Elezioni in Nepal: viaggio ai confini della democrazia

di Chiara Milanesi –
Il 10 aprile in Nepal si è votato per eleggere l’Assemblea Costituente. Le elezioni, le prime dopo un decennio di guerra civile e 13000 morti, facevano parte dell’accordo di pace firmato il 21 novembre 2006 tra i sette principali partiti nepalesi e i maoisti. Più volte posticipate rispetto alla data prevista inizialmente, a ragione del clima teso che regnava nel paese, le elezioni di aprile hanno visto una forte partecipazione popolare. Più del 60% su 17,6 milioni di votanti, il che, in un paese estremamente arretrato e composto da zone di difficile accesso com’è il Nepal, costituisce un record assoluto. I maoisti di Prachanda, contro tutte le previsioni, hanno ottenuto una vittoria schiacciante conquistando 118 seggi sui 216 totali. Il risultato elettorale dovrebbe portare all’abdicazione del discusso re Gyanendra e alla trasformazione del paese, a tuttora l’unica monarchia induista esistente al mondo, in una repubblica federale.

Quanto segue è quello che ho visto, ho sentito, ho ascoltato in quei giorni, prima a Kathmandu e in seguito nelle valli del Langtang e dell’Helambu, due regioni situate nel nord est del Nepal, ai confini col Tibet cinese.

Soldati. Tanti soldati.
Agli angoli delle strade, il mitra puntato a terra. Seduti in fila su camion scoperti che sfilano lentamente lungo i viali. Volti seri di soldati che spuntano da elmetti troppo grandi e si intravvedono appena dietro alle garritte di legno costruite alle bell’ e meglio agli angoli del muro che circonda il palazzo reale. Soldati che passeggiano per Thamel a gruppetti di due o tre. O più compatti, a proteggere l’ambasciata cinese dai monaci vestiti di rosso che da qualche settimana manifestano contro la repressione in Tibet. In mano delle sottili canne di bambù.

Sono soldati che non fanno paura quelli che pattugliano le strade di Kathmandu a pochi giorni dalle elezioni. Gentili, se li saluti, sorridono.
Di soldatesse, in città, se ne vedono poche. Qualcuna la si vede ai posti di blocco in uscita dalla città. Altre, più numerose, nei villaggi semiisolati delle valli del Langtang. A Trishuli, un villaggio che vorrebbe potersi definire cittadina, fanno capannello attorno ad un chiosco di bibite. Indossano uniformi mimetiche, quasi tutte troppo larghe per i loro corpi minuti. Chiacchierano e ridono, i lunghi capelli neri annodati strettamente sulla nuca.

Non battono ciglio, soldati e soldatesse, al passaggio dei maoisti di Prachanda. Nemici giurati neanche un anno e mezzo fa, ora i militanti/guerriglieri hanno invaso Kathmandu. Dicono che nella capitale ne sono arrivati circa 45000. Sono scesi in città dalle montagne del Dolpo, dai villaggi nascosti nelle valli che circondano il massiccio dell’Annapurna, dal Solo Khumbu e dalle soffocanti pianure del Terai. Festoni di bandierine con la falce e il martello rossi in campo bianco sono appesi da una casa all’altra nelle stradine attorno a Durbar Square.
Sostituiscono le bandiere da preghiera tibetane, che, di questi tempi, si fanno più discrete. I rikshiò che stazionano davanti alle guesthouse di Thamel esibiscono incollati ai sedili i manifestini di propaganda del partito. Falci e martello sono dipinte con la vernice rossa sui pali della luce, sulle saracinesche arrugginite dei negozi, sulle porte in legno marcito delle case. Sui muri scritte in inglese e nepalese augurano lunga vita al marxismo leninismo e al suo interprete, il valoroso compagno Prachanda.

Pushpa Kamal Dahal, alias Prachanda, o, in nepalese, « il temerario». Nel pronunciare il suo nome molte persone abbassano la voce. Per alcuni questo bramino di cinquantatre anni è un eroe, che ha dato voce ai milioni di diseredati che popolano questo paese, uno dei più poveri del mondo. Per altri Prachanda non è altro che un leader feudale, responsabile delle estorsioni e degli assassinii che per più di dieci anni hanno colpito indiscriminatamente gli abitanti dei poveri villaggi situati nelle zone più remote ed isolate dell’Himalaya. Il giardiniere della guesthouse osserva che il leader dei maoisti porta molto bene i suoi anni. È in perfetta salute e ben nutrito, nota. E aggiunge a bassa voce che la sua dieta l’uomo se l’è pagata con il denaro estorto a dei poveri disgraziati come lui.

Dagli altoparlanti di automobili, camioncini e jeep male in arnese i militanti fanno propaganda per i tre principali partiti. La gente ne parla curiosamente. È raro che qualcuno chiami un partito col suo nome. Così il Nepali Congress diventa « the tree », l’albero, o meglio la quercia, che è il simbolo del partito, mentre l’UML, il partito marxista riformista, diventa, per la stessa ragione, « the sun » il sole. Solo il CPN, il partito di Prachanda, non ha nome. La gente lo confonde col suo leader. E se deve dichiarare per chi voterà dichiara che voterà per lui. Per Prachanda. Il temerario.

Tre giorni prima delle elezioni è difficile riuscire a trovar posto su una corriera in partenza da Kathmandu. I partiti hanno requisito tutti i mezzi di locomozione collettiva, dai grandi mostri Tata ai minibus cinesi male in arnese, per trasportare i votanti ai loro villaggi e ai seggi o quantomeno là dove arrivano le strade carrozzabili. Decine di veicoli strapieni intasano le arterie in uscita dalla capitale. La gente si ammassa sul tetto, le gambe raccolte contro il petto per mancanza di spazio. I più giovani viaggiano in piedi sui predellini esterni, o se ne stanno in bilico sui paraurti aggrappati ai portapacchi. All’interno, schiacciati gli uni sugli altri, si stringono le donne, i vecchi e qualche bambino. Nessuno protesta. Stoicamente imperturbabili i passeggeri affrontano i disagi del viaggio.
Sono autobus fortemente connotati quelli che si muovono da Durbar Marg o dalle stazioni periferiche. Trasportano i simpatizzanti del Nepali Congress, quelli del Sun o i seguaci di Prachanda. Gli uomini accoccolati sul tetto sventolano incessantemente le bandierine di propaganda e quando l’autobus fa una sosta in un villaggio sciamano in gruppo per le strade scandendo slogan. Agli automobilisti che li tallonano tentando spericolati sorpassi sorridono levando le dita a V nel segno della vittoria.
In questi giorni che precedono le elezioni le regole del codice della strada non sembrano vigere più. Ai posti di blocco i soldati lasciano passare i veicoli stracarichi con un rapido cenno del braccio. I militari più ligi, nel tentativo di dare una parvenza di controllo, Fanno il gesto di salire sul predellino. Gettano uno sguardo all’interno del veicolo, al di sopra delle teste dei passeggeri che bloccano l’ingresso, poi scendono e fissano stancamente gli uomini accalcati sul tetto. Che a loro volta, senza scomporsi, fissano i soldati. Poi gli autobus ripartono tra sbuffi acri di fumo nero e profumo di kerosene.

Trishuli, l’ultimo villaggio prima che la strada asfaltata non si trasformi in un incubo di voragini, massi e torrenti straripati, è una sosta obbligata per gli autobus dei votanti, le jeep degli osservatori internazionali e le camionette dei soldati. Nei punti di ristoro, di fronte ad un piatto di dal bhat i sostenitori dei differenti partiti non hanno problemi a mescolarsi. Nessuna rivalità, nessuna animosità. Un poco come farebbero i giocatori di un qualunque team sportivo amatoriale che si ritrovassero a bere un caffé in un bar sull’autostrada prima di raggiungere la sede del torneo. Due soldatesse, in un angolo, si rassettano l’uniforme. Chiacchierano fitto tra di loro, il fucile mitragliatore abbandonato a tracolla sulla schiena. Ogni tanto lanciano un’occhiata di sbieco qua e di là.
A Dunche, il primo villaggio dopo Trishuli si entra nella regione del Langtang, per anni in mano ai maoisti come testimoniano le scritte sbiadite sui muri delle case. « Well-come to maoist area », recita in un inglese approssimativo una scritta tracciata con la vernice rossa sul muro di un ghompa.

Lungo la strada sterrata, realizzata in dieci anni dall’esercito nepalese per permettere ai camion di raggiungere le miniere di zinco e piombo situate sulle pendici del Ganesh Himal, i posti di blocco si moltiplicano. A Dunche, nei pressi di una garritta, una sbarra di ferro chiude la strada. Un soldatino, che si intravvede appena dietro ai sacchi di sabbia, sta di guardia alla barriera e con un gesto della mano smista il traffico fino al posto di controllo. Non sembra particolarmente vigilante. La guerriglia è terminata da circa due anni e a parte qualche sporadica scaramuccia, i rapporti tra esercito e sostenitori di Prachanda sono distesi. Il soldatino ci osserva con sguardo annoiato e dopo una decina di minuti ci fa segno di passare.

Mancano tre giorni a domenica 10 aprile, data delle elezioni. Da Syabru Besi, ultimo luogo abitato raggiungibile con un mezzo a quattro ruote, ci vogliono tre giorni di cammino per arrivare a Langtang, capoluogo e sede elettorale di tutta la regione. Una lenta salita graduale lungo il Langtang Khola, in mezzo a foreste di querce e rododendri.
In questo periodo i rododendri sono in fiore. Fiori rossi, rosa o bianchi che si intravedono da lontano attraverso l’intrico dei rami degli aceri e degli abeti che costeggiano il fiume.



Poco prima di Changtang, meglio conosciuta come Lama Hotel, sotto alcune creste rocciose, a qualche centinaio di metri d’altezza dal fiume penzolano dei giganteschi alveari neri. Nei pressi degli alveari lunghe corde che dondolano al vento. Sono fissate ai tronchi d’albero sul ciglio della cresta rocciosa. Servono agli apicultori dei villaggi vicini che al momento della raccolta del miele vi si calano dall’alto Le corde poi vengono fatte oscillare per permettere agli uomini di raggiungere gli alveari.

Tra gli alberi giocano gli entelli, le scimmie sacre che gli induisti adorano sotto l’effigie di Hanuman, il dio scimmia prediletto dai bambini. Piccole, la testa grigia e le lunghe code sinuose, si spostano in branchi di trenta o quaranta. Scendono agilmente dagli alberi e a Rimche giocano sulla sabbia del fiume.
A Ghora Tabela gli alberi e le scimmie scompaiono e cedono il passo ai pascoli di yak. Sono piccoli gli yak del Langtang. Più piccoli degli yak dei grandi altipiani tibetani. Pascolano tranquilli, in mezzo a greggi di capre e a nervosi cavallini dalle zampe robuste che trotterellano liberi attorno ai lunghi mani da preghiera che separano in due i sentieri.
Via via che il sentiero si inerpica su per la montagna i muri da preghiera si fanno più numerosi. E così pure i mulini ad acqua edificati in modo da far girare incessantemente le ruote da preghiera. Da Ghora Tabela, dove un paio di soldati occupano un avamposto da deserto dei tartari, si intravedono brillare i tetti di Langtang.

Langtang, capoluogo del distretto omonimo, è un borgo di una cinquantina di case e qualche lodge abitato per lo più da Tarang o da fuoriusciti tibetani. Le case sono sparse, adagiate su uno sconfinato manto erboso sul quale pascolano pigri yak e cavalli. A parte i lodge, le case sono modeste, in pietra secca o fango. Quasi tutte hanno il tetto piatto in stile tibetano. Tra un’abitazione e l’altra un dedalo di muretti di pietra che racchiudono piccoli appezzamenti coltivati a grano saraceno, patate, frumento, rape, orzo e aglio.

Langtang è anche terra di corvi. Volano in coppia o a stormi sopra il villaggio. Entrano ed escono dal reticolato di bandiere da preghiera che si diparte dal piccolo mani in pietra secca al centro del paese. Sfrecciano al di sopra della piccola folla che si accalca davanti alla scuola del villaggio. Le grida rauche dei corvi si mescolano al suono sordo di un tamburo che fuoriesce da un minuscolo ghompa installato all’interno di una casa.

Sedute sul prato, attorno alla casa, tre vecchie chiacchierano fitto. Una fa girare meccanicamente il suo mulino da preghiera. Un’altra ride e nel contempo sgrana lesta un rosario di legno che stringe nella mano sinistra.
Sullo sfondo la cascata di ghiaccio che scende dal Langtang Lirung e dai 6780 metri del Kinshung.

C’è aria di festa oggi a Langtang. Tra la gente che si accalca attorno al cortile della scuola che funge da seggio elettorale l’eccitazione è palpabile. Le donne indossano quasi tutte l’abito tradizionale : lunghe gonne pesanti sotto rigidi grembiuli di lana colorati, tessuti a mano, e corti gilet dai quali fuoriescono i maglioni. I lucidi capelli neri sono stretti in una lunghissima treccia che pende rigida sulla schiena.. Le più giovani indossano dei fazzoletti annodati sulla nuca, le più anziane dei minuscoli cappellini neri di panno.
Si stringono le donne, o meglio si abbracciano l’una all’altra, tenendosi saldamente per la vita davanti all’ingresso del seggio riservato loro. Non c’è nessun bisogno di accalcarsi, di stringersi così. Lo spazio, lo spazio sconfinato del manto erboso, non manca. Eppure, per una quale misteriosa ragione, loro, le donne, si stringono. Non spingono. Attendono pazientemente il loro turno. Ma tutte, proprio tutte, si tengono allacciate.

A fungere da seggio elettorale è il cortile della scuola, un edificio a un piano, dal tetto di lamiera, che circonda il cortile su tre lati. Il terzo lato è chiuso da un reticolato di frasche, rami di acero, canne di bambù, tirato su alla bell’e meglio. Nell’intrico dei rami sono stati praticati due stretti pertugi che permettono di accedere al cortile. Fungono da ingresso al seggio e sono guardati a vista da militari. Una soldatessa per l’ingresso destinato alle donne e un soldato per quello destinato agli uomini.
All’interno del cortile siede la commissione elettorale sotto lo sguardo, a momenti attento, a momenti ridanciano, di un pungo di soldati in uniforme azzurra. Le cabine elettorali sono sistemate in fondo al cortile, lungo il muro della scuola . Rosa per le femmine e blù per i maschi, non sono altro che due semplici tavolini sui quali sono stati sistemati dei paraventi di cartone. Paraventi troppo bassi, devono aver pensato i commissari, per garantire la segretezza del voto. Il che spiega il nylon azzurro che pende come biancheria stesa al sole da un filo elettrico che attraversa il cortile e che finisce, a mò di tendina, sul paravento di cartone.
C’è tanta approssimazione e tanta serietà.

Appena fuori dalla scuola, sul muro di fango grigio di quello che sembra essere un ovile, sono fissati con dei chiodi i manifesti elettorali. I primi due esibiscono la lista dei partiti che si presentano alle elezioni. Comincio a contarli e poi mi perdo affascinata a studiarne i simboli. Sulle liste dei partiti in lizza non ci sono nomi ma solo simboli. Simboli curiosi e suggestivi. Un sole, una quercia, un ombrello, una stella a cinque punte, una mucca, un gallo, una luna, un tamburo oblungo, la tradizionale falce e martello, un’altra falce e martello, ma in questo caso con la falce a forma di fucile e il martello di bastone, una ruota dentata, il volto di un soldatino con un cappello da boyscout, un anello, una scala a pioli, una teiera, un cavallino, un paio di occhiali, una freccia, una spada, una sveglia, un pallone da calcio, una fiaccola, un aquilone…

La gente osserva attenta i simboli dei partiti poi passa a studiare i manifesti colorati che spiegano a fumetti le modalità del voto. Anche in questo caso, il messaggio è affidato al disegno. Chiaro e inequivocabile.
Su un primo manifesto è disegnata la carta del Nepal, ma al posto dei fiumi, delle montagne e delle città, spuntano tanti piccoli personaggi a mezzo busto. A coppie, uomini e donne, ognuno con tratti somatici, abiti o pettinature diverse. Donne dalla pelle scura che indossano il sari, donne col velo islamico, tibetane dalle lunghe trecce nere, donne vestite all’occidentale, donne con degli strani copricapi piatti che ricordano curiosamente una qualche etnia dello Yunnan cinese. In una sorta di ferrea morale manzoniana accanto ad ogni donna compare un uomo, il marito, che la foggia degli abiti e i tratti somatici indicano appartenere alla stessa etnia o classe sociale. Un ragazzo salta col dito da un omino all’altro ed enumera serio: « Chetri, Tamang, Raj, Gurung, Ghurka, Sherpa…. ».

In basso, sullo stesso manifesto due grandi orologi. Il primo con le lancette puntate sulle 7 del mattino. Il secondo sulle 17. Il messaggio è eloquente : tutte i cittadini, qualunque sia la loro etnia o la loro religione sono invitati a recarsi ai seggi per votare tra le sette del mattino e le cinque del pomeriggio.
Gli altri manifesti sono concepiti nello stesso spirito. In uno, sempre a fumetti, sono spiegate le modalità con cui apporre il voto sulla scheda. In un altro l’iter che l’elettore deve effettuare quando entra nel seggio. Farsi riconoscere dai commissari, farsi spennellare l’unghia del pollice con l’inchiostro indelebile, prova inconfutabile di aver già esercitato il diritto di voto, raccogliersi dietro la cabina elettorale, inserire la scheda nell’urna, firmare e uscire. Un terzo manifesto spiega quello che non è giusto fare : non è giusto strappare i manifesti elettorali, non è giusto fare pressioni in gruppo su una famiglia che si accinge a votare, non è giusto accendere un fuoco e cucinare nelle vicinanze del seggio e tantomeno presentarsi al voto armati. Tutto è spiegato con dei bei disegni colorati, dai quali spira un’aria di tranquilla sicurezza.

Ed è proprio di quest’ordine e di questa tranquillità, reali e tangibili, che mi parlano tutti. Me ne parla il maestro di scuola, con orgoglio, in un inglese scolastico. « Abbiamo notizie che tutto sta andando bene », mi dice. « In tutto il paese, salvo in un paio di posti. Non ci sono state violenze, nessuna intimidazione – ribadisce sorridendo. Questa volta ce la faremo. » Il paio di posti in questione, lo si saprà una settimana dopo, sono nel Terai, dove la guerriglia non è stata debellata. In questo caso è una minoranza, la minoranza madhese, che rivendica l’autonomia e da almeno sei mesi blocca i rifornimenti in carburante in provenienza dall’India.

Un soldato esce dal seggio e cortesemente invita un uomo che sta fumando una sigaretta ad allontanarsi di qualche metro. L’uomo acconsente senza sollevare obiezioni, si sposta di alcuni passi e riprende a chiacchierare. Poco dopo le due, il soldati che smistano i votanti bloccano l’ingresso con qualche ramo messo di traverso e fanno cenno alla gente in coda di disperdersi. Che sta succedendo, chiedo qua e là. Niente. Solo un momento di pausa per permettere alla commissione di bere il té. Grandi thermos cinesi colorati vengono trasportati all’interno del cortile. I maschi sciolgono le fila.
Le donne invece continuano a starsene bene in coda, abbracciate l’una all’altra. All’interno del seggio soldati e commissari sorseggiano il té seduti ai tavolini della scuola che fungono da scrivanie.

Una vecchia tibetana attraversa il prato camminando lentamente accompagnata da due uomini. È vestita con l’abito tradizionale ed esibisce due grandi orecchini d’oro ai lunghi lobi avvizziti. Ai piedi, un paio di ciabatte. « È partita stamattina prima dell’alba dal suo villaggio », mi spiega il maestro di scuola. « Ha camminato almeno otto ore per arrivare qui a Langtang a votare. » La accompagnano i due figli. Uno di loro la tiene par mano. La vecchia non perde tempo a riposarsi. Si mette direttamente in fila dietro alle altre donne, la faccia rugosa e incartapecorita dal sole. Un ragazzo accorre e le mette in mano un bigliettino bianco. Un bigliettino qualunque, strappato da un quaderno.
«Come si procede all’identificazione degli elettori ? », chiedo al maestro. Sono perplessa. Coloro che esibiscono i documenti, infatti, sono una minoranza. « Lo vede quel vecchio ? » mi fa l’uomo indicandomi un uomo che se ne sta seduto ad un tavolo all’interno del recinto. « Lui è la memoria storica di questa valle. È sempre vissuto qui e conosce tutte le famiglie. Quando gli si presenta di fronte un volto estraneo lui sa fare le domande giuste. “Chi sei ? Come si chiama tuo padre ? E tua madre ? Dov’è il tuo villaggio ? Chi è tuo cugino ? E il lama del tuo villaggio come si chiama ?” . Nessuno sfugge all’interrogatorio di Dzochen. Lui, Dzochen, conosce tutti, o quantomeno la storia di tutte le famiglie della valle. È lui, Dzochen, il nostro registro degli elettori. Ed è estremamente affidabile…. ».

Apparentemente, la vecchia accompagnata dai figli non è l’unica elettrice che ha dovuto percorrere delle lunghe distanze per raggiungere il seggio. Langtang è il capoluogo di una regione montagnosa. I villaggi sono lontani, a volte a più di un giorno di marcia. Un ragazzo mi spiega che in molti sono arrivati al villaggio fin dalla sera prima, per essere pronti al voto la mattina presto e riuscire a rientrare a casa loro entro sera.

Alle 5 del pomeriggio i seggi chiudono puntuali. Hanno potuto votare tutti. Le donne in fila. La gente venuta da lontano. Attorno alla scuola si formano dei capannelli. Uomini, per la più parte. Nesuno sembra infastidirsi se gli viene chiesto il nome del candidato a cui ha dato la preferenza. Prachanda, rispondono quasi tutti. Un uomo indica i miei occhiali da sole. Sono interdetta e poi ricordo che tra i partiti ce n’è uno il cui simbolo è proprio un paio di occhiali. Poi l’uomo ride e se ne va. Un giovane tibetano, rappresentante di una ONG di stanza a Kathmandu, mi si avvicina e sottovoce in inglese mi dice che non è vero, che tutti annunciano che hanno votato per Prachanda, ma che lo fanno per paura, perché non si sa mai. Qui i maoisti, aggiunge, la fanno da padrone.

Le donne, ad eccezione di alcune vecchie che chiacchierano sedute a terra, si sono allontanate. Un gruppo di bambini gioca nelle vicinanze. Si lasciano scivolare lungo una breve discesa di fango in bilico su alcuni pezzi di plastica o su alcuni grossi cartoni. Li usano come slitte. Una bambina raccoglie dell’acqua dal torrente e la versa coscienziosa sulla discesa per renderla più liscia e scorrevole.

Dopo l’ennesima cerimonia del tè le urne vengono sigillate sotto gli occhi di quelli che sono rimasti. Un paio di soldati resta a guardia del seggio. Domattina all’alba le urne verranno portate a valle. Sulla schiena, da due portatori sherpa scortati dai soldati e dai rappresentanti dei principali partiti. Tra tre giorni arriveranno a Dumche, e da là verranno trasportate in un camion militare fino alla capitale per essere contate.

La sera al lodge i porter e le guide sono eccitati. Quando si sapranno i risultati ? – chiedo. «Definitivi ? », risponde Norbu, una vecchia guida himalyana che nell’85 aveva partecipato alla spedizione di Messner sull’Annapurna e il Dhaulagiri. « Tra tre settimane », dice, come fosse un’ovvietà.

Ma nei giorni successivi le voci rimbalzano da una valle all’altra. « Già 20 deputati!», mi confida, Dharma, a Kajin Ghompa. Lui è un bramino, mi dice con orgoglio. E aggiunge : « Come Prachanda ! ». Tre giorni più tardi, a Ghosaikund, Tashi, che è guida di montagna e nella stagione del monsone, quando sono pochi i turisti occidentali che si inerpicano su per le valli, fa il cantante a Kathmandu, spara la cifra di 102 deputati attribuiti ai maoisti. « Ma come lo sai ? », gli chiedo. Siamo a 4800 metri, il giorno prima c’è stata una tempesta di neve, e sono in pochi quelli che sono riusciti a raggiungere i laghi. La gente lo sa, risponde lui, le voci corrono da una valle all’altra.

Fa freddo a Ghosaikund. I laghi sono in parte coperti da un sottile strato di ghiaccio. L’aria è tersa e cristallina. Attorno alla stufa, la stessa sera, tutti si stringono nelle coperte. Il vento gelido si infiltra tra le assi di legno del rifugio e le radici che vengono introdotte regolarmente nella stufa bruciano male e non riescono a scaldare la stanza. I porter chiacchierano animatamente, sorseggiando il rakhsi. Nelle conversazioni, a tratti, sento pronunciare il nome di Prachanda.
Voglio capire.

A Langtang, a Kajin Ghompa e Syabru Thule i maoisti hanno stravinto. Com’è possibile, chiedo. Com’è possibile che dei rifugiati tibetani, gente che è scappata dal Tibet per sottrarsi alle vessazioni dei cinesi, abbia votato compatta per l’uomo che è amico della Cina e che neanche tre anni fa assumeva a modello i khmer di Pol Pot ? « La gente vota come dice loro di votare il capo del villaggio », mi spiega Tashi. « E il capo del villaggio è una persona saggia. Sa che la vittoria dei maoisti metterà fine alle requisizioni, alle estorsioni, ai reclutamenti forzati. Se vince Prachanda il paese ritroverà finalmente la pace. » Ma lo sa la gente che cosa ha fatto Pol Pot, che cosa è successo in Cambogia ? Tashi, non capisce. Mi guarda sorridendo. « Se Prachanda non farà quello che ha promesso, dice, la gente lo manderà via. Due anni fa siamo scesi in strada per dire basta al re. Faremo lo stesso con Prachanda. ». Sto per parlare del rischio che la stampa venga messa a tacere, che le ONG se ne vadano, che le agenzie turistiche considerino il Nepal un paese poco affidabile, ma non dico niente. Tashi è sicuro e fiducioso. E forse le mie categorie, il mio concetto di democrazia, qui, non funziona.
Qui c’è la neve. L’aria è rarefatta e c’è tanto silenzio.

Ho percorso il Langtang tra il 7 aprile e il 23 aprile. Oltre a Claudio, il mio compagno di vita e ad Andrea, mio figlio, sono venuti Bal Kumar, Ram Giri, Gokul Kumar Raj e Purna Gurung. Non ho parole per ringraziarli. Come al solito il buon Navyo si è occupato, eccellentemente, di noi.

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