di Luciano Marraffa –
18 dicembre – 15 gennaio. Volo: compagnia KLM , prezzo A.R per Addis Abeba € 853,04 a persona. Partiamo alle 6,50 da Linate il 18 dicembre. Scalo ad Amsterdam da cui ripartiamo quasi due ore dopo. Arriviamo nella capitale etiope alle 23,00 del giorno dopo, in orario perfetto, dopo aver fatto scalo tecnico a Kartoum.
L’orologio bisogna spostarlo, per questione di fuso orario, di due ore avanti. Attendiamo a lungo e inutilmente i bagagli che non arrivano a destinazione; non ci resta che denunciarne lo smarrimento all’ufficio dell’aeroporto. Pazienza per il momento! Il viaggio inizia con questa sgradita sorpresa, ma non bisogna scoraggiarci proprio al principio del gran tour che sappiamo non alieno a imprevisti. Ci accontentiamo di due beauty cases offertoci dall’ aeroporto con articoli per provvedere alle nostre necessità immediate, ma per fortuna contiamo soprattutto sulla cordiale ospitalità dei nostri amici residenti ad Addis Abeba, Leonarda e Mostafa, che ci attendono al nostro arrivo e ci portano con l’auto a casa loro.
L’aeroporto è ben illuminato per il millenium 2000, la ricorrenza del secondo millennio in Etiopia, vale a dire con sette anni di ritardo rispetto al nostro calendario, poiché qui si usa ancora il calendario giuliano. Illuminati sono anche le strade principali della capitale con decoro, senza magnificenza.
Ma dopo aver attraversato le strade asfaltate del centro, imbocchiamo in periferia una pista sterrata molto accidentata con buche, spuntoni di pietra che fanno sussultare continuamente la nostra auto. La luce elettrica è fioca, ma nella quasi oscurità , ohimè!, s’ intravedono cenci d’umanità accovacciati o distesi per terra, che per poco non si confondono con i massi di pietre lì presenti. Poco più avanti la chiesa più illuminata.
Arriviamo alla casa dei nostri amici, un’isola felice attorno a un certo squallore: il guardiano sempre vigile nella piccola guardiola interna, il giardino recintato da filo spinato e con cancello a prova di sguardi e le numerose stanze. Il guardiano, ci dice la nostra amica, è una tradizione obbligata in questa dimora in affitto, è una brava persona, forse analfabeta, un ex pastore che si rifiuta di vivere in una camera più capiente della villetta..
Il letto ci attende, ma non si può fare a meno di udire nella notte ululati di cani randagi e altri suoni di animali non identificati.
L’indomani mattina, poco dopo le sei, sveglia del gallo, gran sole dalle finestre, cielo completamente azzurro e terso, aria tiepida quasi estiva. Ci viene a prelevare per il giro nella città l’autista di famiglia, Mckonnen, che sarà sempre a nostro servizio nei giorni trascorsi in Addis Abeba.
Uscendo dalla villa i cenci sono uomini e donne in piedi o in ginocchio a chiedere un obolo ai cristiani che entrano in chiesa. Per la strada, per un bel tratto non asfaltata, un brulicare di persone in cammino, qualche carretto trainato da asini con passeggeri, bambini che si avviano verso la scuola con divise differenti secondo la scuola di appartenenza, poi sempre più auto, taxi bianco-azzurro della marca Toyota o addirittura delle Traibant del periodo sovietico, pulman dello stesso colore sovraffollati. Noi non avvertiamo, rinserrati nell’auto, tanfo e odori, polvere e smog della città, ma quando apriamo i finestrini o mettiamo piedi fuori dalla macchina è un altro discorso!
Non facciamo tanta strada che già vediamo mani che si protendono per una richiesta di denaro o altro verso noi stranieri. E già! la povertà è enorme e palese in questa metropoli: giovani, vecchi, ragazzi, uomini e donne, sani e ammalati in continua ricerca di aiuto. Noi non possiamo risolvere il problema della povertà , ma alleviare – forse s ì- il problema di qualcuno che soffre della privazione del minimo vitale con l’offerta di qualche centesimo, per noi una nullità. Conviene, comunque, farlo con molta discrezione, per non avere tanti attorno e sentirsi quasi assediati!
Gironzoliamo per la città. Piazza Menelik II col monumento al grande imperatore di Etiopia e fondatore, alla fine del XIX secolo, con la moglie Taitu della nuova capitale Addis Abeba “nuovo fiore” , più a valle della vecchia città Entoto. Nelle sue vicinanze la chiesa cristiana ortodossa di San Giorgio, molto venerata dagli etiopi e orgoglio nazionale, perché costruita in seguito alla vittoria sull’armata italiana ad Adua (1896), vittoria che ogni anno si festeggia in tutto il Paese.
Si sa che la religione principale degli etiopi è il cristianesimo ortodosso (copto), molto originale con radici giudaiche nei precetti e nelle tradizioni, ad esempio per la pianta circolare delle chiese e per l’osservanza del digiuno e la pratica della circoncisione.
Visitando la chiesa di San Giorgio abbiamo incominciato a capire alcune caratteristiche comuni a tutti i templi cristiani: il luogo inaccessibile ai fedeli, ma non al sacerdote, è il sancta sanctorum in cui si conserva una copia dell’arca dell’alleanza e la tavola della Legge; vi è una gerarchia di avvicinamento al luogo più sacro; tutte le chiese hanno un recinto racchiuso da una cancellata. I fedeli in piedi o seduti ripetono rituali di preghiera alla maniera degli ebrei e dei musulmani. Ma la cosa che più colpisce è la presenza dominante, esteriore della religione, che sfiora la superstizione e stride con la contemporanea realtà dei poveri abbandonati per strada, di tutte le età e dei due sessi. I senza tetto poi se ne vedono tanti in giro, che espletano tranquillamente anche i loro bisogni fisiologici, con maggior ritegno da parte delle donne. A proposito, la rete di fognatura pubblica pare non esistere in questa città, né in altre che incontreremo, poiché un particolare miasma colpisce ogni tanto il nostro olfatto.
Incontriamo per strada storpi, acciaccati di ogni specie, fra cui poliomielitici, qualche uomo-scimmia che si trascina con le braccia a terra, alcuni ciechi accompagnati da altri individui non da cani addestrati, in una parola: uno spettacolo che non ci lascia indifferenti, mentre transitano persone ben curate e vestite, magari alla maniera occidentale, che sembrano non accorgersi della realtà esterna. Non si può fare a meno di pensare alla sanità pubblica assente o gravemente carente in questo Paese fra i più poveri del mondo, per cui la gente si deve arrangiare individualmente come meglio può.
A quante persone possiamo dare una mano, magari nel loro primario bisogno di cibo? La seconda sera ad Addis Abeba, uscendo da un tipico locale, vedo correre felici due ragazzini di strada a cui avevamo regalato due arance, non proprio eccellenti.
La sera del 20 dicembre concerto del celebre jazzista Gaslini all’Istituto di cultura italiana, dove lavora la nostra amica Leonarda. Folla stipata oltre i posti disponibili con finale di offerta di panini. Ritorno a casa, solito spettacolo di gente abbandonata sul ciglio della strada dissestata.
L’indomani , poco tempo a disposizione, ma utile per visitare due importanti musei della capitale, il museo nazionale e quello etnografico, non prima averci fatto risarcire dalla compagnia KLM di $90 cadauno per il danno dei bagagli, che fortunatamente ritroveremo il mattino dopo all’aeroporto,sani e intatti. Delusione però al museo nazionale per non aver ammirato il pezzo forte dell’ominide Lucy, se non sotto forma di calchi in gesso. Nella stesso giorno prendiamo accordi con l’agenzia “Lake Tana” per prenotare e organizzare il viaggio per la valle dell’Omo nell’ultima settimana del nostro tour in Etiopia.
22 dicembre. Inizia il nostro viaggio, cosiddetto circuito storico, che ci porterà nell’Etiopia settentrionale, escludendo la difficile depressione della Dancalia. Di solito la maggiorparte dei viaggiatori si sposta in senso orario, passando da Bahir Dar e terminando con Lalibela. Noi faremo all’incontrario, fermandoci dapprima a una meta intermedia per arrivare a Lalibela e finendo con Bahir Dar. Infatti la strada è lunga e non proprio scorrevole, si punta a KOMBOLCHA, circa km. 375 distante da Addis Abeba, per arrivare a malapena entro la serata. Siamo in quattro persone a partire, più l’autista Dereje, con un fuoristrada noleggiato a 600 birr al giorno (la moneta locale), più benzina a nostro carico. Ci hanno assicurato che il fuoristrada è fatturato nel 1987, ma con poca convinzione da parte nostra, come verrà confermato dai diversi acciacchi occorsogli durante il percorso.
Facciamo il pieno di diesel, occhi curiosi attorno a noi, qualcuno è tentato di ficcare il naso dentro l’auto. Si parte finalmente per il gran tour, che ci ha programmato Leonarda con le necessarie prenotazioni di alberghi!
Nel percorso sembrano prevalere le persone sulle macchine; queste ultime, comunque, contribuiscono a una grande confusione, regalando alle nostre narici.e agli occhi altro disagio che si aggiunge a quello causato dal diesel del nostro fuoristrada.. Fuori la città farà da padrone la polvere che attenterà costantemente alla nostra preziosa gola. Uscendo da Addis Abeba capisco meglio dove abita la gran parte della popolazione: non nei palazzi o edifici di un certo lusso riservati agli uffici governativi, alle società, alle banche, ai centri commerciali o a una certa elite di persone, ma in vere e proprie baracche in pianterreno modestamente attrezzate, quasi tutte uguali e senza attrazione per la vista.
Le strade risultano asfaltate solo quelle principali, le altre sono sterrate e malconce., salvo alcune più antiche con selciato. La periferia della metropoli cambia solo per la quasi assenza di grandi edifici in muratura , perché la maggioparte delle case sono baracche con struttura interna in legno e pareti cementate da una malta di fango pressato e paglia, esternamente pitturate per lo più in bianco
e con il tetto in lamiera. Quindi Addis Abeba mi appare quasi un’unica grande favela con una moltitudine di gente, che non si sa a quanta ammonti, ufficialmente 2-3 milioni, ma c’è chi parla di 5 milioni: è impossibile saperlo con precisione poiché non funziona un regolare sistema di censimento né esiste l’ obbligo dell’ anagrafe.
Uscendo dalla capitale s’incominciano a vedere i villaggi con la loro tipica abitazione, il tukul in forma circolare, costruito tutto in materiale legnoso (tronchi, rami,foglie, paglia), compreso il tetto conico in fibra vegetale; vi è solo un’apertura d’entrata; mancano in genere finestre e comignoli perché il fumo fuoriesce dagli interstizi e suffumica l’ambiente proteggendolo dagli insetti ; di tanto in tanto, più isolate, si vedono altre capanne con base rettangolare o quadrata, fornite ognuna di una finestra e tetto in lamiera, abitazioni che forse solo i più facoltosi possono permettersi di possedere. Così i villaggi incontrati appaiono tutti uguali, variamo i tukul, che sono o integri o incompleti in fase di costruzione con travi incrociati oppure accatastati, altri chiaramente in disfacimento, altri sono arricchiti da recinti per gli animali. Talvolta nei villaggi s’intravedono chiese, moschee, edifici scolastici oppure, più raramente, piccole cliniche, tutti edifici che si distinguono perché meglio costruite: in muratura e con copertura in lamiera.
Cosa vediamo ancora lungo il tragitto? Una moltitudine di persone a piedi in continuo movimento: da soli, in gruppo, con animali, con utensili di lavoro o con materiale per la casa, uomini e donne bambini e ragazzi, greggi di pecore o di capre o di mucche (comprese quelle con la gobba, i zebù), più raramente, di asini o di dromedari. L’asino è l’animale da soma più utilizzato e quello che attrae la nostra maggior simpatia. Numerose sono le donne che lavorano sui campi o trasportano legna per strada oppure sono indaffarate in faccende di casa. I bambini e i ragazzi, se non si vedono andare a scuola, o conducono gli animali oppure si soffermano per strada a passarsi il pallone, mettendo in difficoltà il nostro autista; alcune coppie di amici si tengono per mano senza scandalo, gli uomini quasi sempre camminano con il bastone in mano. Il dula, appunto, è il fedele compagno di viaggio, soprattutto degli appartenenti all’etnia amhara. E’ un bastone di legno robusto lungo circa un metro, utilizzato per diversi scopi: per trasporto, per sostenere le braccia durante le marce prolungate, appoggiarsi durante le lunghe funzioni religiose, per difendersi in caso di necessità. Oggi forse lo scopo principale è quello di tenere lontano i cani aggressivi.
Tra le persone in cammino noto che molti non portano calzari ai piedi e più avanti mi convincerò nell’ipotesi che forse costituiscono la maggioranza , almeno fino a Macallè.
Cosa sono quelle specie di pietre una sopra l’altra accanto ai tukul? Sono delle formelle di letame di vacche fatte essiccare per il fabbisogno di riscaldamento delle famiglie.
Una sosta rapida per uno spuntino a un posto di ristoro: inutile pensare a panini o sandwich, ma a un semplice pasticcino accompagnato da un tè aromatizzato o a un caffè, magari “macchiato”, in ricordo dell’italica colonizzazione. In questo locale notiamo un bambino, figlio del proprietario, col muco perennemente in stalattite. La pulizia non è proprio una caratteristica degli abitanti dei villaggi, forse non solo a causa della povertà! Anche il semplice gesto di soffiarsi il naso non prevede l’uso di fazzoletti o altro; sarà pure un problema di acqua carente, ma mi convinco sempre più che la mancanza di igiene è pure dovuta allo stretto contatto che tutti hanno con la terra. Ci fa piacere, invece, ammirare le svariate fogge nel vestire e soprattutto nell’acconciature delle donne etiopi.
Non trascuriamo la visione del paesaggio sempre interessante e vario, visto soprattutto dall’ alto (l’Etiopia è quasi tutto un altopiano) e costituito da spazi immensi dove è poco presente l’azione dell’uomo, se non per le coltivazioni e il disboscamento. Si alternano durante il viaggio altipiani con tanto verde fino alle cime più alte, terrazzamenti operati dall’uomo, piccoli campi coltivati, terreni più aspri, rivoli di fiumi o fiumi in secca (uadi), canyon, praterie, rare steppe. Non è la stagione più propizia per le colture, poiché tra settembre e marzo in Etiopia è la stagione secca. Tuttavia osserviamo in alcune zone le ultime mietiture del grano, del più diffuso miglio locale il teff, il lavoro di sgranatura degli uomini o delle donne.
Verso il tramonto le persone rientrano più numerosi verso i villaggi col seguito di animali, ma non pochi si attardano fino al sopraggiungere dell’oscurità. Quando ormai è sera notiamo che i tukul sono illuminati con l’energia elettrica, salvo quelli più isolati.
Finalmente, stanchi del viaggio e del continuo sussultare del fuoristrada sulla strada in buona parte accidentata, arriviamo verso le 22 a Kolbolcha, appena in tempo per ordinare qualcosa da mangiare presso l’albergo che ci ospiterà per la notte. Questo albergo frequentato – abbiamo saputo dopo – da quelli di “Avventure nel mondo” è alquanto spartano e vecchio, non proprio lindo e attrezzato, ma almeno ci permette di ripararci con la zanzariera da qualche zanzara importuna e ritardataria.
23 dicembre. Destinazione LALIBELA, circa 300 chilometri da percorrere. La strada è quasi tutta sterrata, in molti tratti nemmeno spianata a dovere, con pietrame che spunta ogni dove, ma i lavori di costruzione o di manutenzione sono continui, così da sembrarci un unico grande cantiere. In particolare notiamo che riparano o costruiscono ex novo impianti per lo scorrimento delle acque, che passano sotto la pista; fra gli operai ci sono anche donne e bambini che spaccano oppure trasportano le pietre (evidentemente non esistono martelli pneumatici o sono pochi i mezzi di trasporto e le industrie di trasformazione!). Non posso fare a meno di osservare la natura franosa del terreno e di pensare agli immensi capitali necessari per contenerne la caduta con opportune barriere. Rarissimi sono i segnali stradali di nostra conoscenza, poiché per indirizzare il percorso alle auto sono sufficienti delle pietre messe in colonna o in una certa maniera.
Mi chiedo: da dove le autorità pubbliche prelevano i capitali per costruire o tenere in manutenzione le strade, se la stragrande maggioranza della popolazione è al limite della sussistenza? Certamente dai pochi ricchi del Paese e dagli stipendiati regolari, che sono una minoranza e quindi: quanti anni ci vorranno per dotare di un’efficiente infrastruttura stradale tutto il territorio nazionale? Senza considerare poi il paradosso che i governanti etiopi stornano maggiori capitali per gli armamenti con l’obiettivo di configgere con i Paesi vicini, per cui mi chiedo ancora una volta: quale futuro si prevede per le infrastrutture e per lo sviluppo dell’Etiopia?
Verso il tramonto ci avviciniamo a Lalibela, sempre più in alto. Ci fermiamo rapidamente in un villaggio, in cui bambine e donne ci vendono sacchetti di fave cotte e farro abbrustolito. Gli insediamenti umani si fanno più radi, i tukul perdono in parte la struttura in legno, in quanto la forma circolare è fatta in pietra levigata, forse a causa della scarsità di alberi e per la pietra abbondante nella zona. Notiamo che la rete elettrica passa da quelle parti, ma con l’oscurità le abitazioni sono quasi tutte senza luce, evidentemente perchè la gente non è in grado di allacciarsi alla rete, per cui ricorre a lumi o candele. Col favore della luna piena alcuni uomini si attardano a ritornare a casa, passa poi un camion carico di persone. A un certo tratto della pista gran rumore di lavori in corso: una escavatrice gigante, trasportata da chi? Da un cinese. Altri operai sono all’opera intorno. Abbiamo in seguito saputo che ai cinesi è stato appaltato gran parte della ristrutturazione stradale sia per accelerare i tempi di consegna sia, forse, per costi inferiori rispetto alle richieste del Fondo Monetario Internazionale, dietro cui operano i Paesi ricchi, che fanno anche prestito di denaro con alto interesse.
Finalmente arriviamo verso le ore 21 a Lalibela che si trova a 2630 di altezza! Cittadina con circa 8.500 abitanti, illuminata adeguatamente, ci accoglie su strade tutte sterrate e polverose. Alloggiamo in una albergo di pretese economiche non proporzionate al servizio reso e alla struttura ancora incompleta . L’hotel è del sig. Morello, affaccendato a guadagnar quattrini da altri alberghi di sua proprietà, costruiti anche con il contributo pubblico. Prevediamo di trascorre tre notti e due giorni in questa cittadina per avere il tempo sufficiente per visitare le chiese rupestri.
La prima mattina, appena mettiamo piedi per terra frotte di bambini e di ragazzi fanno cerchio attorno a noi per chiedere “money” o “pen”, giustificando talvolta la richiesta per le loro necessità scolastiche. Due insistono più a lungo degli altri e mi accompagnano per un bel tratto di strada, uno dei due sostiene di studiare portoghese, chiedendomi di comprargli il libro, ma alla mia richiesta di dirmi qualche frase in portoghese non sa rispondere e taglia la corda, seguito dal suo amico.
Le chiese di Lalibela e dintorni sono particolari, perché sono scavate nella roccia, alcune straordinariamente su un blocco unico monolitico, ma tutte completamente staccate dalla roccia (a differenza di Petra), sono state scolpite con un’arte raffinata e sono tante in un’area ridotta. Talvolta sono anche affrescate e conservano altri tesori importanti, tra cui bassorilievi, croci nelle diversissime forme, messali miniati, altri oggetti di culto. Nelle chiese si usa entrare scalzi, talvolta il prete ortodosso ci presenta una croce in metallo molto elaborato artisticamente, che i fedeli baciano ardentemente per riceverne la benedizione. In due o tre casi ci sono stati mostrati con orgoglio dei messali in pergamena, manoscritti nella lingua antica il ge’ez (da cui sono derivati l’amharico e il tigrino) e pitturati a mano con un realismo quasi primitivo. Sfogliando alcune pagine molto annerite e ridotte nelle parti marginali , è venuto spontaneo il pensiero dell’esigenza di una maggiore e più adeguata protezione di questi tesori artistici. Dimenticavo: tra le tante croci rappresentate non mi è sfuggita una con forma ariana tipo svastica , che ho visto anche in Indonesia.
Quale impressione ricavo ammirando queste chiese rupestri? Un misto di grande considerazione per l’ opera degli uomini (se ardenti cristiani o schiavi obbligati è la storia che lo deve chiarire), ma nello stesso tempo di commiserazione per la gente locale, che si esprime con una religione alquanto primitiva, timorosa della divinità e sussidiosa verso il clero, una religione solo esteriore che non agisce da lievito per cambiare la situazione di povertà diffusa nel Paese. Per la cronaca: la mattina vediamo sei chiese del gruppo nord-occidentale di Lalibela, il pomeriggio cinque del gruppo sud-orientale, accompagnati dalla stessa guida che si esprime in inglese. Prezzo pagato alla Chiesa: birr 150 a testa; alla guida il prezzo unico del gruppo birr 200.
Il primo pomeriggio di Lalibela può servire per fare shopping, ma non se ne fa quasi niente, un po’ perché i commercianti ci sembrano esosi verso i turisti, un po’ perché siamo pressati dai soliti bambini che chiedono aiuto. Vediamo tanto bimbi senza scarpe ai piedi, per cui la mia amica decide di comprarne alcune paia al mercato. Ma, figurarsi! I commercianti sparano cifre assurde da queste parti, non tanto per il turista da sfruttare, anche se si rendono perfettamente conto che la turista, in questo caso, aiuta i loro bambini. Leonarda prova con diversi commercianti fino a quello più assennato. Devo quindi dedurre che manca assolutamente la solidarietà da parte di chi vive meglio verso chi si trova nello stadio inferiore e miserabile. Tuttavia mi chiedo se i ragazzi senza scarpe sono gli stessi che ho visto poco prima uscire dalla scuola con la loro belle divise colorate, ben curati e calzati. Mi risulterà poi dalle statistiche che l’analfabetismo supera il 50% della popolazione etiope, quindi ci sono tanti bambini che non vanno a scuola e non possono permettersi neanche le più modeste calzature. Quella stessa sera io e Nina, rimasti soli, non riusciamo a imboccare la strada per il nostro hotel, di cui ci sfugge il nome; niente paura, alcuni ragazzi ci fanno da guida e quindi sono giustamente compensati per il disturbo.
L’indomani visita ad alcune chiese rupestri intorno a Lalibela.. A Yeremanna Kristos, vi arriviamo dopo una salita piuttosto irta: è una chiesa insolita, perché poggia su pannelli di legno di olivo accuratamente disposti su un terreno acquitrinoso e perché è stata in parte costruita, piuttosto che scavata e la sua facciata è fatta di strati alterni di legno e pietra. Dietro la chiesa troviamo un cimitero di pellegrini mummificati che nel corso dei secoli sono venuti fin qui per incontrare la morte: attenti dove si mettono i piedi per non inciampare su un teschio nascosto! Bilbila Chirkos è famosa per gli affreschi antichi del 523 d.C. Bilbila Giyorgis, egualmente antica è una chiesa interessante per i cinque sciami di api in essa presenti e il miele sacro, curativo per i disturbi psicologici e i problemi dermatologici, ma il prete non ce lo fa assaggiare, secondo l’usanza.
Finiamo la serata in un uno dei migliori ristoranti di Lalibela, il Seven Olives Hotel cenando all’interno di un tukul rotondo e modernizzato e fumando al fresco della terrazza frondosa.
25 dicembre. Natale in viaggio verso MACALLE’. Partenza alle ore 10. L’autista non sa dirci quanti chilometri faremo, poiché, tra l’altro, non funziona il contachilometri del fuoristrada. e sulla carta topografica non è indicata la strada che faremo, ma che conosce solo Dereje. Forse, comunque, faremo all’incirca 370 km. Il tracciato si presenta quasi tutto ghiaioso e questo viaggio è da ricordare per la polvere incredibile che abbiamo respirato e si è posata sui nostri vestiti e sulla cute e sui bagagli. Tuttavia abbiamo ammirato il paesaggio in certi tratti stupendo, che ricorda il far west americano.
I villaggi sono più rari rispetto ai percorsi precedenti. Incominciamo a vedere colori e fogge diverse nel vestire, poiché entriamo nella regione più a nord del Tigrai.
Il tipico abbigliamento etiope può essere così descritto: per le donne si usa il kemis, un lungo vestito di cotone spesso ricamato sui bordi, intorno al collo e alle spalle, in alcune zone a forma di croce e arricchito di fili d’argento. Sopra il kemis si indossa lo shamma, un drappo lungo di cotone sottile simile alla garza con gli stessi motivi del kemis, che avvolge tutto il corpo dai piedi fino a coprire il capo. Lo shamma è portato talvolta sugli abiti moderni. Altri tipo di indumento sopra gli abiti può essere il netela, di leggero cotone bianco o il kutta, più pesante del precedente. L’abito bianco,che simboleggia la resurrezione di Cristo, è usanza indossarlo nelle feste. Utili accessori sono: per le donne, il simpatico portabambini in pelle; per tutti, gli ombrelli variopinti necessari sia per il sole sia per la pioggia. Gli uomini oltre allo shamma indossano anche un’ampia camicia sulle spalle e poi calzoni corti o larghi pantaloni in stile arabo.
Il Tigrai confina anche con l’Eritrea. L’impressione che abbiamo è di trovarci tra un popolo più dinamico e leggermente più avanti degli amhara: non è un caso che il presidente etiope è un tigrino? Lungo i cigli della strada il solito via vai di gente a piedi ma con le scarpe, sono più rari i villaggi incontrati che hanno abitazioni in muratura col tetto in lamiera oppure da tukul; questi ultimi, comunque, sono fatti alla base in pietra con una porta e finestra sul davanti e col tetto di lamiera coperto da erba, paglia o rami secchi per conformarlo alla natura esterna. Per le pareti esterne sembra che i benestanti ricorrano al cemento piuttosto che alla malta tradizionale; non a caso abbiamo intravisto da lontano una cementificio locale tra i pochi esistenti nel Paese.. Notiamo che l’elettricità arriva in tutti gli insediamenti e che alcuni operai stanno ultimando la rete telefonica. A una fermata di un villaggio diamo il passaggio in macchina a un prete e a due donne, alloggiati alla meglio dietro i nostri bagagli. Un’altro stop, questa volta per uno spuntino veloce, a Sokota. Scegliamo un locale ben colorato esternamente e decorosamente attrezzato all’interno, con una grande sala in terra battuta, sedili di cemento intorno e con suppellettili della modernità, come frigorifero e TV. La signora ci porta la brocca d’acqua che fa scorrere in un catino per lavarci le mani, poi ci offre, a nostra richiesta, il bajanet, semplice cibo tradizionale costituito da injera, una specie di grande piadina sottile e morbida da spezzare e prendere, possibilmente, con la mano destra, con cui avvolgere delicatamente e senza ingordigia lenticchie, riso, verdure, scartando da parte di noi stranieri le insalate lavate, come si sa, con acqua a noi poco congeniale.. L’injera non manca mai nei pasti degli etiopi, sostituisce il pane ed è fatta con un miglio del luogo, chiamato tef, oppure, più raramente, da sorgo, si usa mangiarla tradizionalmente in compagnia. Io ci provo, ma non è proprio attraente alla vista e al palato, anche se è accompagnata da aromi fortemente speziati! Bevanda richieste: tè squisito ben aromatizzato, birra locale, aranciata Mirinda, acqua minerale Ambo frizzante naturale. In altre situazioni l’injera è accompagnata da diversi tipi di carne saporita, ma non sempre morbida al nostro palato. Tutti restiamo soddisfatti, allontanando per il momento la fame e la sete. Modica cifra collettiva per 5 persone, circa 50 birr ( per arrivare a 1€ ci vogliono 12-13 birr).
Stanchi, come al solito, arriviamo a Macallè o Mekele in lingua locale. Ottimo l’albergo Aksum hotel con un servizio inappuntabile, la madame all’entrata e la guardia in uniforme che ci saluta alla maniera militare. Un giro per la città per prendere una rinfrescante spremuta di frutti esotici, tra cui – novità – anche di cactus, in realtà estratto di pale di fichi d’india, facendo attenzione di far usare la nostra acqua minerale. Di sera si mangia un pò meno tradizionale e con il finale di panettone portato dall’Italia. Gli altri possono guardare, ma non partecipano, poiché il Natale in Etiopia è rimandato all’Epifania. Nell’hotel prevediamo di passare tre notti, per me e Nina al quarto piano senza ascensore.
L’indomani visita al palazzo e museo del re Giovanni IV, al monumento e museo dei martiri del Derg, governo comunista dal 1974 al 1991. Non c’è molto da vedere a Macallè, ma è un conveniente punto di appoggio per visitare le chiese rupestri del Tigrai. La città ci appare, comunque, con i suoi 158.000 abitanti e quale capitale di questa regione, molto dinamica e viva, con un assetto più regolare e meno caotico di Addis Abeba. Pochi sono i palazzi, le case per lo più a pianterreno sembrano una sequela continua di boutique, piccoli esercizi commerciali compresi quelli cinesi, con la gente continuamente in attività e in movimento, pure sotto il caldo canicolare..
Le chiese rupestri del Tigrai sono circa 120, alcune altrettanto antiche come quelle di Lalibela. Noi ne potremo visitare una diecina, anche perché si trovano distanti dal nostro tragitto o non sono facilmente raggiungibili per la posizione.. La chiesa di Abraha Atsbeha del gruppo di Gheralta del X secolo merita di essere visitata, ma il prezzo richiesto di 50 birr ci sembra esoso, il doppio di quanto previsto dall’ufficio d’informazione di Macallè da noi consultato e in più il prete custode si rifiuta di darci il tiket. Noi tentiamo di chiedere un prezzo più equo, ma niente, proviamo a farci dare il tiket, non ha la penna, io gli presto la mia, ma lui la getta furiosamente a terra. Protestiamo ancora, solo Leonarda si decide a pagare e vedere la chiesa.
Nelle altre visite decidiamo di rassegnarci all’imposizione del clero, poiché in questa faccenda è sovrana solo la Chiesa, lo Stato sembra non contare minimamente.
Al villaggio di Wukro visitiamo la chiesa di Chircos semi-monolitica, un po’ storta, a pianta cruciforme e in arenaria con bellissime colonne,capitelli cubici, fregio aksumita e un soffitto angolare fatto squadrare da Hailé Selassié. Pranzo tradizionale in un mediocre hotel-ristorante di Wukro. Dei bambini ci guardano mangiare: affamati o curiosi? E’ comunque un peccato lasciare nel piatto i resti! A loro vanno i panini non consumati e acqua e aranciata rimaste a metà nelle nostre bottiglie.
La chiesa di Debre Tsion Abraham con cupole decorate, bassorilievi e croci scolpite sulle pareti e sul soffitto e begli affreschi sbiaditi del XVI secolo è stata raggiunta dopo un’ora sofferta di ripida salita, con la soddisfazione, però, di godere anche di un magnifico panorama dall’alto. In discesa, ai margini del villaggio di Dugen visitiamo la piccola chiesa di Degem Selassie. Nello stesso villaggio poi pranziamo in una bettola dignitosa col recinto in cui era nascosta una latrina racchiusa da rami secchi. Si tratta di due assi di legno che sovrastano un buco scavato nel terreno. Ne troveremo altri di questo tipo di gabinetto, specialmente nelle aree rurali, magari con un vecchio bugigattolo maleodorante. Non esiste naturalmente carta igienica, è una fortuna trovare acqua a portata di recipiente. Ma negli alberghi la situazione è più normale, secondo il nostro punto di vista.
Ci capita sul tardi pomeriggio di andare fuori rotta, poiché la chiesa che cerchiamo o non è raggiungibile per la strada sbarrata o perché non riusciamo a farci indicare precisamente il sito di questa chiesa, nonostante la buona volontà di una guida improvvisata, che prende egualmente la nostra mancia: il dubbio, comunque continua a esserci! L’indomani, pertanto, ci affidiamo a una vera guida di Wukro, con cui visiteremo altre tre chiese. Costui nel tragitto ci ha eruditi su alcuni aspetti della cultura etiopica, cercando invece di sorvolare sulla questione politica del Paese. Ci costa 100 birr, escludendo il pranzo fatto in comune. Ricordo la chiesa di Mikael Imba, molto somigliante alle chiese di Lalibela. La chiesa di Abraha Atsbeha è semi-monolitica del X secolo, una delle più belle di tutto il Tigrai. E’ di grandi dimensioni, con pianta a crociera, abbellita da interessanti elementi architettonici e affreschi, ma forse rovinata da un portico antistante, fatto costruire dagli italiani per ingraziarsi la benevolenza dei colonizzati. La guida che ci accompagna ci aveva precedentemente avvisato della consuetudine di dare un’offerta di almeno 10 birr al prete ortodosso, scomodato per venirci ad aprire la chiesa. Intanto nel tragitto frotte di bambini, alcuni scalzi e malvestiti, sporchi, con mosche sotto il naso invocano da noi un qualche aiuto, magari propinandoci piccoli fossili o altre cianfrusaglie. Noi cerchiamo di accontentare qualcuno, specialmente chi ci sembra più bisognoso, non solo il sazio prete, anche se in un’occasione, non abbiamo capito perché, un altro appartenente del clero, con abbigliamento più dimesso, ci viene dietro a implorare dei birr anche per lui. Ritorniamo a Macallè nel nostro albergo, dove anche il servizio ristorante è alquanto efficiente. Tuttavia, la sera prima di andar via da questa città proviamo a cenare in un ristorante indiano, ma con cucina non proprio indiana secondo Leonarda contrariata. L’indomani mattina ci decidiamo a visitare il vicino negozio di esposizione di artigianato locale, più volte sollecitati dal proprietario, ma i prezzi sono fuori delle nostre tasche!
29 dicembre Bagagli per la partenza con destinazione AKSUM, non prima averci procurato un grande telo per proteggerli meglio dall’ingombrante polvere. Nell’uscire da Makallè una puntatina al grande mercato con la speranza di vedere i dromedari che arrivano dalla Dancalia trasportando il sale. Speranza delusa! Comunque, giacché ci siamo, un’occhiata alle mercanzie, alla variopinta popolazione che commercia, qualche nostro acquisto di spezie e legumi per noi speciali, un soffermaci a osservare da vicino il sale roccioso proveniente dalla Dancalia. Bisogna andare, ci attende una grande scalata per arrivare alla chiesa di Mariam Korbor, a circa 500 metri dal villaggio Megab. Invitiamo sul nostro fuoristrada un ragazzo che ci farà da guida e per cercare il prete addetto ad aprirci la chiesa. Lite tra Leonarda e Mostafa. Saliamo solo io e Nina. Un’ora e mezza di faticosa e ripida scalata tra canaloni, scarpate, roccia dura quasi perpendicolare sulla nostra testa, arrampicandoci e seguendo le orme scolpite dal secolare passaggio dei preti e dei fedeli. La guida si dimostra utile, molto paziente e comprensiva, accollandosi pure della nostra borsa e borraccia. Splendida visione dall’alto! Finalmente la chiesa con ricche decorazioni dei pilastri cruciformi, archi e cupole e begli affreschi del XVII secolo! A me, comunque, piace di più la vicina e più piccola chiesa di Daniel Korbor, situata in cima a un precipizio e più graziosamente dipinta. Nella discesa pericolosa un turista cade sulla dura roccia, ma per fortuna viene afferrato a volo da un’altra guida. Al termine della visita birr 30 alla nostra guida e 10 al prete accompagnatore.
Ritorniamo alla base e riprendiamo il cammino sulla solita strada sterrata e polverosa. Sosta in una pasticceria di passaggio in un villaggio: odore di ddt nel locale, proibito da noi in Occidente, che poi fa affari nei paesi meno avanzati. Arriviamo sul far della sera ad Aksum, città di 41.500 abitanti, altitudine 2.130 m. sul livello del mare. Difficile immaginare che una cittadina polverosa e rurale sia stata culla di una delle più grandi e più spettacolari civiltà del passato dell’Africa sub-sahariana tanto che è stata dichiarata patrimonio mondiale dall’UNESCO.
Alloggiamo in una locanda con camere lungo le ringhiere, non proprio attrezzate a dovere né molto pulita, ma a noi molto familiare. Incominciamo a stancarci delle diete etiopiche anche perché da qualche giorno qualcuno dei viaggiatori soffre di disturbi intestinali, per cui chiediamo cibo occidentale e- sia pure!- vino locale, che qui costa caro. Il giorno dopo visitiamo le famose stele di Aksum, dalla più grande di 33 metri eretta nel IV secolo, distesa al suolo e spezzata quasi a significare il crollo di un’antica e potente civiltà, la stele del re Ezana e altre ancora fino a quelle di un metro di altezza.: se ne contano oltre 120 in tutto. Non è visitabile la stele di Roma, ancora impacchettata. Dopo una ripida salita e facendoci strada tra pietre appuntite ammiriamo le due tombe sotterranee dei re Kaleb e Debre Meschel, costruite con blocchi massicci di granito e squadrati che aderiscono senza malta; interessante ci risulta anche uno straordinario pilastro con iscrizione trilingue del re Ezana in sabeo, ge’ez e greco. Io e Leonarda diamo uno sguardo veloce a un museo; vediamo i ruderi del palazzo della regina di Saba e i cosiddetti “bagni” della medesima regina, più risorsa idrica che piscina o vasca gigantesca. A me e Mostafa spetta il privilegio, esclusivo per i maschi, di visitare la chiesa antica di Santa Maria di Sion, che conserva – si ritiene- la famosa Arca dell’Alleanza con le tavole della legge di Mosè., per cui è meta di innumerevoli pellegrini dell’Etiopia; compreso nel prezzo la visita a un museo con un eccezionale collezione di corone imperiali; giacché ci siamo non ci sfugge la più moderna chiesa di Santa Maria di Sion, accessibile pure alle donne. Mi ha fatto molto riflettere la sosta ad Aksum, la quale spodestata del suo antico fulgore accoglie abitanti che vivono come tanti millenni fa. Intorno ai monumenti i contadini continuano ad arare la terra in modo tradizionale, le donne lavano i panni nei bagni della regina di Saba e altra gente si dirige al mercato con gli asini o a piedi. Non mancano certo i segni di benessere e di modernità, ma stridono con tante persone macilenti, malvestite o distese per terra senza forze,senza dimora o con le mani a implorare un aiuto ai passanti, soprattutto turisti. Per questo ci sembra assurdo lasciare dopo i pasti il resto del nostro consumo, che volentieri mettiamo da parte per qualche bocca da sfamare.
31 dicembre. Rifatti i bagagli, partenza per il parco nazionale di SIMIEN. Come al solito, strada sterrata, sobbalzi continui del nostro fuoristrada, polvere impregnante dovunque si posa, anche sulla nostra mercanzia che pure cerchiamo di proteggere con un telone comprato ad Aksum. A un certo punto proseguiamo su un bel tratto di strada asfaltata con i parapetti all’italiana; infatti ci dicono che l’hanno costruita gli italiani nel periodo coloniale.
I monti Simien costituiscono uno dei massicci principali dell’ Etiopia, sono formati da diversi altipiani separati da ampie valli e da alte vette oltre i 4.000 metri di altezza. Luogo ideale per le escursioni, forniscono l’ambiente a un gran varietà di mammiferi, piante e uccelli endemici, per cui il suo parco è stato dichiarato patrimonio dell’umanità. Vi sono, ad esempio, lo stambecco abissino, il babbuino gelada, il rarissimo lupo etiopico,antilopi, saltarupi, il corvo abissino che si incontra di frequente, lo storno dal becco bianco, la pavoncella abissina, la cincia nera, l’impressionante gipeto che si libra in volo. Tra le specie di piante individueremo più tardi la festuca che serve per coprire i tetti delle capanne, l’erica arborea, la rosa abissina di color bianco e profumata, la solanum species, l’hypericum revolutum, la lobelia gigante con i fiori rossi.
Nel villaggio di Debark contrattiamo l’ufficio del parco naturale. Come in tutti i Paesi in via di sviluppo ai turisti s’impongono prezzi più esosi rispetto ai locali, ma qui in Etiopia mi sembra esagerano! Ad esempio: ingresso per gli etiopi birr 3, per i residenti stranieri birr 30, per gli stranieri senza residenza 50, prezzi moltiplicati tutti per il numero di giorni da trascorrere nel parco. Si è obbligati ad avere con noi per tutto il tempo di presenza nello stesso parco una guida locale e la scorta armata (scout), che ci costano la cifra del giorno moltiplicata per i tre giorni da trascorrere. Più tardi sapremo che dei 75 birr al giorno la guida ne percepisce 70, 5 vanno all’associazione delle guide, lo scout percepisce tutta la tariffa in aggiunta a uno stipendio mensile. L’hotel che è stato prenotato da Leonarda si trova a oltre 3.000 metri di altezza e consiste in un lodge di alta qualità, formata da alcuni tukul moderni con tetti in fibra vegetale: si chiama infatti Simien lodge. Inaugurato nel 2006, è stato ribattezzato come primo lodge ecologico dell’Etiopia settentrionale, pare con il contributo della Gran Bretagna ( la bandiera inglese quivi issata lo dimostra insieme con quella etiope), che promuove e sperimenta un turismo sostenibile. Infatti, i tukul sono dotati di riscaldamento a terra (per il momento non funzionante) alimentato da pannelli solari e di docce, queste sì funzionanti con i pannelli solari; il bar e il ristorante si raccolgono intorno a due grandi camini alimentati da legna. La notte, essendo l’ultima della anno a cavallo del nuovo anno, stappiamo una bottiglia di spumante portata dall’Italia.
La mattina escursione con guida e scout con cui fraternizziamo e spartiamo i panini preparati prima. Nel parco pochi insediamenti umani, tipici cavalli locali di più piccola stazza rispetto ai nostri. Grande divertimento nell’ incontrare per strada e ammirare un gran numero di babbuini gelada!
2 gennaio. Lasciamo a Debark i due accompagnatori e partiamo per GONDAR. La città con una popolazione di circa 158.000 abitanti, altezza 2.210 s/m , è circondata da terre fertili e irrigate all’incrocio di tre vie carovaniere: verso Massaua in Eritrea, verso il Sudan e l’Egitto. Forse per questo motivo l’imperatore Fasilladas la elesse nel 1636 a capitale dell’impero. Prima di arrivarci una sosta al villaggio Wolleka abitata dagli ultimi falasha di religione ebraica, ma il loro artigianato non ci offre spunti per l’acquisto. Arriviamo al Sumerland hotel in Gondar. Clima mite quasi estivo, l’albergo con il colori del mare che mi fa pensare alla Liguria ci accoglie con le luminose stanze, il bar, il giardino con tanto verde e la piscina a forma di stella. Il pomeriggio sostiamo per un caffè o tè in un bar del centro e gironzoliamo per la città. Ci impressiona tristemente la presenza di tanti mendicanti per strada e anche ammalati, in particolare di molti bambini senza famiglia che insistono presso gli stranieri per qualche money o proponendo mediocri fazzoletti di carta. Visitiamo appena in tempo il recinto imperiale con diversi palazzi e monumenti imperiali, ma l’indomani potremmo ritornarci. La sera facciamo fatica a trovare un locale di nostro gradimento per la cena, per cui alla fine optiamo a malapena per un ristorante con menu italiano. Ma ci rifacciamo subito dopo, scegliendo di finire la serata nel bar Balageru, dove cantano a turno due azmari , una specie di menestrelli che inventano filastrocche, prendendo in giro le persone presenti tra cui noi stranieri e sono accompagnati dai masenko (violini monocordi); le donne ballano la danza etiope iskista, che tentiamo anche noi di sperimentare.
Sonno riposante. L’indomani visitiamo altri monumenti importanti di Gondar: la chiesa di Debre Berhan che ha il soffitto e le pareti tutte affrescate con scene della Bibbia e soprattutto con 104 angioletti tutti diversi, due dipinti dell’inferno e del paradiso con Maometto nell’inferno; il complesso di Kuskuam, edifici fatti costruire nel 1730 dall’imperatrice Mentewach, dove un giovane studente s’improvvisa nostra guida e rifiuta la mancia, permaloso o consapevole dei sui limiti nell’informazione. La cripta di una chiesa nuova custodisce la bara di vetro contenente gli scheletri di tre imperatori. Interessanti anche i bagni dell’imperatore Fasilladas, un’ ampia vasca senza acqua, ma sormontata da un palazzetto reale circondata da un muretto e da alberi tropicali che vi si avviluppano con le loro radici; nel luogo tutto recintato fervono lavori di restauro con i contributi finanziari del governo norvegese e con la manodopera maschile e femminile dell’Etiopia. Ultimo monumento visitato, però solo dall’esterno, in quanto precluso ai turisti, è il palazzo di Ras Mikael Sehul, che si dice sia stato utilizzato come prigione di torture per gli oppositori del regime del Derg.
Il pomeriggio attendiamo il tramonto nel giardino piacevole e ombreggiato dell’hotel, dove mentre sorseggiamo la nostra bevanda vediamo aggirarsi nei dintorni delle allegre signorine: capiamo subito che si dedicano a un’ antica attività, non altrettanto infamante come in occidente in quanto spesso è l’ unico mezzo di sussistenza in un Paese con scarse possibilità d’impiego per le donne; in quel momento, però, non collego il fenomeno dell’AIDS, la più diffusa piaga in tutto il continente africano. Decidiamo di trattenerci per la cena al ristorante dell’albergo, che soddisfa i nostri desideri di gola e di passatempo nell’ atmosfera intima al lume di candela.
3 gennaio. Dopo due notti trascorsi a Gondar partenza per BAIR DAR. La strada finalmente è tutta asfaltata e si viaggia bene. Poco fuori Gondar incontriamo la birreria locale “S. Giorgio” e alcune case coloniche costruite dagli italiani durante la colonizzazione, che si distinguono per la presenza della grondaia e attualmente sono abitate dai locali. Per strada attraversiamo villaggi costruiti prevalentemente con baracche a copertura in lamiera, la campagna è lussureggiante, notiamo molti bambini pascolare invece che andare a scuola, le donne che hanno vestiti più colorati, gli uomini e i ragazzi più spesso con i calzoni corti. S’incomincia a sentire più caldo. Pochi sono i camion in giro, più frequenti invece sono i carretti trainati da asini e avvicinandoci sempre più a Bair Dar aumentano le biciclette e si avvistano alcune motociclette.
La città ha quasi 170.000 abitanti, altezza s.m. 1880 m., è capitale della regione Amhara nonché centro del turismo sul lago Tana. Summerland hotel è uno dei migliori incontrati finora, dispone di buone strutture e ottime stanze con zanzariere, poiché qui le zanzare non mancano. Pranziamo per il momento al Ghion hotel con vista lago. Incominciando a gustare la tilapia (un pesce d’acqua dolce molto diffuso nel laghi etiopi). In questo albergo noto per la prima volta il simbolo della “Visa”. Dunque è possibile pagare con carte da credito anche in Etiopia? Evidentemente è possibile, ma solo in alcuni luoghi esclusivi come, ad esempio: alcune biglietterie Ethiopia Airlines, in alcune agenzie di viaggi e nei grandi alberghi di livello che trattengono solitamente una commissione del 5%. Così pure è possibile ottenere anticipi in contanti da un paia di filiali della Dashen Bank di Addis Abeba, ma solo lo Sheraton della capitale rilascia dollari americani anziché birr, tutti con la richiesta della commissione del 5%. In Etiopia poi non esistono bancomat abilitate alle carte estere, come ci confida l’amica Leonarda. Per i travellers cheque le opportunità di scambio sono nelle banche della capitale e delle grandi città, in alcune agenzie di viaggi e nei maggiori alberghi.
Il soggiorno a Bair Dar è piacevole ed emozionante sia per il clima mite quasi marino sia per le cose ammirate. Iniziamo con la visita alle cascate del Nilo, a 32 km dalla città, esattamente oltre il villaggio Tis Isat, dopo aver attraversato per un’ora un sentiero non facile. Il solito accerchiamento di ragazzi e bisognosi. Arriviamo finalmente alla cascata del Nilo! Siamo emozionati non tanto per quel che vediamo, ma per il nome del grande fiume. Non contenti, l’indomani decidiamo di andare in cerca via terra della sorgente del Nilo con qualche problema di collocazione, dopo però aver attraversato una fertilissima campagna. L’emozione cresce quando il pomeriggio facciamo un giro del lago in barca a motore, per raggiungere la penisola di Zege (monastero di Ura Kidane Meret) , l’isola di Dek ( monastero di Tana Chercos, solo per uomini e l’isola di fronte, dove è possibile visitare senza esclusione di sesso il monastero femminile, così modesto che non è neanche menzionato nelle guide turistiche. Dopo l’approdo nell’isola di Dek s’imbastisce un battibecco tra me e la guida locale che con tanto di tessera in vista si vuole proporre , meglio, imporre come guida verso il monastero, noi invece ci facciamo condurre da un ragazzo del posto. Nel tragitto tanti bambini tentano con insistenza di venderci i modellini delle tipiche canoe tankua, lavorate a mano con i giunghi, oppure le piccole sciarpe variopinte fatte a telaio, mentre le donne propongono i trittici dipinti o le croci in legno , ma noto che una venditrice non recede di un centesimo dal prezzo originario, probabilmente perché diventata scaltra potendo scegliere tra turisti prodighi e meno chiacchieroni. Per smorzare l’atmosfera forse ancora incandescente del primo incontro, al ritorno dalla visita del monastero io e Mostafa invogliamo i locali a qualche partita a calcio balilla, molto diffuso anche nei villaggi etiopi e in cui pure noi risultiamo eccellenti professionisti! All’entrata del monastero femminile ci fanno richiesta più contenuta del prezzo e notiamo la compostezza e il silenzio delle monache che fino a un certo orario lavorano e poi pregano, situazione che ha influenzato anche me, astraendomi dal mondo e dimenticando in quel sacro luogo la mia borraccia, compagna di viaggio. Nel giro di ritorno dal lago, verso il tramonto, avvistiamo una tankua sottile e inaffondabile, costruita da papiri intrecciati e con la prua incurvata, simile alle imbarcazioni dipinte nelle tombe dei faraoni
Una cena ristoratrice nel nostro albergo completa la serata.
6 gennaio La prima parte del lungo tour sta per finire: si prevede un ritorno faticoso ad ADDIS ABEBA, perché sono da percorrere 568 chilometri. Oggi è il primo giorno del Leddet, il Natale dell’Etiopia. La festività si avverte nel nostro tragitto, perché non si vedono bimbi andare a scuola o far ritorno da scuola, si notano meno animali al pascolo e meno negozi aperti, le persone sembrano meglio vestite, incontriamo più gruppi di persone sostare in conversazione. La strada per fortuna è per 3/4 asfaltata; si dice che in totale solo 70 km. non è asfaltata. Il si dice è una prerogativa in questo Paese, in quanto -ad esempio nel caso nostro- non solo le carte stradali non sono credibili, ma manca totalmente un bollettino di informazione radiofonica sulle condizioni di viaggio. A un certo momento vediamo un corteo di donne biancovestite, che poi capiamo essere fedeli che si dirigono verso la vicina chiesa per la grande festa. Dopo circa un ‘ora di viaggio avvistiamo un villaggio in cui espongono per la vendita stuoie intrecciate di vimini, che la gente del luogo usa per lo più come recinzione. Scorgiamo anche le sagome di carri armati in disuso, segni di conflitti recenti, o di camion capovolti e abbandonati. Mi chiedo: non esistono in Etiopia un ministero per il recupero di reperti bellici o un pronto intervento pubblico per i mezzi sinistrati? Evidentemente no! Vediamo poi, nonostante la festività, molti camion in viaggio e strapieni di merci, ignorando naturalmente le norme di sicurezza stradale. Non può mancare, infatti, un incidente, poiché su un tratto di strada non asfaltata incontriamo un automezzo semicapovolto e di traverso sulla carreggiata, strapieno di chissà quale mercanzia, che una diecina di persone cerca di riporre sul veicolo, il quale non si sa se e quando potrà ripartire. Nel villaggio di Dembesa compriamo due ceste giganti di vimini ricoperte di pelle di mucca. Nel pieno pomeriggio, sotto un sole cocente, la pista diventa sempre più irta , polverosa e dissestata, ma bisogna andare avanti cercando di evitare i buchi e le pietre più acuminate, ma chi non è indaffarato nella guida può a malapena godersi il paesaggio mozzafiato.
Terminata la grande salita, finalmente si distende l’altopiano e anche la strada diventa normale fino ad Addis Abeba. Ancora uno sguardo alla campagna spoglia di cereali qui abbondantemente coltivati, ma siamo nel periodo post-raccolta, eppure qualche contadino si attarda a fare qualche lavoretto. Approfittiamo per scattare foto del vivido tramonto, mentre verso la capitale vediamo aumentare il traffico e a sera inoltrata giungiamo, stanchi, alla nostra dimora.
7 gennaio corrisponde al 29.4. 2000 del calendario etiope, che come ho detto segue quello giuliano. L’anno solare per gli etiopi inizia nel nostro 11 settembre (il 12 negli anni bisestili) ed è diviso in 12 mesi di 30 giorni ciascuno più un tredicesimo mese di 4 o 5 giorni. L’Etiopia, non avendo adottato la riforma gregoriana forse a causa del suo isolamento, si trova ad avere il Natale e l’ Epifania (Timkat) rispettivamente il 7 gennaio e il 19, cioè 13 giorni dopo le nostre date. Anche il modo in cui vengono espresse le ore è particolare in questo Paese: il giorno è suddiviso in 12 ore , e quando spunta il sole per gli etiopi sono le 12 (le nostre 6), un’ora dopo è l’1, due ore dopo sono le 2; il sole tramonta alla 12 (le nostre 18) e un’ora dopo il tramonto è nuovamente l’1. Per distinguere il momento della giornata gli etiopi utilizzano le espressioni ‘di mattina’, ‘di sera’, ‘di notte’. Si avverte anche quest’ oggi la continuazione di una delle principali feste del Paese, il Leddet o Genna o Natale. Nella città si distinguono i vestiti bianchi delle donne, il traffico è più contenuto, molte famiglie sono a passeggio, in qualche strada sono ammassate pelli di pecore o di capre dopo la strage di questi animali per ricavarne carne cruda da mangiare il primo giorno della festa. Noi nel frattempo cerchiamo di rintracciare la signora Elisabetta dell’agenzia turistica ‘Lake Tana’ per l’organizzazione del prossimo viaggio nella valle dell’Omo, a sud del Paese. Ci riusciamo finalmente, sottoscriviamo l’accordo pagando per ognuno circa 700 euro.
Il giorno dopo iniziamo la seconda avventura , questa volta solo io e Nina, affidati alla guida turistica che parla italiano ‘Johannes’ e all’autista della Toyota Land Cruiser ‘Mesfin’. Partiamo alle sette di mattina. Arriviamo dopo mezz’ora a Bishoftu, per fare colazione in un bar, seduti sul belvedere dell’omonimo piccolo lago vulcanico della zona. La strada fino a Mojo è tutta asfaltata, ci dice la guida, ed è stata costruita dai giapponesi. Nelle vicinanze del fiume Awasc s’intravede la centrale idroelettrica di Kaka , che serve l’energia elettrica a quasi tutta la metropoli etiope. Dell’energia il Paese ha un gran bisogno e in questi ultimi anni sta intensificando i rapporti con i Paesi petroliferi del Medio Oriente e con il Sudan per approviggionarsi di questo combustibile. In cielo avvistiamo il marabù dal becco lungo. In due villaggi di passaggio notiamo due pompe eoliche con turbina per prelevare l’acqua dei pozzi. Presso il villaggio di Ziwai circondato dall’omonimo lago scopriamo una lunga fila di serre che producono le rose, di proprietà di un imprenditore olandese. Le rose vengono esportate e sono concorrenziali a quelle del vicino Kenya.
Da Mojo svoltiamo a destra, invece che proseguire più a sud, per dirigerci verso Arba Minch. Tra i villaggi incontrati ci incuriosisce Shashemene in quanto luogo scelto dall’imperatore H.Salassiè per i suoi devoti rastafarani. Chissà se ci credono ancora?
In giro si vedono tanti carretti trainati da asini e sempre persone in cammino. Le case sono capanne con lamiera oppure semplici tukul. A Sodo pranziamo in uno degli hotel della catena Bekele Molla, un imprenditore etiope fondatore di questi alberghi, che però gli eredi non curano con la stessa passione. Verso il tramonto arriviamo ad ARBA MINCH, esattamente nell’insediamento di Sikela. Ma prima di arrivarci lo sguardo spazia sull’affascinante insieme di uno dei più stupendi panorami dell’Etiopia: a destra le limpidi acque del lago Chamo con le rive sabbiose, a sinistra i colori sfumati e contrastanti di rosso delle acque del lago Abaja,ricche di idrossido di ferro e in basso la grande foresta tropicale lungo il fiume Kulfo con le 40 sorgenti, nascosti ai nostri sguardi ma che hanno dato origine al nome alla città. In alto le montagne di Amaro. L’albergo Arba Minch Tourist è moderno, considerato uno dei migliori della zona , ma anche qui troviamo le solite carenze nella costruzione e nella manutenzione di quasi tutti gli alberghi che ci hanno ospitati finora, in particolare manca l’acqua corrente e l’energia elettrica non è continuativa. L’acqua, secondo i ben informati, viene erogata solo per poche ore e non tutti i giorni, quindi gli hotel sono sprovvisti di serbatoi, l’energia elettrica di solito è fornita da un generatore di corrente e viene sospesa dalle ore notturne alle prime ore della mattina.
9 gennaio. L’indomani ci prepariamo per la visita al Parco nazionale di Nechisar. C’incamminiamo con la nostra fuoristrada che ci sballottala senza delicatezza e per un bel pezzo ci troviamo nel mezzo dei due laghi Chamo e Abaja , striscia di terra chiamata ‘Ponte del cielo’. Il parco ampio circa 500 kmq. comprende vari tipi di savana:a quella aperta erbosa a quella arbustiva fino alla densa boscaglia. La pista si presenta in pessime condizioni, praticamente impraticabile durante la stagione delle piogge. Ci dicono che nel parco vivono molte specie di animali, ma noi ne vediamo solo una minima parte, tra cui i dik dik, il kudù, il waterbuck un antilope nero, due o tre tipi di uccelli, molte zebre davvero graziose da vedere, i babbuini, la gazzella di Grant. Fino a qualche anno fa all’interno del parco erano stanziate le minoranze etiche dei guji e dei koira, che venivano considerati una serie minaccia all’ambiente e alla fauna con i loro numerosi capi di bestiame. Con la trattativa del governo nel 2004 i koira si sono trasferiti 15 km. più a nord, mentre non è ben definita la posizione dei guji.
Nel pomeriggio escursione in barca sul lago Chamo per osservare da vicino i grandi e spaventosi coccodrilli che fanno per lo più la siesta e sembrano non essere disturbati dai turisti, ma qualcuno sguscia nel lago provocando in noi qualche brivido. Osserviamo più in lontananza gli ippopotami che mostrano appena la testa fuor d’acqua; tanti uccelli acquatici popolano questo lago tra cui i pellicani e qualche fenicottero. Un pescatore locale, forse un guje, è intento a manovrare tra i papiri della riva e un altro è con una zattera fatta di tronchi d’albero tenuti insieme da una corda vegetale. Non posso fare a meno di pensare al più antico scafo progettato dall’uomo. Mi dicono che un altro tipo di imbarcazione tipica è l’ambatch.
10 gennaio Levata convulsa a causa dell’altoparlante che almeno dalle cinque di mattina fino alle sette ci propina canti e cantilene della vicina chiesa ortodossa, testimonianza ancora una volta di un’invasione irriguardosa del clero locale. Partenza per JNKA, km 230. Luogo la strada sosta a Key Afar dove si svolge il mercato delle etnie tsemay, ari e banna. L’ impatto per noi tra la folla di queste popolazioni è molto alto sia per i colori , per i suoni e gli odori diversi. La grande piazza centrale in terra rossa attira tanta gente che vive nel villaggio e nei villaggi vicini. Parte della merce viene deposta direttamente sul terreno, parte su rudimentali banchetti di legno, sotto i portici in legno sono aperti negozietti e si svolgono anche mestieri all’aperto come quello del sarto che lavora con una vecchia macchina Sincer. E’ da considerare pure che il mercato è un luogo non solo commerciale, ma di risonanza delle informazioni del mondo delle tribù e dove si fanno affari tra le famiglie e i clan.
La tribù predominante in questa zona dei banna è costituita da circa 45.000 individui, dediti alla pastorizia e all’agricoltura. Le donne indossano vesti di pelle di capra impreziosite da conchiglie cauri e sfoggiano acconciature a caschetto formate da sottile treccioline impastate con polveri d’argilla, burro o grasso animale. Gli uomini che uccidono un bufalo o un nemico portano uno strano scalpo di argilla. Se vogliamo fare delle foto dobbiamo trattare tramite la guida le persone da fotografare e il prezzo è di solito 2 birr a persona, 3 birr per una donna con bambino, ma sono in molti a proporsi, per cui ci siamo accontentati di ritrarre 2 o 3 persone. Nell’ hotel di Jinka ritroviamo gli stessi problemi di approvvigionamento di acqua e di energia elettrica incontrati nel soggiorno di Arba Minch.
Il giorno dopo partiamo per il parco nazionale del Mago. Prima di arrivarci incontriamo uomini, talvolta donne, con in mano il machete che serve per il lavoro e per difesa personale. Il parco non ci offre grosse emozioni per gli animali che non si mostrano in tanti, ma per il popolo dei mursi. Tutto il villaggio attende noi e i turisti nella radura lontana, ma la scena per noi è inquietante e non affatto accogliente. Appena la nostra fuoristrada si ferma le persone si spingono avanti per farsi fotografare e avere la loro quota di birr, qualcuno fa versi o gesti convulsi per attirare l’attenzione oppure tocca o afferra la mano del turista , una donna mi solletica il pizzetto e ride, insomma per noi è una situazione imbarazzante, confusionaria che non ci saremmo aspettati. In mezzo la guida che aveva stabilito con i mursi o aveva fatto finta di pattuire il prezzo per foto. A bada dei tipi più irrequieti vigila la guardia armata, già pagata per questo compito. La sensazione è di trovarci su un set fotografico o a un circo: i locali sanno esattamente cosa vuole il bianco assetato di esotismo, tollerano l’intrusione dei turisti e recitando la parte dell’africano ‘primitivo’ rivendicano giustamente il compenso per il lavoro. Noi personalmente ci prestiamo a malapena a questo gioco, scegliendo frettolosamente 5-6 persone per la foto-ricordo, consapevoli pure di scontentare i meno audaci, come qualche raro anziano in disparte. Tuttavia, cerchiamo di uscirne fuori al più presto, sollecitando a più riprese l’autista e la guida di andar via. Ci rendiamo conto di aver assistito e di essere stati protagonisti di una mercificazione della cultura dei mursi, umiliante per loro e per noi. Il turismo dovrebbe essere un’occasione per migliorare le condizioni socio-economiche delle popolazioni visitate, portare nuove strade, scuole, strutture sanitarie, dare il contributo alla collettività del villaggio, non fomentare accaparramenti e individualismo, che distruggono i valori genuini per la corsa al denaro facile e concorrono a distruggere ogni memoria di identità culturale. Dei mursi si può delineare qualche tatto caratteristico. Essi occupano vaste zone del parco del Mago, dedicandosi alla pastorizia e, dove il terreno è più fertile, anche all’agricoltura. Come altre etnie della valle dell’Omo praticano pure l’apicoltura, avendo la consuetudine di legare sugli alberi gli alveari volanti tenuti almeno per un anno. Tra le loro tradizioni più note ci sono i combattimenti tra gli uomini con i bastoni e il piattello labiale per le donne, consuetudine quest’ultima che in origine serviva per disonorare le donne agli occhi dei nemici e preservarle dalla schiavitù, ma poi si è trasformata in segno di bellezza (o di attrazione per i turisti?) . Nello stesso pomeriggio dell’11 gennaio , avendo altro tempo a disposizione, visitiamo a Jinka l’interessante museo della cultura materiale dei popoli Omo. Acquistiamo nel museo dei souvenir, tra cui un poggiatesta. Ci attirano in particolare le illustrazioni di tanti tipi di poggiatesta, che quasi tutte le donne omo usano per proteggere durante il sonno le elaborate conciature. Questo caratteristico accessorio lo vedremo più tardi usare anche come piccolo sgabello. La cittadina di Jinka dispone tra le altre cose di una pista di atterraggio aereo che funge, secondo i casi, da pascolo per mucche e pecore o come campo da calcio. Ho la possibilità di considerare come questa cittadina di 18.000 abitanti, alla stessa maniera delle città più grandi, curi uno spartitraffico alberato e fiorito nelle arterie principali, nonostante queste siano a terra battuta e non asfaltate.
12 gennaio Pur senza l’acqua corrente e con l’energia elettrica razionata, il nostro soggiorno in hotel risulta piacevole, anche il nostro riposo è protetto da efficaci zanzariere. La mattina del 12 gennaio dopo un abbondante colazione, cosiddetta “continentale”, partiamo per TURMI. Come in tutta la valle dell’Omo anche qui durante il percorso vediamo grandi lavori di rifacimento o costruzione ex novo di strade. Nel frattempo che si fanno i lavori le vecchie piste non vengono cancellate, ma si usano per il passaggio di uomini,animali e auto; naturalmente anche il nostro fuoristrada è costretto a zigzagare tra vecchie e nuove piste. Ogni tanto attraversiamo fiumi in secca; dove è rimasto un filo d’acqua sono ferme donne che attingono questo prezioso elemento o vi lavano panni, più nascosti uomini nudi fanno abluzioni. Strano movimento di bambini che saltellano o fanno capriole per attirare l’attenzione dei turisti, evidentemente per chiederci qualcosa o proporci qualche loro acquisto. Ci fermiamo un paio di volte nel percorso per comprare due blocchi di etau della dimensione di una palla di biliardo: si tratta di incenso usato nella cerimonia del caffè ed estratto da alberi molti diffusi nella zona. Stiamo per entrare nell’area dell’etnia degli hamer verso il villaggio Dimeka. Oggi si svolge il mercato settimanale, l’altro giorno è il martedì. Dopo l’infelice prova con i mursi, abbiamo deciso una diversa strategia di avvicinamento alle popolazioni: non sceglieremo più le persone da fotografare dove c’è folla , ma separate e per scelta diretta da parte nostra, prevenendo possibilmente le richieste assillanti dei locali, così da permetterci un mimino contatto rispettoso delle persone. Questo comportamento ci consente di non escludere l’anziana meno vistosa , né l’adolescente inconsapevole e ignaro (quest’ultimo, molto timido, rimane per un po’ intontito e perplesso per la nostra scelta, per lui imprevista, di fotografarlo fra i suoi compagni più vispi e dopo avergli messo in mano 2 birr inaspettati, ma regolari). Ci tratteniamo a Dimeka per il pranzo in una – diciamo – ‘bettola’, frequentata anche dagli hamer, dotata di latrina primitiva. Alcuni hamer ci guardano incuriositi mentre mangiamo, altri tentano ancora di venderci qualche loro prodotto. Questa etnia ammonta a circa 50.000 individui. Sono allevatori e agricoltori di sorgo, miglio, tabacco, cotone, ortaggi e sono famosi per le loro acconciature, perfino gli uomini hanno l’abitudine di formare una specie di casco di argilla con i propri capelli, a volte sostenuto da magnifiche piume di struzzo, Sono considerati anche dei maestri nella decorazione del corpo. Johannes, la nostra guida, ci dice che forse il pomeriggio potremo assistere alla cerimonia del salto dei tori e senza tanti ragguagli ci spinge a fare con gli altri turisti del tour un lungo percorso a piedi di più di mezz’ora sotto un sole cocente e attraversando un esteso letto di un fiume in secca. Arrivati a un villaggio, all’interno della savana, ci dice che per assistere all’avvenimento bisogna sborsare 150 birr a testa. E’ ormai quasi impossibile o irrazionale far marcia indietro, un gruppetto di turisti greci però non si piega e si ritira. Io accetto perché sono curioso , voglio entrare per un po’ nella vita di questo popolo, Nina accetta, ma a malincuore a causa della speculazione turistica. E’ difficile descrivere le emozioni, gli odori, i suoni, le visioni all’interno di un villaggio primordiale e della savana! Il tutto non è positivo per noi occidentali o ci può lasciare perplessi, per esempio l’igiene carente, l’odore di mucche e capre delle persone, il bere il tè caldo nella stessa ciotola (io l’ho fatto a mio rischio), il vedere la flagellazione a sangue sul corpo nudo delle giovani hamer, ma non possiamo ergerci a giudici degli altri. Il salto dei tori avviene in una radura della savana, distante circa un quarto d’ora dal villaggio; è una cerimonia d’iniziazione all’età adulta prima del matrimonio. Il giovane prescelto, completamente nudo, deve dimostrare la sua abilità nel saltare per tre volte di seguito in groppa a una diecina di tori disposti uno accanto all’altro. Se non ne sarà capace o sbaglierà verrà deriso dalle ragazze presenti e metterà in difficoltà la sua onorabilità in tutto il villaggio. Il costume della flagellazione ufficialmente si spiega come dimostrazione di affetto da parte delle giovani donne, parenti del festeggiato che stanno per perdere; esse per procurarsi questo marchio di sangue provocano altri giovani maschiche maneggiano fuscelli di giunco. Va tutto bene per il giovane iniziato che viene perciò osannato dalla sua gente e festeggiato, ma per noi è il tempo del rientro. Si continua la strada per Turmi. Si arriva a sera inoltrata; una cenetta non proprio gustosa in un ristorante poco distante dal camping e poi al camping, senza acqua corrente e senza luce, per riposarci sotto le tende allestite sul momento e sotto un cielo fittamente stellato. Al mattino ci sveglia il canto sconosciuto degli uccelli della foresta tropicale.
13 gennaio Ritorno per ARBA MINCH. Si prevedeva la sosta al mercato domenicale a Weyto, ma non c’è molto tempo, per cui si sceglie di proseguire verso il villaggio Konso. Nel programma è prevista “la visita alla residenza del re della tribù più importante della regione e del villaggio” Per ‘regione’ qui s’intende tutta la regione della valle dell’Omo, denominata ‘Regione dei popoli e delle nazioni del Sud Etiopia’, poiché l’ Etiopia è uno stato federale formato da 9 regioni , più due territori autonomi di Addis Abeba e di Dire Dawa. Poco prima di arrivare a Konso bambini, non più di 8-10 anni, si appostano attorno all’auto che si ferma, armati di maschere, statuette in legno strumenti musicali, giocattoli fatti a mano. Io ammiro questi lavoretti, alcuni veramente ingegnosi, ma quando sto per fare la mia scelta i piccoli venditori sparano prezzi impossibili, tutti tentano l’abbordaggio del cliente, facendo confusione col rischio di litigio tra di loro. Desisto e decidiamo di andare avanti. Il fantomatico re ci aspetta: un giovane laureato in ingegneria, della ventesima generazione dei re karo, ora spodestato del suo effettivo potere, ma in grande considerazione ancora presso il suo popolo. Ci fa vedere alcune foto dei suoi antenati e della sua famiglia, ci fa visitare alcuni appartamenti fatte di capanne, ma non quello dove vive lui, e risponde attraverso l’interprete ad alcune mie domande. Ci dice, tra l’altro che i re antenati dopo il decesso venivano imbalsamati per nove anni, dopo di che veniva incoronato il nuovo re; dopo si congeda da noi e permette a un suo subalterno di farci visitare il cimitero dei suoi antenati con i totem, distante circa dieci minuti di cammino nella sua vasta e rigogliosa tenuta di campagna. Due notizie sui konso. Questa etnia vanta un’economia agricola molto specializzata ed efficace e una cultura elaborata. Le loro terre sono molto fertili, sono sfruttate al massimo con la tecnica del terrazzamento in pietra. I loro villaggi tradizionali sono difesi da solide mura in pietra per ripararsi dalle aggressioni e impedire la fuga degli animali, sono divise in nove sezioni, una per ogni clan. Nelle piazze sono collocati i celebri waga, sculture lignee intagliate e realizzate in onore degli antenati e dei guerrieri konso. La tradizione di erigere i waga sta scomparendo sia per i numerosi furti sia per la pressione dei missionari che contrastano il culto degli antenati. Pranziamo nel villaggio di Konso, facciamo provvista di miele locale travasato da un secchio in due bottigliette di plastica; nello stesso negozio si vende un ammasso di burro che fa un certo effetto alla nostra natura di faranji (stranieri). Nei dintorni di Konso cerchiamo la migliore o più significativa veduta della Rift Valley, ma non è facile trovarla in quanto tutta la valle dell’Omo e oltre è attraversata dalla Rift Valley e la spaccatura non è restringibile nell’occhio della macchina fotografica.
14 gennaio Dopo la colazione, partenza di ritorno per ADDIS ABEBA. Resta però l’ultima emozione del tour: la visita al villaggio della popolazione dorze Chencha, 35 km da Arba Minch. Il territorio dei dorze si estende sulle alture dei Monti Guge, quindi in un’area più fredda e nebbiosa. Spettacolari i panorami che si vedono sulla Rift Valley e sui laghi circostanti! Alla curva di un’irta salita vediamo un corteo di persone che, scendendo dalla parte opposta a noi, trasportano a piedi sulle spalle una barella con dentro non un morto, ma un ammalato. Dove vanno, come mai non c’è l’ambulanza? In effetti non ci è mai capitato durante la nostra permanenza in Etiopia vedere o sentire ambulanze. La nostra guida Iohannes ci dice che quel corteo di persone si fa tutti quei chilometri a piedi verso la città più vicina Arba Minch, perché non è molto in uso l’ambulanza ed è difficoltoso il trasporto privato. Ci vuole poco a capire che l’assistenza sanitaria esiste solo nei grandi villaggi e nelle città e tutto il servizio sanitario e la cura per i cittadini sono carenti in Etiopia, come lo dimostrano tante statistiche da Paese in via di sviluppo, ad esempio: mortalità infantile a intorno al 95/°° nel primo anno, durata di vita circa 50 anni, posti letto 0,2 per ogni 1000 abitanti, medici 0,02 ogni mille abitanti. A qualche chilometro prima di Chencha incontriamo un altro villaggio dorze, in cui si svolge il mercato del lunedì e s’intravedono gli svolazzanti e variopinti tessuti in vendita. Arrivati a Chencha ci fermiamo e Iohannes richiama la nostra attenzione su una capanna tipica dei dorze da visitare. Io cerco di prendere la macchina fotografica, ma non la trovo nell’apposita custodia. Restiamo interdetti, facciamo telefonare all’ hotel di Arba Minch senza però alcuna confortante notizia., A malincuore e distrattamente seguiamo le spiegazioni della guida riguardanti le caratteristiche dell’ abitazione e del lavoro di tessitura riservato agli uomini. La capanna che visitiamo raggiunge il massimo di 12 metri di altezza e assomiglia a una specie di alveare gigante. Costruita con pali di legno duro disposti verticalmente e bambù intrecciato, viene ricoperta con un tetto di foglie di enset (falso banano senza frutti). Nell’interno vi è un’ anticamera per gli ospiti e il resto è costituito dal vano pranzo, da un angolo per cubicolo e un settore per animali da stalla che contribuiscono al riscaldamento dell’ambiente. La capanna dorze può durare anche una cinquantina di anni e può essere trasportata in un altro punto prima di venire abbandonato definitivamente in seguito all’azione vincitrice del tempo e degli animali roditori. La maggiorparte di queste abitazioni hanno dietro e attorno un piccolo giardino con un orticello e piante, specialmente enset e tabacco. Nel giardino la proprietaria ci fa vedere come si raschia l’enset per ricavarne una poltiglia di farina che verrà poi tenuta in fermentazione per alcuni mesi sotto le foglie e poi impastato per farne del pane. Così sappiamo che l’enset è un prezioso elemento per l’uomo, viene sfruttato per tanti usi e integralmente. Alla tessitura, come dicevo, si dedicano solo gli uomini, mentre la filatura è compito delle donne. A Chencha si producono tra i più pregiati tessuti di cotone dell’Etiopia; noi ne acquistiamo alcuni a 250 birr, senza discutere troppo , perché ci preme recuperare la fotocamera, scendendo ad Arba Minch. Nell’hotel riusciamo quasi per miracolo a scovarla nell’armadio della stanza dell’albergo. Adesso si può pure ripartire con l’animo rappacificato. A mezzogiorno sostiamo a Sodo nel medesimo hotel di andata del viaggio. Verso il piccolo villaggio di Adia vediamo dei tukul vivacemente pitturati alla base: vi vivono la popolazione dei kambata. In un insediamento sparso notiamo dei piccoli monumenti dipinti: sono delle tombe che gli abitanti del luogo realizzano accanto alle loro capanne, poiché usano seppellire i loro morti nel loro terreno, non disponendo di un cimitero collettivo. Ancora gente in cammino, di ritorno dal lavoro o dalla scuola, pochi su carretti trainati da asini, altri stipati nei camion di passaggio. Più ci avviciniamo alla metropoli più aumentano le auto e soprattutto i tir, per noi una novità per la quantità, per cui la strada asfaltata ci sembra già fin da adesso incapace di sostenere il traffico crescente. Arriviamo a destinazione verso le 20,00, le due di sera per gli etiopi.
15 gennaio Ultimo giorno ad ADDIS ABEBA. Il tempo è dedicato agli ultimi acquisti e alle snervanti trattative, non da parte mia, ma di Nina e Mostafa. Io sono affaccendato a ritrarre in immagine qualche scorcio monumentale della città e approfitto per visitare la cattedrale ortodossa della Santissima Trinità. Incontro fedeli in festa e in preghiera nella grande spianata alberata , pare, alla presenza del grande abuna o papa della chiesa copta. All’interno della chiesa si conservano le spoglie dell’imperatore Hailé Salassié e della consorte. Ho visitato anche un museo adiacente sui tesori dell’impero e della chiesa e, di sfuggita, un cimitero dei patrioti etiopi. Di ritorno a casa di Leonarda rivedo i palazzi e il fervore dell’edilizia recente che porta miglioramento per pochi privilegiati ma nel contempo accresce il distacco tra questi e la maggioranza della gente. Pensando ai villaggi incontrati e agli immigrati senza futuro che infoltiscono sempre più la metropoli faccio questa riflessione di largo respiro: vorremmo tutti il progresso per gli etiopi e per il Sud del mondo, ma nello stesso tempo siamo per la conservazione di antiche tradizioni e delle culture originarie. Chi è costretto a trasferirsi nelle città rischia maggiormente di perdere la propria identità: a parità di condizioni economiche e di povertà, lo sradicamento degli immigrati nelle grandi città è più preoccupante rispetto alla situazione di coloro che vivono nei villaggi, distanti e ignari delle esigenze e allettamenti urbani. I villaggi resistono meglio alle leggi del mercato, chi si allontana alimenta un sottoproletariato urbano senza speranza, di conseguenza molte persone si accontentano di vivere ai margini della ricchezza, rovistando tra gli avanzi, slegati dalla tradizione del loro popolo. La civiltà moderna costringe molti popoli a subire un modello, incapaci di comprenderlo; ma una volta superati gli ostacoli le tradizioni millenarie potrebbero essere distrutte, come sta succedendo in Etiopia. “Sarà come bruciassero tutte le biblioteche” direbbe Leopold Sengor, grande statista e poeta africano. Amara conclusione di un viaggio, che è stato pure stupendo e pieno di fascino paesaggistico e culturale!
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