi sempre.
«Viaggio solo, non sono sposato, non ho figli».
«Quanto si guadagna in Italia?», questo, però, me lo chiese il presunto babbo del ragazzino vestito di bianco, ma era comunque una domanda classica.
Stava arrivando un autobus.
«E’ il tuo», disse l’uomo, che stava evidentemente rimuginando sulle cifre che molto approssimativamente gli avevo detto. Loro due rimasero in attesa alla “fermata”.
Quel secondo bus era veramente strapieno, e per quasi un’ora restai in piedi proprio sulla porta, sempre aperta; anzi, il portellone di chiusura mancava proprio. Mi dovevo reggere di continuo con due mani, premendo lo zaino con una gamba contro lo schienale di uno dei sedili a cui stavo aggrappato, per evitare di vederlo volare via a ogni scossone.
Uno dei rari cartelli stradali che vidi appena partiti diceva che a Munnar mancavano 65 chilometri. Erano le 15,50. Alla fine arrivai a destinazione alle 19,40!
Tuttavia, quella nuova strada in mezzo alla foresta era fantastica. Un paio di volte provai a fare un piccolo filmato con la mia macchina fotografica, ma entrambe le volte rinunciai, riconquistando subito la presa che avevo mollato, rischiando ogni volta di cadere fuori. E per tutta l’ora di viaggio quasi non mi mossi, se non con la testa.
Nedumkandom sembrava una simpatica cittadina. La stazione degli autobus era la più piccola tra quelle che mi è capitato di vedere, e copriva un’area quadrata incredibilmente tranquilla, circondata dalle palme su di uno spiazzo di terreno un po’ in quota. Molti dei mezzi in attesa, tutti spenti, erano di una taglia inferiore rispetto ai soliti bisonti a quattro ruote; ma anche quelli lì, pur piccoli, erano sempre tutti figli della Tata.
Dopo poco scoprii che alle tre città in cui mi sarei dovuto fermare, avrei dovuto aggiungerne una quarta, perché per arrivare da dove mi trovavo a Popparm (la “vecchia” numero 3) prima sarei dovuto passare anche per… non avevo la minima idea del nome che mi era stato detto. Il mio destino era ancora in mano a un bigliettaio vagante che questa volta mi recapitò su un piccolo autobus semivuoto e ancora fermo.
«Partiremo tra cinque minuti», mi disse il nuovo controllore, già persona “informata sui fatti”, impeccabile nella sua uniforme verde scuro, quasi marrone, simil militare. Era l’unico, oltre a me, a non indossare il lunki.
Il paesello fuori programma, la mia nuova terza fermata, si chiamava Rajakumari, un nome meno impegnativo di quel che credevo, ma se non fosse stato per le scritte sulle insegne dei negozi (che spesso riportano anche l’indirizzo completo) non lo avrei mai scoperto. Fui l’unico a scendere dal piccolo autobus, che proseguì inerpicandosi per una stradina in salita e scomparendo subito dalla vista. Ero in un’altra “fermata”?
«Aspetta qui davanti!»
Oramai quella era la frase chiave del mio viaggio. “Qui davanti” significava davanti a un negozio di spezie o, meglio, di un rivenditore grossista, che le raccoglieva dai contadini e le rivendeva in grandi sacchi, e che stava dalla parte opposta della strada, un po’ a nord.
Era situato sotto un piccolo porticato dove c’erano altri negozi, in tutto saranno stati una decina, ma forse meno. Poco più in là, di fronte, c’era un palazzo a due piani con altri negozi uno dei quali mostrava una lunga distesa di vestitini per bambine dai colori sgargianti, il vero segno tangibile che ci trovavamo in India, un negozio immancabile anche nel posto più sperduto dell’entroterra. Nelle città più grandi, di questi negozi se ne vedono ovunque. A Bangalore un’intera area del mercato era occupata da enormi stand dove se ne trovavano a centinaia, forse migliaia.
Il grossista, grosso pure lui, sulla cinquantina, stava pesando dei sacchi di cardamomo assieme ad altri due uomini, uno anzianotto e un ragazzo molto giovane, che lavoravano senza dire una parola, stranamente. Non c’era comunque molta confusione da nessuna parte, altro fatto insolito.
L’uomo del negozio mi chiese dove fossi diretto, e mi confermò che dovevo stare lì, fiducioso.
«Vuoi delle spezie?»
“Tentar non nuoce”, si sarà chiesto, anche se era l’ultima delle cose di cui avevo bisogno. Forse avrei preferito un ombrello dato che stava iniziando a piovere e il mio k-way era mezzo bucato, e molto poco impermeabile.
«No grazie, le ho già prese e ne ho abbastanza».
«A Kumily?»
«Sì, e non ho molto spazio»
«Cardamomo, è ottimo», aggiunse, più per fare due chiacchiere che per tentare di vendermelo realmente.
Il effetti il cardamomo dell’India del Sud, specialmente del Kerala, è uno dei migliori del mondo. A Kumily avevo visitato un giardino di spezie in cui, oltre alle piante, mi fu mostrato anche la specie di forno usato per l’essiccazione delle capsule. E anche quello confezionato da tempo manteneva un profumo intensissimo.
Il mio quarto autobus era poco più piccolo del terzo, e aveva ancora meno posti a sedere, quasi un pulmino un po’ allungato. Però, non so per quel motivo, c’erano addirittura due controllori: uno che faceva i biglietti e l’altro che, assieme al primo, teneva d’occhio le due uscite. Forse erano necessari due uomini perché le fermate erano quasi istantanee: si saliva e si scendeva senza perdere tempo, e al fischio dei due uomini l’autista ingranava la marcia.
A ogni fermata, uno dei due ragazzi urlava come un forsennato i nomi di quelle successive, sia mentre l’autobus entrava in un villaggio, sia mentre ripartiva, casomai ci fosse qualche ritardatario da prendere letteralmente al volo, e spesso c’era.
Altra differenza era il fischietto. Nei mezzi più grossi, quelli con un solo bigliettaio, c’è una cordicella che corre lungo il soffitto cui è legata una campanella fissata proprio sopra la testa dell’autista. Il bigliettaio controlla le porte e facendola suonare ordina, secondo un codice stabilito, di fermarsi o di ripartire.
Uno dei due ragazzoni che gestivano il flusso di persone del mio quarto bus, invece, aveva un fischietto che usava nello stesso modo, e siccome fischiare è più divertente che tirare una cordicella di spago, ci dava dentro nello stesso modo in cui gli autisti indiani di qualunque mezzo (autobus, taxi, rikshow, moto), usano il clacson: di continuo, come se la macchina fosse un’estensione del proprio corpo e richiedesse a ogni espirata anche un colpetto sonoro come per scaricarsi.
L’uso del clacson è tuttavia necessario, vista la generale “prudenza” di guida che non risparmia neanche i centri più affollati. Serve per dire “sto arrivando, vado forte e ora lo sai. Poi vedi tu: uomo avvisato mezzo slavato”. E siccome ovunque ti torvi tra bus e alti mezzi ne arrivano sempre cinque o sei alla volta, in ogni tratto di strada questo caos orchestrale è quasi sempre al top.
Il penultimo tratto che percorsi tra quelle alture del Kerala era l’ideale per “apprezzare” il totale disprezzo del pericolo degli autisti indiani. La velocità di crociera si manteneva attorno ai 50 chilometri orari, che a dirlo non sembra gran che; ma immaginate delle stradine di montagna, strette, piene di curve e tornanti, male asfaltate e bagnate. Spessissimo si sentiva l’odore caldo dei freni, tanto erano sollecitati. Quando poi, giorni dopo, sono sceso da Munnar per tornare sulla costa, con un unico viaggio diretto di cinque ore, le prime tre sono state un incubo. Persino gli indiani che viaggiavano con me, certamente più abituati a quell’andare, davano segni di impazienza. Io poi mi ero messo scioccamente in fondo all’autobus, dove ogni movimento è amplificato. Mi ero seduto lì perchè ero stato tra i primi a salire a Munnar e siccome c’erano tantissimi posti, mi sistemai in coda per poter osservare con più comodità la vita che si sarebbe svolta davanti a me.
Nel doppio sedile alla mia destra, oltre il corridoio, c’erano una vecchia e una bambina che, con un continuo di “turni” quasi regolari, vomitarono per più di un’ora (per fortuna in un robusto sacchetto di plastica che si erano portate dietro), tra il risolino di qualcuno degli altri passeggeri e il mio terrore di fare presto la stessa fine. Fui salvato in extremis da una serie di soste ravvicinate che mi permisero di volta in volta di recuperare, ma ero veramente al limite della sopportazione.
Con tutte quelle fermate e rapide ripartite mi sentivo come quella volta di venticinque anni prima o giù di lì, quando con un paio di amici d’infanzia andai al Luna Park di Miramare, poco lontano dal centro di Rimini. Io e Gianni, che allora avevamo più o meno quattordici anni, come molti ragazzini eravamo due fanatici di tutte le attrazioni che ti ribaltavano lo stomaco come un calzino. Appena arrivati al parco, esattamente come gli stop & go del mio pazzo bus indiano, iniziammo a salire su una giostra dopo l’altra e, scesi da una, letteralmente correvamo come drogati sulla successiva, utilizzando come tempo di recupero solo la fila per il biglietto; e dopo poco più di mezz’ora, prima della sesta, capitolai e in una pausa più allungata del solito vomitai tutta la pizza che avevo mangiato un’ora prima. Sul bus sarebbe bastata una fermata in meno e avrei fatto la stessa fine, a venticinque anni di distanza.
Ero salito in fretta, mentre uno dei due controllori col fischietto al solito gridava. Il piccolo autobus non era molto affollato e c’era anche qualche posto a sedere. Mi ero messo in piedi, tenendomi stretto alle barre che correvano sul soffitto, proprio dietro al guidatore, dove era stato eretto un piccolo altarino in omaggio a Ganesh e ad altre tre divinità: una era Shiva in posizione nataraja, ma le altre due non ero in grado di identificarle, forse una era la moglie Parvati. Era una teca che si sviluppava orizzontalmente per un metro circa, alta forse una quarantina di centimetri, ed era incorniciata con un metallo dorato, con varie collane di fiori ai lati e delle lucine colorate come quelle che noi utilizziamo per decorare gli alberi di natale. Il tutto rivolto verso l’interno del mezzo. Non era la prima volta che ne vedevo una in quella posizione, ma di solito le immagini sacre, foto, fiori e statuette varie vengono messi sul davanti a fianco del guidatore, alla base del parabrezza centrale. E’ abbastanza comune trovare simili “addobbi” in Asia. Uno dei più pittoreschi, pieno di fiori e di frutta, mi era capitato di vederlo in Thailandia, durante un viaggio tra la vecchia capitale imperiale Ayuttaya e Loopburi, una cittadina invasa dalle scimmie, poco più a nord. Ma l’omaggio in quel caso era a Buddah.
Mi ero aggrappato, con rispetto, all’altarino, ma in una posizione piuttosto scomoda. E’ che non sapevo dove mettere lo zaino perché davanti a me c’era il vuoto e non lo potevo incastrare da nessuna parte. In realtà non c’era proprio il vuoto. C’era un sedile che era quasi vuoto, da tre posti, sul quale però era seduta solo una donna anziana. Ora, le indiane che viaggiano da sole, non tutte, ma molte sì, specialmente nelle zone rurali, non è che siano particolarmente felici di sedersi al fianco di uomini che non siano della loro famiglia. Non è nulla di drammatico né di socialmente vietato, ma a volte capita che sia così, un po’ per un fatto dovuto all’onore, alla cultura, o una forma di antico decoro, di moralismo o altro (nei treni si stanno diffondendo gli scompartimenti ladies only, ma solo per motivi di sicurezza contro il grave problema della violenza sulle donne). Fatto sta che la signora, supponendo quelle che avrebbero potuto essere le mie intenzioni, mi stava squadrando con una certa preoccupazione. Sapevo che quella situazione la stava mettendo in difficoltà e attesi un po’ in piedi guardano con insistenza il sedile, divertito. Non avevo intenzione di disturbarla sedendomi, ma non gli dissi nulla. Appena l’autobus fece una fermata, la donna fu lesta a chiamare le prime due ragazze che erano salite, adoperandosi affinché si sistemassero subito a fianco a lei. Mi venne da sorridere e mi girai verso l’autista per cercare di scoprire a che punto eravamo del percorso, ma senza successo. L’unica cosa certa era che aveva iniziato a piovere con maggiore decisione e che attorno alla strada la foresta sembrava farsi più fitta.
Il viaggio su quel mini bus fu tuttavia molto breve, lo si sarebbe potuto intuire anche dal basso costo del biglietto, appena 5 rupie (neanche 8 centesimi di euro). Dopo un quarto d’ora, due fermate e una corsa sotto la pioggia da un autobus all’altro nell’autostazione di Popparm, finalmente ero a bordo di un diretto per Munnar.
Era ancora giorno, ma stava iniziando a imbrunire. La luce però era sufficiente a farmi apprezzare la bellezza di un paesaggio decisamente cambiato rispetto all’inizio. Salivamo più in quota, e ai lati della strada, oltre alla foresta, iniziavano ad apparire anche le prime piantagioni di tè. Ero seduto ancora una volta in fondo all’autobus con la porta inesorabilmente aperta. Entrava molto vento e anche un po’ di pioggia. Mi misi una maglia più pesante e il mio solito k-way malandato, ma non stavo bene ugualmente e temevo di riammalarmi come due settimane prima, quando tra Puducherry e Tanjore uno strano virus mi “regalò” per due giorni 40 inflessibili linee di febbre.
Il sedile in coda aveva 5 posti, io ero in quello centrale. Alla mia destra c’erano due uomini, mentre i due a sinistra erano vuoti perché la ressa non era tale da riempirli e la pioggia, che entrava ogni tanto dalla porta, li aveva oramai bagnati quasi del tutto.
Infreddolito e umidiccio, mi stavo tenendo lo zaino davanti al torace per avere un po’ di protezione in più, quando una farfalla entrò all’interno e si mise a “sedere” proprio a fianco a me, come un normale passeggero. Era bagnata pure lei e aveva bisogno di asciugarsi le ali, e probabilmente quello era l’ultimo posto in cui era riuscita ad arrivare prima di essere sbattuta per terra dalla pioggia. Restò lì almeno un quarto d’ora, forse di più, incurante o impossibilitata a evitare ogni pericolo, ma avevo la sensazione che non gliene importasse. A modo nostro, eravamo i due passeggeri più soli di quel viaggio.
Arrivai in una Munnar buia e resa ancora oscura dalle nuvole, stanco, forse con la febbre e con la pioggia che batteva. Salii velocemente sopra un rickshaw e mi feci portare subito al JJ Cottage, che mi era stato suggerito cinque giorni prima dal ragazzo del Lemon Tree di Alleppey, che mi diede anche un pacchetto da consegnare ai gestori che erano suoi amici.
«Sei Simon?», mi disse, appena mi vide, un signore corpulento e dallo sguardo quasi nobile. E fu piuttosto rassicurante. Sistemai le cose al volo dandomi una rapida asciugata, e con un ombrello preso in prestito corsi per strada per raggiungere l’unico ristorante che c’era, poco lontano da lì, prima che chiudesse, perché mi sembrava già deserto.
«Non ti preoccupare, fai in tempo a mangiare, ma vai subito», e non erano ancora le nove.
La mattina dopo stavo bene, anche se la pioggia ancora non smetteva. Scrissi per più di un’ora gli appunti che ho poi sistemato per questo racconto, e poco dopo le nove, dopo una colazione allo stesso posto della sera prima, dato che la pioggia si era calmata e il sole andava e veniva, e sembrava dovesse continuare così per tutta la giornata, ero pronto per inoltrarmi sulle colline circostanti, in quel lontano, piccolo e affascinate paradiso del tè.
Il tè regna a Munnar, anzi regna la Tata, che possiede praticamente tutto. Per ore girai tra le piantagioni assieme a Pablo, uno psicologo colombiano in viaggio di lavoro con la sua ragazza, psicologa anche lei, per diffondere un’interessante metodologia corporale, che coinvolgeva soprattutto i padri, che serviva da metodo alternativo all’incubatrice per aiutare i nati prematuri in quei paesi più arretrati dove i macchinari erano assenti o scadenti.
Ci soffermammo a lungo nei campi di lavoro a far due chiacchiere con i raccoglitori di tè. Per comprendere appieno la loro condizione, quello che osservammo non è certo sufficiente, ma erano quasi tutti piuttosto allegri. Il loro stipendio era da fame, non arrivava a 20 euro la settimana, e praticamente vivevano sempre lì nella piantagione, nel villaggio che la Tata aveva costruito per loro, poco sotto delle belle cascate. «Tata workers», ripeteva sempre una delle donne, che volle una foto e mi lasciò l’indirizzo facendomi promettere che gliela avrei spedita.
Lo spaccio della fabbrica di tè vendeva profumati pacchi di prodotto appena lavorato allo stesso prezzo sia per i locali che per noi stranieri. Nessuno di quei contadini ci chiese soldi, se non qualche bambino.
E non so se quel paradiso di colori e profumi, quel mondo intensamente verde lontano dall’inquinamento e dal caos fosse per loro una prigione o se, dopotutto, vivessero lì più sereni di tanti altri indiani.
Un giorno a Kollywood, l’altra faccia di Bollywood
Chennai (Madras), agosto 2009
Diceva di chiamarsi Jack, ma era un ragazzotto indiano di Chennai (il nome con cui da qualche anno è conosciuta Madras), vestito come un rapper americano e che sosteneva di essere un ballerino professionista. Eravamo al primo piano rialzato di uno dei più lussuosi alberghi della città, di quelli con due ascensori a vetri attorno ai quali, dalla hall, salivano delle scintillanti scalinate di marmo che portavano ai piani. Tutto era guarnito con decorazioni dorate, ottoni, cristalli. Tutto tirato a lucido, e tutto ovviamente kitsch. Esattamente come quello che accadeva al piano rialzato.
Io e jack eravamo seduti al bancone di un bar in una sala non molto grande, buia e a soffitti bassi, dove si stava girando uno dei tipici polpettoni che si vedono nei cinema indiani.
Lui era il primo ballerino, e interpretava il braccio destro del capo della gang dei buoni, il cui leader era anche l’eroe del film, un attore chiamato Barath, abbastanza famoso nell’India del Sud, mi dissero poi altri ragazzi indiani che incontrai in seguito.
“Se andrai a Londra potrai trovare questo film in qualche negozio”, mi disse.
“A Londra? Ma non era destinato al mercato locale del sud. Il ragazzo che ci ha assunti a Mamallapuram ci ha detto cosi”.
“Sì, ma anche a Londra, perché ci sono tantissimi indiani che arrivano da qui e i migliori di noi ballerini, se riescono a farsi notare, vengono mandati a studiare nelle scuole di ballo inglesi. Io ci sono stato per sei mesi l’anno scorso”, disse con un certo orgoglio, anche se lo sguardo era un po’ rassegnato. A vederlo 5 minuti prima sembrava fosse il più birro di tutti, spavaldo e pieno di sé, ma in quella pausa sul set, senza il suo gruppetto attorno, aveva negli occhi tutta un’altra aria. Forse perché, in fin dei conti, anche essere arrivato lì dov’era, non contava poi gran che per lui: “mi piacerebbe andare a lavorare anche a Bombay”.
Forse le sue speranze erano mal riposte, forse inseguiva un sogno che era già dietro l’angolo, perché Kollywood dopotutto sta scalzando Bollywood come mecca del cinema indiano. Il nome deriva da una delle vie di Madras in cui un tempo erano concentrati i primi studios, oggi sparsi in varie parti della città. E sta crescendo tantissimo, anche perché il mercato del sud è più diversificato di quello del nord, dove di parla prevalentemente in hindi. A sud invece le differenze linguistiche sono più radicate e difficili da superare, tanto che i programmi governativi per la diffusione dell’hindi, pensati per uniformare la nazione, a sud trovano molti ostacoli, anche per la presenza di lingue antichissime come il tamil, parlato da oltre 70 milioni di perone. Ogni stato indiano quindi necessita della sua produzione cinematografica. Budget più limitati magari, ma con una continua proliferazione del numero di pellicole. Ma il suo sogno restava di fare il primo ballerino a Bombay.
Da quel po’ che avevo visto sia quel giorno sia nei film che proiettavano sui pullman, non è che gli mancasse molto per diventare una vera star. I passi erano sempre molto semplici, banalotti, che agli occhi di un occidentale potevano sembrare quasi delle caricature.
Nelle otto ore passate assieme alla troupe per girare una decina di scene, vidi un microcosmo che ricordava molto gli albori di Hollywood così com’erano stati narrati in quel fantastico film di Bogdanovich sul cinema dei primi anni del Novecento che fu Vecchia America (1976). C’era il tuttofare buffo e grassoccio che sembrava uscito da una comica di Chaplin, la coreografa iperattiva, una ragazza di una trentina d’anni, piccoletta e dallo sguardo tosto che pareva essere lei a dirigere il film, sempre a parlare col regista dando consigli su tutto. Fuori dalla sala c’erano vecchie attrezzature (carrelli, binari, riflettori antidiluviani) che chissà perché erano ancora lì, e poi di fianco un modernissimo mixer con una serie di monitor per vedere e montare le scene in brevissimo tempo, un angolo in cui il regista di rifugiava di continuo. I soliti contrasti indiani dominavano anche Kollywood.
Poi c’era la starlette della situazione. Una diva con tutto quel che doveva avere una diva che si rispettasse: un vestito completamente coperto di paillettes dorate, una pettinatrice che la seguiva in ogni movimento e che le sistemava i capelli praticamente di continuo, un nugolo di “ancelle” che la consolavano, nutrivano, pulivano e chissà che altro. Bellina, piccolina, anche lei una ballerina mediocre, ma perfetta per la parte da fatalona da adorare che doveva fare. Ma al contrario di Jack, era inavvicinabile!
Poi la pausa pranzo all’aperto, davanti al garage dell’albergo assieme allo staff “tecnico”, una sorta di rancio stile vecchio west dove ognuno si riempiva il piatto col cibo contenuto in una serie di gavette.
Io, una coppia di francesi, due polacchi e una famigliola inglese eravamo capitati lì a lavorare come comparse per un giorno, prelevati da Mamallapuram, un paesello di mare una cinquantina di km più a sud. Era bassa stagione e non c’erano troppi turisti in giro. Un giorno per due volte mi chiesero di partecipare a un film, ma avevo declinato anche perché avevo un impegno per cena. Poi, la mattina dopo, incontrai uno dei ragazzi che mi avevano già avvicinato che parlava con Jeremie ed Emilie, i due francesi di Parigi. Mi unii a loro e la cosa assunse la forma di una specie “gita di classe”. Il film era ambientato a Singapore e ci volevano un po’ di occidentali a gironzolare per le scene per dare l’idea di luogo un po’ più internazionale di un albergo di Madras. E dopo quella giornata, tornati a Mamallapuram, finimmo tutti assieme a mangiare pesce alla griglia vicino alla spiaggia e a bere birra assieme anche a un pescatore locale insonne che doveva prendere il mare prima dell’alba e che per prima cosa volle sapere chi fosse l’eroe del nostro film.
Non eravamo noi, e neanche Jack, che continua a provare, a sognare e a sperare. Sperava, come accade a tanti, di essere visto almeno per una volta per quello era e che veramente valeva, anche quando stava al bancone di un bar, anche se non si atteggiava a superstar, anche senza le solite luci sparate davanti agli occhi.
Pubblicato il 4 novembre 2009 su La Voce di Romagna in prima pagina
Le contraddizioni dell’India che prova a crescere restando se stessa
Appu era un adorabile bambino di otto anni che da quando arrivai a Manippara non mi mollò quasi mai.
Manippara è un’area sperduta nel nord del Kerala, nel sud dell’India, al di fuori di qualsiasi rotta turistica. Non ci sono alberghi né ristoranti; non c’è neanche un villaggio, a dire il vero. E’ una zona isolata nel distretto di Kannur. L’autobus mi scaricò a Iritty, il centro più vicino, a venti minuti di macchina, da dove si estendono, nel silenzio, le piantagioni di albero della gomma, di cocco e di anacardi. Ero arrivato lì quasi alla fine del mio viaggio per andare a casa di Alice, anche se lei non abita più lì, trasferita a Delhi da qualche anno. E’ una ragazza poco più grande di me che mi presentò un amico comune tempo fa, ma ci siamo sentiti solo al telefono e via mail. Una piccola corrispondenza che dura tutt’ora, ogni tanto.
Suo fratello, Robert, quarant’anni, vive ancora lì con la moglie e due figli (Appu e Ammu), e come tanti altri indiani negli ultimi ha fatto un po’ il pendolare, lavorando in Nigeria e nei paesi arabi, “ma in Nigeria si guadagna di più”, mi diceva. Ora anche lui è un coltivatore e ha comperato una casetta con della terra e, come i suoi amici con cui girai i quei giorni, avrebbe messo su una piccola piantagione. Ma voleva iniziare anche una specie di B&B e ora ha anche rimediato un pulmino, per iniziare a scarrozzare per le piantagioni e le zone circostanti i futuri visitatori.
Turisti però ancora non ve ne sono. Un giorno, mentre facevo due passi attorno a casa, una pattuglia della polizia locale mi ha fermato e ha iniziato a farmi un bonario, ma insistente, terzo grado su chi fossi, che ci facessi lì, dove stavo andando, dove alloggiavo. Hanno voluto sapere tutti i dettagli del mio lavoro in Italia e per fortuna avevo anche un biglietto da visita con il logo della mia società. La moglie di Robert, avvisata da Appu, che si era un po’ allarmato, arrivò fuori a darmi manforte e tutto si risolse senza problemi, ma mi presi un cicchetto: “non girare solo per strada, potrebbero prenderti per un lavorante abusivo nelle piantagioni. Comunque se ricapita racconta sempre la storia di Alice”.
Un’altra particolarità di quella zona era di essere una piccola enclave cattolica, circondata dal profondo induismo che permea l’intero sud dell’India. Era ancora una forma di cattolicesimo devoto molto imperniato all’obbedienza delle regole. Ogni sera verso le 19.30, dopo la telenovela, in famiglia per una buona mezz’ora si recitava il rosario, lettura della bibbia e preghiere varie. Osservavo tutto con un discreto interesse, e quando gli chiesi perché lo facessero ogni sera, Robert mi disse: “lo dobbiamo fare perché siamo cattolici, è quello che dice il vescovo”. Disse che tutte le famiglie della zona facevano lo stesso, chissà… chissà ancora per quanto.
Il Kerala è anche questo, l’unico luogo al mondo (assieme al West Bengala, a parte la recente sconfitta elettorale) dove i comunisti marxisti sono stati eletti e governano assieme ai socialisti da 60 anni, e che ha prodotto uno stato tra quelli culturalmente più evoluti della federazione indiana, con il maggior tasso di alfabetizzazione e tra i più attenti alla tutela dell’ambiente. Le riforme che hanno re-distribuito la terra negli anni sessanta hanno creato meno diseguaglianze che altrove, ma le industrie sono poche e il turismo e l’agricoltura sono le principali fonti di reddito, e nonostante si viva ancora bene, l’economia statale barcolla ed è stata esclusa dal recente boom indiano. Alice mi raccontava: “Mi piace stare nel Kerala, però è difficile trovare il lavoro, perchè siamo tanti, e a Delhi ci sono più opportunità. Ma il mio sogno è di ritornare in Kerala e di fare qualcosa per le donne e per i bambini. Là molte donne sono infermiere perché c’è tanta possibilità di lavoro sia l’estero che all’interno. Ma molte di loro vanno all’estero per lavorare, così hanno la possibilità di aiutare le loro famiglie, e poi hanno la possibilità di guadagnare qualcosa anche per loro”.
Me lo aveva confermato anche uno degli amici di Robert, che dopo due anni come tassista a Chicago, era dovuto tornare per problemi di visto, e anche lui ora coltivava la terra. Mi raccontò anche delle tante contraddizioni indiane, come quella dello stato fortemente comunista, dove però il sistema delle caste è quasi più forte che altrove e della Sanità privata che dilagava, tanto era un continuo fioccare di cliniche e ambulatori.
Ma quel luogo assomigliava un po’ alla situazione di serenità che avevo trovato a Munnar nelle piantagioni di tè, una settimana prima, e che ho raccontato tempo fa nella serie di articoli “5 fermate per il paradiso del te”…
“Ho letto quello che hai scritto”, mi disse Alice, “ed è vero quello che hai detto: i lavoratori lassù sono più sereni. Perchè vivono ogni giorno con il loro lavoro. E se non si ammalano se la cavano abbastanza bene perché in India lo stato non ci aiuta per la medicina. Quando però si ammalano, a volte per curarsi vendono anche la casa e il terreno, se lo hanno, e dopo tu puoi immaginare… L’India è molto povera però c’è anche tanta ricchezza. Ci sono tanti ricchi, forse più che in Italia, solo che la ricchezza dell’India è in mano a certi ricchi (come Tata, Birla, ecc.). Ma i poveri restano poveri, come hai detto, specialmente nella città. Tutti vengono in città perché trovano qualche tipo di lavoro e possono vivere in qualunque modo. Il problema è che lavorano e magari la sera bevono alcol con quello che hanno guadagnato. C’è ancora troppo disordine in India, però nello stesso tempo c’è un ordine di vita, nelle famiglie, nelle scuole e dappertutto; c’è comunque una bellezza di vivere, una gioia, e la trovi in tante persone… Appu mi racconta ancora di te, sai, è molto intelligente, osserva tutto. Sono contenta che ti sei sentito come in famiglia”.
Alice non abita più lì, ma credo vi tornerà. Ha voglia di provare a migliorare e a cambiare le cose senza cambiare se stessa e la sua cultura, un po’ quel che sta accadendo all’India, anomala anche in questo rispetto al recente sviluppo degli altri paesi emergenti. Una sfida impegnativa, che gli indiani, uniti e divisi, arricchiti e impoveriti da mille lingue e culture, per ora stanno vincendo a metà.
Pubblicato il 23 giugno 2010 su La Voce di Romagna in prima pagina
Per contattare Alice e trovare altri articoli e racconti visitate il sito di Simone Mariotti: www.simonemariotti.com
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