di Andrea Coccetti –
Abbiamo viaggiato con un airbus dell’Air Europa per tutta la giornata di mercoledì e giovedì notte arriviamo all’aeroporto di Buenos Aires. Non è molto grande nè tanto bello. Dopo il controllo dei passaporti e il ritiro dei bagagli usciamo e troviamo subito zia Ida con Cristina e Orazio che ci aspettano all’uscita dei passeggeri. Le sorelle ricongiunte dopo quindici anni sono più stanche che commosse, ci abbracciamo tutti e facciamo le presentazioni di rito. Sono venuti a prenderci con un furgone di un amico di Orazio. Il paese dove abita zia e la famiglia di Cristina si chiama Berazategui ed è a circa 80 km dall’aeroporto e a 25 km da BA.
Siamo molto stanchi, arriviamo alla casa di zia in calle Mitre che sono circa le tre del mattino, ma per noi che arriviamo dall’Europa sono le sette. La casa è accogliente e calda nella sua frugale semplicità. Rimaniamo a parlare per un’ ora e diamo i regali a zia Ida e Cristina.
Nonna Lina e zia Irma vanno nella camera di zia Ida (chissà quante cose da dirsi dopo quindici anni!) mentre zio Stefano ha una camera tutta per sé con un letto a castello. Io e mio fratello stiamo nella prima stanza a destra dell’ingresso che ci dicono essere stata la camera di Danilo. Adesso invece è diventato il dormitorio di Leandro, il figlio maggiore di Cristina e Orazio nonché nipote di zia Ida. Vedo una quantità di romanzi classici sullo scaffale e penso che possano essere di Orazio o di Diego. Vengo a sapere da zia Ida che Leandro ha la passione per le letture e che sta studiando lettere moderne all’università di Buenos Aires, e che i libri sono suoi. Sulla parete di fondo della stanza c’è un poster grande come l’intero muro con una spiaggia tropicale in controluce al tramonto. Non è bellissimo ma fa effetto. Penso che Danilo doveva essere un sognatore e una persona molto pratica allo stesso tempo. Salutiamo e ringraziamo Cristina e Orazio e andiamo tutti a dormire.
20/12/2007
Abbiamo dormito praticamente solo tre ore ma siamo riposati. Mi accorgo di altri dettagli della casa di zia Ida. Fuori dalla porta della sala da pranzo, l’ultima stanza della casa, c’è un orto e una veranda coperta da un tetto ondulato di vetroresina e seduto sulla sedia a dondolo sento arrivare un bel vento fresco. Siamo in piena estate e le scuole hanno chiuso da soli tre giorni per le vacanze. Più in là dell’orto c’è un piccolo cortile privato di cemento chiuso sui quattro lati, ma i segni su una parete lasciano intuire che lì una volta c’era un ingresso che permetteva l’entrata delle auto dalla strada esterna. Zia ci dice che in questo cortile una volta Danilo aggiustava le barche dei clienti e faceva i lavori sulle capotte dei furgoni. L’orto è profumato e colorato. Si sentono odori provenire dal mare, anche se è molto lontano. Si sentono anche gli odori dei fiori. Ci sono ortensie, un limone, un nespolo, viole, una pianta di fichi e l’uva. Zia Ida ci richiama per mangiare. Sono arrivati anche Leandro e Diego, il fratello più piccolo con la passione per i piercing. I ragazzi sono simpatici e affettuosi, come tutti in famiglia. Sono contento di vederli dopo averne sentito parlare da nonna per molti anni e mi piace molto il loro modo “fisico” e spontaneo di manifestare l’affetto per noi. Ci viene presentato un gradito e familiare piatto di pasta e tagliatelle al sugo di pomodoro che facciamo fuori in pochi minuti.
A metà pomeriggio, dopo un breve riposo, arriva Cristina con due autisti d’auto che qui chiamano remis. La differenza tra un remis e il tassista è che con il primo puoi patteggiare un prezzo per essere scarrozzato per uno o più giorni, o anche per mezza giornata a prezzi ridicoli rispetto a quelli europei. Il taxi invece, come da noi, ha un tariffario che dipende dai chilometri percorsi. Cristina fa la padrona di casa, ha un carattere deciso e orgoglioso e ha deciso che oggi si andrà tutti (eccetto Zia Ida e nonna Lina che sono le più anziane) alla foce di Rio Paranà, nel punto in cui il lungo fiume argentino-brasiliano si immette attraverso un delta nel gigantesco Rio della Plata, che a sua volta sfocia, aprendosi a cono, verso il mare che dista dall’estuario un centinaio di chilometri. Ovviamente la proposta di Cristina ci trova tutti d’accordo. Per arrivare al Tigre attraversiamo BA nella zona nord est, il barrio di San Telmo e l’area portuale. Io e mio fratello saliamo sulla stessa auto insieme all’autista che si chiama Josè. Josè sa parlare molto bene l’italiano e ci racconta che quello di San Telmo è il barrio dei primi emigranti italiani che appena sbarcati nel porto di BA venivano alloggiati in case poverissime e strette dove rimanevano anche per anni. Passando in macchina scorgiamo anche la Casa Rosada in Plaza de Mayo dal cui balcone Evita Peron teneva discorsi ai numerosissimi sosenitori argentini. Oggi è giovedì e le strade della capitale sono molto affollate. Josè ci dice che il sabato e la domenica diventano deserte. Passiamo davanti al club dei pescatori e all’aeroporto locale. L’acqua dell’estuario è inviata ai depuratori e viene normalmente bevuta dagli abitanti di BA. Durante il percorso vediamo anche lo stadio del Boca Junior. Ci viene detto che le due squadre rivali a BA sono il Boca e il River Plate.
Arrivati al Tigre decidiamo di fare un giro in barca che ci costa 25 pesos a testa, meno di sei euro. Sicuramente ne vale la pena. Il battello ci fa fare un giro di un’ ora circa in cui attraversiamo alcuni bracci della foce fino a Rio la Plata e ritorno. Il nome Tigre, ci spiega Cristina, proviene dal fatto che dall’alto il delta ricorda il mantello striato della tigre, con l’alternanza di isolotti ed i suoi fitti rami. Ci stupisce il fatto che sugli isolotti ci siano ville molto belle, probabilmente per i periodi di villeggiatura di ricchi abitanti di BA. La sera zio Stefano e zia Irma rirornano a Berazategui mentre io e mio fratello, insieme a Cristina e Josè andiamo a visitare BA. Prima di arrivare in centro attraversiamo un ponte che fiancheggia un favela ai margini di BA. Purtroppo il fenomeno di questi quartieri degradati e senza legge dilaga anche nelle periferie argentine e ci impressiona per la crudezza delle immagini che ci si presentano agli occhi: palazzi di due piani crollati di cui rimangono solo i pilastri e i pavimenti e qualche muro e che continuano ad essere abitati da gente che dorme per terra, case fatte di lamiera addossate l’una all’altra, bambini che giocano a pallone in un cortile in mezzo a un mare di immondizia. Alla fine arriviamo in centro. Le nostre due guide, che in realtà sono vecchi amici, ci portano a visitare il grande quartiere Palermo e il quartiere bene di BA: la Recoleta. Qui giriamo per il barrio, molto signorile rispetto al resto della città. Ci sono giardini con alberi (in realtà arbusti giganti in quanto mancano del tronco) dalle radici enormi, che Josè ci dice si chiamano Gomèri. Le foglie sembrano quelle del platano e le radici formano nastri verticali che solcano il terreno anche per diversi metri. Facciamo un salto all’ Hard Rock Cafè di BA dopodichè attraversando il cimitero monumentale della Recoleta dalle mura pittoresche (quello in cui è sepolta Evita) arriviamo alla chiesa di Nostra Sinora del Pilar, che visitiamo con calma. Infine ci dirigiamo verso la zona dei ristoranti e Cristina ci consiglia il Cabaleriza, un ristorante che fa parte di una catena molto diffusa a BA e dintorni. La carne è molto buona. Iniziamo con un mistone di frattaglie di mucca (fegato, ghiandole, budella), per passare ad una più tradizionale parilla (grigliata) di asado (le costolette di manzo). Io e mio fratello optiamo per una bistecca di mezzo chilo a testa. Ci facciamo consigliare da Josè per il vino e lui senza indugiare ci consiglia un vino tradizionale che in Italia non si trova. Si tratta del Malbec, un ottima qualità di uva che viene coltivata soprattutto nella provincia di Mendoza.
Per la cena in quattro abbiamo speso 297 $ argentini che diviso 4.5 danno circa 66 euro in 4. non male considerato che il costo della vita è circa la metà del nostro.
21/12/2007
Stamattina abbiamo visitato il cimitero dove è sepolto Danilo. Si chiama Campanario della Paz. È lontano una quarantina di chilometri da Berazategui in direzione sud. Fino ad ora è stata tra le cose più belle che ho visto a BA. Le tombe sono sotterrate nel prato, indicate non da comuni lapidi, ma da piccole lastre di marmo sdraiate sull’erba, con incisa la data di nascita e morte e il nome del defunto. Un prato enorme e luminoso disseminato di piante colorate e uccelli dal ciuffo nero sulla nuca e il petto bianco, grossi come merli che se ne vanno a spasso nel sole. I genitori di Danilo, zia Ida e Dante, e sua sorella, Cristina, hanno pagato molte migliaia di dollari perché venisse sepolto lì. Una cifra enorme, ma si dice fosse stata una volontà di Danilo, quando ancora era sano e allegro come noi lo conoscevamo.
Alle 16.45 arrivano a casa Cristina e Jose che ci portano a fare un altro giro, l’ultimo per BA. Io sto sempre con mio fratello. La nostra guida che sa tutto ci dice che l’uccello visto al cimitero è molto diffuso in Argentina e si chiama Tero. Le Araucarie sono invece le piante che avevamo visto il giorno prima e di cui non ci aveva saputo dire il nome. Sono piante molto diverse dal Gomèro, hanno fusti altissimi e vivono fino a 2000 anni.
Visitiamo subito la Boca, la via Caminito, la più turistica, che si chiama come un tango di Gardel, le case, che come una volta sono fatte di lamiera ondulata e pitturate con vernici color pastello. Ora pur rimanendo un barrio periferico in cui fare attenzione nelle ore notturne, è diventato luogo di ritrovo per artisti bohemien che sbarcano il lunario con la vendita di dipinti rappresentanti scene di ballo e di vita nella Boca. In fondo a calle Caminito c’è un balcone con le statue dei tre “grandi” argentini che salutano la folla: Diego Maradona, Gardel ed Evita Peron. Due artisti di strada ballano un tango e chiedono un offerta in un cortile lì nei pressi. Nessuno si ferma a guardare ma loro danzano e sembrano divertirsi. Piove. Facciamo qualche acquisto poi ci dirigiamo verso Plaza de Mayo, vediamo la Casa Rosada e la via principale che collega il palazzo governativo con il palazzo del congresso (il parlamento argentino). Lo stile architettonico delle case è un misto tra francese e spagnolo, di tanto in tanto si trovano grossi palazzi con vetri a specchio. La via ricorda qualsiasi grande capitale europea. Ci fermiamo ad un caffè storico pieno di ornamenti e orpelli alle pareti e grossi lampadari scintillanti. Ad un lato della sala ci sono le statua di Borges e di Gardel.
La sera ci raggiungono tutti i parenti e ceniamo al quartiere nuovo, con una splendida vista sulla darsena anche se piove. Il ristorante è lo stesso della catena di ieri. Con un costo medio di 10 euro s’è mangiato e bevuto bene, Josè era in forma. Abbiamo fotografato tutti. Gustavo, il figlio di sedici anni di Danilo, che non parla italiano ma comunica ad abbracci, si è attaccato a nonna Lina e sembra non volersi alzare più dalle sue ginocchia. Un vero ritrovo di famiglia. Abbiamo bevuto un’altra varietà di Malbec, un vino rosso che si chiama Trapiche. Questa volta alla bistecca di manzo ho preferito il vitellone (vaino), Massi ha preso un Pamplona, un involtino di carne di maiale o pollo o manzo. In molti hanno preferito il tradizionale asado che già da fuori il ristorante si può osservare cuocere su enormi griglie sospese su altrettanti enormi bracieri.
22/12/2007
La mattina prestissimo partiamo per Ushuaia. Alle tre del mattino Josè ci accompagna all’aeroporto locale di BA e ci diamo l’arrivederci pur sapendo che non ci rivedremo mai più e che non troveremo altrove un’altra guida così preparata e gentile e premurosa. Arriviamo in mattinata intorno alle dieci e subito mi investe un senso di isolamento. Il clima è abbastanza mite, ci sono 15 gradi e si sta bene con una felpa e una giacca a vento non troppo pesante. Ci sono poche persone all’aeroporto, perlopiù giovani probabilmente abitanti del luogo al ritorno dalla scuola o dall’università a BA. Prendiamo un taxi e per 60 pesos ci facciamo accompagnare al bed and breakfast (Galeazzi-Basily B&B, Cabana Aves del Sur, gob. Valdez, 323 – Ushuaia, tel: 02901-423-213) che abbiamo prenotato dall’italia a 210 $ per notte. Diviso tre viene una cifra irrisoria. L’autista ci racconta qualcosa di Ushuaia. Questa cittadina conta circa 40.000 abitanti e negli anni è stata oggetto di una campagna di ripopolamento con incentivi economici e sgravi fiscale da parte del governo argentino. In primo insediamento è stato di carattere militare, seguito dalla nascita di un polo industriale, infine, negli ultimi 50 anni, il carattere della cittadina è diventato quasi esclusivamente turistico. Sono le 10 del mattino. Facciamo le presentazioni col padrone di casa e la moglie e si dimostrano disponibili e gentili. Ci mostrano la casa che è un appartamento simile ad una baita di montagna con una cucina a disposizione fornita di caffettiera elettrica, pentole, piatti, aranciata, miele, tostatrice e tutto l’occorrente per la colazione dell’indomani.
Alle ore 15 avevamo prenotato dall’Italia una escursione alla Pinguinera, l’isola dei pinguini. Quindi raggiungiamo la piazzola dove partono gli autobus, che è poco distante dal porto (Ushuaia si trova su un braccio di mare che attraversa il continente da est a ovest, ovvero dall’atlantico al pacifico, e che si chiama canale di Beagle) Qui è un assalto di promotori di diverse aziende turistiche ognuno dei quali ci offre un diverso modo di visitare l’isola dei pinguini e il canale di Beagle. Qualcuno anche in barca a vela ma noi avevamo già prenotato dall’Italia. Zio Stefano era riuscito con l’aiuto di Cristina a prenotare contattando direttamente gli operatori turistici del luogo e questo ci ha permesso di risparmiare sulla commissione delle agenzie di viaggio in Italia. Infatti scopriamo con piacere che i prezzi pagati preventivamente corrispondono all’incirca a quelli esposti sui vetri delle agenzie locali.
Sono quasi le tre. Si avvicina una guida giovane e con la barba che sembra Tom Cruise più grasso e barbuto e ci chiede se abbiamo la prenotazione per l’escursione alla pinguinera delle quindici. Poi controlla i nostri voucher, registra i nomi e insieme ad un’altra quindicina di persone, perlopiù ragazzi ma anche una famiglia di romani, partiamo con il pulmino attraverso un sentiero che costeggiando il canale ci porterà al punto di sbarco per la pinguinera.
Il percorso dura circa un ora e mezza ma la guida è molto simpatica e alternando inglese e spagnolo ci intrattiene con la descrizione degli animali e delle piante che vediamo scorrere dai finestrini e con battute più o meno riuscite. Ushuaia, ci viene detto, si trova in mezzo fra il monte Olivia a est (il nome della moglie del padre fondatore della città) e il Monte Susana a ovest. Ci viene anche detto cosa vedremo una volta arrivati alla pinguinera e veniamo istruiti sul comportamento da tenere una volta giunti di fronte a questi piccoli uccelli allo stato selvatico. I pinguini sono di due specie, uno è il pinguino di Magellano (Spheniscus magellanicus) con striature nere sull’addome bianco, l’altra specie, insediatasi da qualche anno e di origine prevalentemente antartica, è il pinguino Papua (Pygoscelis papua) più grande e colorato e dal vistoso becco arancione. Purtroppo all’arrivo sul’isola inizia a scendere una pioggia torrenziale tanto che qualcuno è costretto a rimanere sulla barca. Io e zio invece tiriamo fuori le mantelle da pioggia e alla fine ce la caviamo con soltanto le estremità dei pantaloni bagnati. Riusciamo a vedere solo la specie di pinguino di magellano, salendo sull’isolotto vediamo una femmina che tiene letteralmente sotto la sua ala di protezione un chick, il figlioletto. La guida ci racconta tutto su questi particolari uccelli, i maschi passano gran parte del loro tempo a cercare prede in mare, le femmine accudiscono per circa tre mesi i piccoli, poi li lasciano al loro destino, conducono una vita monogama e la loro costituzione è adatta a sopportare le basse temperature del clima antartico. In realtà non hanno molti pericoli da temere né in terra né in acqua, perché il canale di Beagle costituisce una protezione dai cetacei e dai grossi predatori di mare. Una volta finito il nostro giro la barca ci riconduce sulla costa dove ci fermiamo ad una fattoria gestita da ragazzi e ci rifocilliamo con de the caldo e biscotti. Poi torniamo in albergo
Dopo una meritata doccia usciamo a cercare un posto dove mangiare. Ne troviamo uno subito al viale che conduce da casa nostra al porto. Sulla vetrina è indicato come piatto tipico la Merluza negra, un pesce tipico che vive a 700 metri di profondità. Entriamo e tutti ne ordiniamo una porzione. Massi e zio prendono anche una paella, che ci viene servita in una grande ciotola. Ovviamente innaffiamo tutto nel vino rosso locale. La cena e il servizio ci soddisfano, alla fine torniamo all’albergo soddisfatti con già in mente l’escursione del giorno dopo: il canale di Beagle.
23/12/2007
Alle 9.30 ci troviamo già al molo turistico e incontriamo la nostra nuova guida, una ragazza giovane dagli occhi azzurrissini che ci parla in due lingue (spagnolo e inglese) e che dopo pochi minuti ci fa imbarcare per la navigazione sul canale. L’imbarcazione all’interno possiede dei comodi divanetti e un tavolino centrale con i thermos di acqua calda, caffè e un cesto con ottimi biscotti glassati e buste di the e mate. Dai finestroni è possibile vedere il panorama tutt’intorno. Splendide cime che circondano il canale ammantate dal biancore dei ghiacciai a bassa quota che si riflettono sul mare. Quasi tutti i turisti preferiscono uscire dato che il tempo oggi è buono nonostante ci sia un forte vento. La prima isola è quella dei cormorani. A prima vista sembrano pinguini ma la guida ci smentisce subito. I comorani, dice, sono uccelli che cacciano tuffandosi sott’acqua, raggiungendo anche i 70 metri di profondità. Hanno una fisiologia adatta all’immersione, le ossa non sono cave come il resto degli uccelli il chè fa di loro animali non molto adatti né al nuoto né al volo. Finalmente arriviamo all’isolotto dei lobos marinos, i leoni marini. Purtroppo non è previsto che scendiamo sull’isola ma riusciamo comunque a vedere molto e a scattare qualche foto. Gli animali si ammassano l’uno sull’altro ma qualcuno preferisce tuffarsi per godersi una nuotata in solitaria. Assistiamo a scene divertenti come quella di un esemplare femmina che scendendo dalla scogliera per tuffarsi in mare, scivola e non potendo trattenere il proprio peso con le pinne prova a frenare puntando il muso sullo scoglio, e riesce! Oppure quella di un maschio, circondato dall’harem, che all’arrivo della barca emette una specie di lamento molto forte come ad intimarci di non avvicinarci di più.
La tappa successiva è la vista ravvicinata del pittoresco faro di Eclaireurs, a 6 km dalla costa, che divide la parte di canale argentina da quella cilena. Il faro è alimentato a energia solare ed è situato su un isolotto abitato da una quantità di cormorani. Nel rientro la guida ci fa scendere su un isolotto dove si osservano alcune trecce di antichi accampamenti delle tribù native, gli yamana, che erano soliti accendere fuochi per riscaldarsi e tenerli accesi tutto il giorno (il nome “Terra del Fuoco” proviene dai primi coloni che navigando lungo le sponde della regione, di notte, scorgevano i bagliori del fuoco degli accampamenti lungo tutto il profilo della costa). Risalendo il monte osserviamo il nido infossato nel terreno di un rapace e infine una splendida vista sul canale di Beagle che una volta era un lago, così dice la guida. Al ritorno siamo molto soddisfatti ed essendo soltanto le 12.30 pensiamo a come impegnare il pomeriggio. Le escursioni prenotate dall’Italia sono concluse, quindi abbiamo diverse possibilità. Decidiamo per la visita al parco nazionale della Terra del Fuoco. Seguendo le indicazioni dateci la sera prima dal locandiere camminiamo lungo la riva del canale fino ad arrivare ad una stazione di autobus dove troviamo degli individui all’apparenza un po’ loschi che ci chiedono dove vogliamo andare. Il prezzo per salire fino al parco è onesto quindi prendiamo i biglietti e saliamo a bordo di un furgone, facendoci dare anche una mappa degli itinerari del parco e gli orari delle partenze per il ritorno. Da lì all’ingresso del parco sono 12 Km ma noi chiediamo di essere lasciati all’interno del parco (è un opzione possibile) al termine della ruta 3, per le escursioni del “sector lapataia” (di fronte all’omonima baia).
La scelta si rivela ottima. Tempo previsto per le escursioni a piedi della baia: 2 ore. Passiamo attraverso un bosco che pare abitato soltanto da lepri (di origine non autoctona sembra essere diventata la specie dominante del luogo). C’è un silenzio irreale, il paesaggio cambia ad ogni svolta del tracciato, di tanto in tanto si incontra un turista in cammino nella direzione opposta. La vegetazione arbustiva e le torbiere della tundra si alternano a specie ad alto fusto e dalle chiome frondose (il Notro è un esemplare tipico dai fiori rossi). I prati sono verdi e floridi e costellati di fiori bianchi. Alla fine raggiungiamo la baia e proseguiamo per un sentiero che ci condurrà alla castoreta. Qui insieme alle torbiere osserviamo un ambiente che i castori, importati anni fa dal Canada, hanno modellato a proprio uso. Alla fine del sentiero c’è una passerella da cui si scorge la pianura disseminata di tronchi d’albero spezzati dal vento (e forse dai castori) e la diga che i castori hanno costruito sul torrente affistellando grossi rami secchi trasversalmente al letto del fiume. Anche se in origine la diga per i castori aveva il significato di protezione contro l’attacco degli orsi, in questa regione sembra avere più la funzione di creare una zona lagunosa a valle, adatta all’intrappolamento dei pesci che discendono la corrente. Anche se di castori non si vede neanche l’ombra, riusciamo a vedere una donnola attraversare il fiume e immergersi abilmente per ritornare in superficie con in bocca un bel pesce!
Ma il tempo stringe e insieme a zio e Massi decidiamo di incamminarci per un nuovo percorso. Dopo una breve consultazione e il suggerimento di qualche passante decidiamo di intraprendere il cammino costiero, dalle mappe indicato come Senda Costera, di difficoltà intermedia. Il tempo previsto è di tre ore, dunque dovremmo riuscire ad arrivare all’ultima fermata del bus all’interno del parco per le otto, giusto l’ora dell’ultimo passaggio del pulmino che ci riporterà in città. Mangiamo delle noci e della frutta e ci mettiamo in cammino per il sentiero costiero, a mio avviso il più bello del parco. Si passa attraverso boschi di guindo e camelo e arbusti. Il vento monta di minuto in minuto. Si sente il sibilo del vento tra i rami e il rumore sordo dei legni che si intrecciano in alto e dei tronchi che cigolano a ritmo cadenzato nel tentativo di resistere alle furiose sferzate. Sui tronchi sottili e sui rami (e sul sentiero) si vede ovunque un fungo parassita simile ad un frutto carnoso sferico chiamato Pan de Indio. Il sentiero scende lungo il litorale fino a raggiungere la spiaggia dove facciamo delle foto alla baia e osserviamo delle anatre selvatiche dalla livrea striata bianca e nera. Da lì il tracciato risale e ridiscende per almeno tre volte regalandoci scorci davvero suggestivi e solitudine contemplativa. Dopo tre ore arriviamo sfiancati alla fermata del pulmino che passa con qualche minuto di ritardo e ci riporta a Ushuaia. La sera siamo stanchi e affamati e ci rifugiamo dentro un altro ristorantino dove ordino un filetto di salmone della patagonia ai ferri mentre zio e Massi ripiegano sul riso alla granseola gigante (centolla), e sulla Merluza alla griglia.
24/12/2007
E’ iniziato il nostro ultimo giorno a Ushuaia e, dopo aver chiesto ai nostri ospiti il permesso di lasciare i bagagli fino alle16.30 circa, ripartiamo a piedi per la stazione dei bus questa volta diretti al ghiacciaio Martial, che con i suoi metri cubi di ghiaccio rifornisce di acqua potabile l’intera cittadina a valle di Ushuaia e che secondo gli esperti è destinato a scomparire entro 50 anni a causa dell’ aumento delle temperature. Arriviamo alle 10 di fronte ad uno spiazzo con una biglietteria per la seggiovia (aerosilla) e ci diamo appuntamento con l’autista per l’una.
La seggiovia conduce ad un punto panoramico da cui si vede Ushuaia e il canale di Beagle e da lì parte un percorso abbastanza ripido per la cima del ghiacciaio. La salita in seggiovia dura un quarto d’ora ed io, dato il tempo incerto, mi infilo la mantella per precauzione.
La camminata è dura, soprattutto considerata la fatica del giorno prima, ma con le dovute pause arriviamo in cima al percorso e facciamo le foto alla prospettiva suggestiva del canalone del ghiacciaio che insediandosi fra i due monti scende verso il mare. Prima di riprendere la seggiovia ci fermiamo ad un rifugio e riprendiamo le forze davanti ad una cioccolata calda. Al rientro in città ci fermiamo al Laguna Negra, la famosa bottega del cioccolato dove facciamo incetta delle migliori prelibatezze dolciarie del luogo, e in un negozio di articoli da regalo dove compriamo mappe del territorio e qualche souvenir, tra cui le famose Rodocrocita o “Rosa del Inca”, delle pietre rosse molto diffuse in Argentina. Facciamo visita al museo Yamana, che in realtà non è un granchè in quanto a reperti storici esposti e infine cerchiamo un posto dove pranzare. Entriamo al Banana’s, che è consigliato dalle guide come posto giovanile dove rilassarsi bevendo un drink e osservando le bellezze locali ma, per qualche motivo ancora a noi sconosciuto, i camerieri non sembrano interessati a prendere le nostre ordinazioni, motivo per cui, dopo dieci minuti di alzate di mano e cenni del viso non corrisposti, decidiamo di alzarci e di uscire alla volta di qualche altro locale. Ne troviamo uno lì a due passi. E per fortuna il servizio è efficiente e cordiale.
Alla fine torniamo all’albergo a prendere i bagagli e ci facciamo chiamare un taxi per l’aeroporto. L’autista è un pazzo e corre veloce ma la tariffa è inferiore a quella dell’andata e inoltre..siamo sani e salvi. L’aereo è alle 18.45 per cui dopo il check-in ci accomodiamo sulle poltroncine e attendiamo in compagnia di tre turiste canadesi che hanno alloggiato nel nostro stesso B&B. Scambiamo due chiacchiere e già pregustiamo la nostra prossima tappa: El Calafate e il parco de Los Glaciares.
Arriviamo all’albergo Hosteria Meulen (tel-fax: 02902-492982) che è già sera. Arrivando dall’aereo abbiamo potuto farci un’idea della desolazione assoluta della regione. I villaggi sono sparsi a decine di chilometri gli uni dagli altri e in mezzo pare esserci solo terra rossa e piatta e qualche strada rettilinea di collegamento fra centri urbani. Dall’aeroporto all’ albergo sono venti minuti di macchina e 22 Km e l’autista ci spilla 110 pesos. È una cifra abbastanza alta ma considerando che è la sera della vigilia di Natale non ci lamentiamo. L’albergo è un po’ fuori mano e scomodo da raggiungere, lontano tre chilometri dal centro di Calafate e per arrivarci si passa da una strada sterrata che mette a dura prova le carrozzerie e gli ammortizzatori delle vecchie auto dei tassisti locali. In compenso il panorama che ci attende è bellissimo. Siamo immersi nella Patagonia. Fuori dall’albergo c’è un terrazzo con delle sedie e qualche tavolino che si affaccia sulla distesa di terra brulla e arbusti. In fondo, all’orizzonte, c’è solo il profilo basso della cordigliera andina sotto un cielo nuvoloso e poco distante dal terrazzo la sponda del Lago Argentino e la riserva naturale con acquitrini punteggiati del colore rosa dei fenicotteri. Troviamo ad accoglierci Roberto, il padrone, la sua giovane moglie, una cameriera giovane e simpatica amante dell’Italia e un cuoco un po’ basso e tarchiato che ci serve degli aperitivi di benvenuto. Dopo esserci cambiati e ripuliti scendiamo nella sala ristorante dove ci viene servito il cenone di Natale. Il riso non è eccezionale ma come al solito le carni alla griglia sono ottime. Il dolce è una specialità locale, una specie di panettone che assaggio nonostante si già abbastanza pieno. Beviamo il Trapiche. A mezzanotte si brinda con una famiglia di argentini, usciamo sul terrazzo esterno che guarda sulla pianura deserta. Noi a questo punto siamo troppo stanchi per attaccare bottone e da lì a pochi minuti ci ritiriamo nella nostra stanza. Il mattino seguente abbiamo un’ escursione già programmata che ci porterà al ghiacciaio Perito Moreno.
25/12/2007
Dopo colazione a base di succo di frutta, the, yogurt e dulce de lache (zio Stefano tira fuori anche la “bomba”, una provvidenziale boccetta di estratto di radice di ginseng), un autobus viene a prenderci fin sull’albergo e ci trasporta per i circa 80 km che ci separano dal ghiacciaio. Calafate si trova sul Lago Argentino, così come il ghiacciaio. Anche qui c’è una guida, questa si chiama Marina, che ci racconta nelle due lingue le particolarità del luogo e del ghiacciaio. A un certo punto ci fa anche scendere per guardare da vicino una pianta di Calafate che semba molto un arbusto di mirtillo. Il sapore del frutto è acre e ci sconsigliano di mangiarne in quantità per l’effetto lassativo della bacca. Una leggenda dice che chiunque si trovi all’estero e mangi la bacca di Calafate ritornerà all’istante in Patagonia.
Il viaggio si conclude di fronte alla stazione dei traghetti dove una volta scesi zio cambia i voucher con i biglietti e quasi immediatamente ci imbarchiamo sulla barca che ci porterà a 200 metri dal famosissimo ghiacciaio. Arrivati vicino al costone verticale, alto circa 50 metri, la barca arresta i motori e assistiamo ai primi fenomeni di sgretolamento di interi blocchi di ghiaccio che, staccandosi per scioglimento dal fronte con un tonfo cupo, cade in acqua e si frammenta in piccoli icebergs. Lateralmente ci sono i fianchi dei monti che scendono dolcemente sul lago, costituiti da rocce moreniche, modellati cioè dal graduale e lento ritiro del ghiacciaio che le ha sovrastate per milioni di anni, con la sezione caratteristica a strati ondulati. Dopo circa un’ora siamo di rientro nell’autobus che ci porta sulla penisola di Magellano, proprio di fronte al ghiacciaio, dove delle passerelle a diversa altezza dal livello del lago ci permettono di osservare da una prospettiva diversa il fenomeno della caduta dei blocchi di ghiaccio. Su una bacheca di legno leggiamo che a cicli di circa quattro anni avviene un fenomeno ben più imponente dello staccamento delle “zolle” di ghiaccio dal corpo del ghiacciaio. Tale fenomento viene chiamato “rottura” e consiste nel fatto che, periodicamente, a causa dell’incedere più veloce del ghiacciaio verso la penisola di Magellano, questo finisce per collidere con la terra ferma dividendo in due il lago e formando un enorme diga naturale che ostruisce il passaggio della corrente del lago da sud a nord. Questo provoca un aumento del livello dell’acqua a monte dell’ostacolo e la pressione generata su di esso induce, dopo qualche mese, alla rottura della “diga di ghiaccio” con il conseguente ripristino del flusso di acqua da una parte all’altra del lago. La Natural Dam è già sotto i nostri occhi e la prossima rottura è prevista per il 2008. Abbiamo sbagliato di un anno! Alla fine torniamo in albergo stanchi come sempre ma io e Massi ci facciamo lasciare al centro di Calafate per telefonare alle ragazze e conoscere meglio questa cittadina all’apparenza insulsa e costruita ad hoc per i turisti ma che già dal secondo giorno si rivela più accogliente. Dopo una Quilmes stout (la birra tipica argentina, anche chiara, ma si trova spesso anche la Continental o la Nastro Azzurro) al tavolino all’aperto di un bar, ci rimettiamo in marcia alla ricerca di un taxi, e con qualche difficoltà trattandosi del giorno di Natale, ne troviamo uno che ci riporta alla base.
26/12/2007
Il giorno 26 abbiamo un’altra escursione guidata e prenotata dall’Italia per Rios de Hielo.
In realtà nessuno di noi sa esattamente in cosa consista il tour ma ben presto lo scopriamo. Il voucher che possediamo ci dice che la compagnia con cui faremo l’escursione si chiama Solo Patagonia. L’autobus viene a prenderci come di consueto fin sull’albergo e dopo circa tre quarti d’ora ci lascia ad una stazione della località Puerto Bandera, sul Lago Argentino e non lontano dal luogo dell’escursione di ieri. Appena scesi ci accorgiamo della grande fila di fronte al botteghino per l’acquisto dei biglietti d’ingresso al parco nazionale Los Glaciares. Partiamo insieme ad un gruppo di una quarantina di persone su un traghetto confortevole e moderno. Molti dei turisti sono italiani. Sotto coperta ci sono delle poltroncine come quelle dei cinema e dei monitor che proiettano immagini di paesaggi e fauna della patagonia. Sul ponte invece (ce ne sono due, uno che circonda il vano passeggeri e un ponte più in alto, raggiungibile dalle scalette laterali), alla partenza non c’è nessuno ma dopo l’uscita dal porto sono in molti ad andare fuori. Scopriamo da una brochure che troviamo sulle poltroncine che Rios de Hielo è soltanto uno dei diversi itinerari tra le tante possibili escursioni in barca attraverso i ghiacciai della sponda più occidentale del Lago Argentino.
La prima destinazione è la bahia Onelli che visiteremo a piedi e che dal punto di approdo del traghetto dista circa venti minuti di cammino. Il percorso è semplice e abbiamo nuovamente modo di ammirare un bosco tipico di quei posti, la cui flora non è molto diversa da quella di Ushuaia, divisa fra steppa e foresta di piante ad alto fusto spesso abbattute dal forte vento. Arrivati alla baia lo spettacolo è gratificante. I tre ghiacciai che finiscono nel lago, una volta facenti parte di un’ unica massa di ghiaccio, ora sono divisi in tre grossi bracci che discendono dalla cima Onelli e che si chiamano ghiacciao Onelli, Bolado e Agassiz. L’unico rammarico è che i turisti sono molti di più che a Ushuaia e nell’insieme sembra di partecipare a quella che zio definisce una gita domenicale. La seconda tappa dopo la baia Onelli è il ghiacciaio di Upsala. In sè non è impressionante come il Perito Moreno ma quello che colpisce è la barriera di icebergs che punteggia la baia prima di raggiungere la parete del ghiacciaio. Il gioco di rifrazione della luce contro queste masse cristalline, li fa apparire di un colore azzuro tendente al blu, tanto più scuro quanto più il ghiaccio è vicino alla temperatura di scioglimento. L’ultima visita infine è al ghiacciaio Spegazzini, il più alto di tutti e anche dal fronte più esteso, dato che pare essere l’unico scampato al ritiro dovuto all’innalzamento delle temperature della terra degli ultimi anni. Siamo pronti per rientrare alla base, un altro giorno è trascorso. Arriviamo al centro di Calafate e ci facciamo lasciare lì. Questa volta siamo tutti e tre. Telefoniamo a casa da un locutorio e prenotiamo l’escursione per dopo domani. L’indomani ci aspetta una gita a Chalten e passeggiata sotto la cima Fitz Roy. Quella prenotata invece è a Torres del Paine, famoso parco nazionale del Chile. Trovo un simpatico tassista di 26 anni che si chiama Ezechiele e lo convinco a portarci a Chalten per 550 pesos, un’ ottima cifra soprattutto considerando il prezzo che ci avrebbe fatto pagare l’albergatore se ci avesse organizzato lui il tutto. Evidentemente pensava di trattenere una commissione molto alta! Troviamo, in una via un po’ defilata rispetto al centro, una “Parilla Self”, dove per 30 pesos a testa riusciamo a mangiare dell’ottima carne oltre a dei primi un po’ arrabattati, e a bere un altro vino locale. Cerchiamo un taxi che ci riporti all’albergo ma col primo ci va male. Non appena gli abbiamo accennato il nome dell’hotel ha detto che non era disponibile.probabilmente aveva lavato la macchina da poco. Ci va meglio con il secondo che guarda caso è.proprio Ezechiele! E non ci fa nemmeno pagare la corsa, visto che ci vedremo domani!
27/12/2007
Chalten e Fitz Roy.
La mattina alle otto Ezechiele arriva puntuale. Ci dirigiamo verso la famosa ruta 40 (detta anche ruta Che Guevara perché fu quella che negli anni della gioventù percorse in motocicletta insieme all’amico Granado risalendo poi dal Chile) che con nostra grande sorpresa scopriamo avere lunghissimi tratti non asfaltati, proprio come nel film di Salles. Osserviamo ai bordi della strada dei guanaco (simili ai Lama) che in alcuni casi minacciano di attraversare la carreggiata ma il nostro autista li scoraggia a colpi di clacson. Si vedono anche gruppi di Choique (in lingua Mapuche, sono nandù), allo stato libero e addirittura una carcassa proprio a fianco della strada, probabilmente di un guanaco investito. Ezechiele si rivela abbastanza prudente nella guida ma ha l’abitudine, condivisa con molti altri autisti del luogo, di viaggiare al centro della carreggiata se non addirittura a sinistra. C’è una spiegazione, ci dice in spagnolo gesticolato: dato che la circolazione di auto è ridottissima (non si vede anima viva per chilometri) è più prudente viaggiare al centro per rimanere in strada in caso di un’ eventuale raffica di vento o dell’attraversamento imprevisto di animali selvatci. Non fa una piega ma la cosa non ci fa comunque stare tranquilli. Procediamo con la musica dei Credence nello stereo, neanche fossimo in Arizona! In effetti lo scenario della Patagonia è simile al deserto. Terra bruna e steppa e arbusti spinosi che si estendono per chilometri e chilometri quadrati. Dunque la Patagonia non è solo un luogo astratto, una regione abbandonata del Sud America o addirittura una percezione della mente come credevamo. Il cielo nella mattinata è molto nuvoloso ma ancora non minaccia pioggia. Ci fermiamo per osservare il panorama e il lago Viedma e l’autista ne approfitta per scattare qualche foto a noi e fumarsi una sigaretta. Dopo circa un’ora, durante una seconda sosta, ci fermiamo al punto di ristoro Luz Divina, che dista a 95 Km da Calafate, il centro abitato più vicino! Beviamo del caffè e dopo le foto di rito ad un cucciolo di guanaco addomesticato ripartiamo per Chalten. Alle 11 arriviamo a destinazione. La cima del Fitz Roy e del vicino Cerro Torres, vette ambite da scalatori di tutto il mondo, sono perennemente coperte da una coltre di nubi a cilindro, un cappello (Chalten che nella lingua dei nativi significa montagna fumante perché pensavano erroneamente che il cerro Fitz Roy fosse un vulcano attivo) che pare essere dovuto all’impatto delle correnti d’aria contro la cima il cui profilo si eleva prominente sopra la cordigliera andina (la vetta supera i 3400 metri). Appena scesi incontriamo prima un Carancho (una specie di piccola aquila dal collare bianco) e poi un condor che plana ad alta quota maestoso sopra le nostre teste. Se fossimo dei capi indiani apprestandoci al sentiero verso la cima penserei che oggi è un buon giorno per.vivere! La città non vale la pena di essere visitata, sembra una cittadina del far west, entriamo solo in un piccolo supermercato e compriamo dei panini e degli affettati che mangeremo una volta a destinazione. Salutiamo Ezechiele e ci diamo appuntamento per le cinque del pomeriggio, intanto lui andrà a trovare qualche suo amico di Chalten. Iniziamo a camminare finchè non troviamo, all’inizio del sentiero di montagna, un’ indicazione dei diversi itinerari da percorrere. Decidiamo di intraprendere il cammino verso il campo base degli arrampicatori. In realtà semplicemente un campeggio a circa due ore e mezzo di cammino. Il percorso è facile ma offre meravigliose panoramiche sul fiume e su parte della desolata provincia di Santa Cruz. Conosciamo un olandese un po’ freak sui trentacinque e uno zaino in spalla pieno di pentole che ci racconta di aver viaggiato per il mondo e di avere visitato anche l’italia del sud e di aver assaggiato i pomodori campani e le mozzarelle di bufala a Capri! Proseguiamo la salita e veniamo assaliti da insetti simili a mosconi ma più da vicino a delle piccole falene, non so che animali siano in realtà. Dopo due ore e mezza di trekking raggiungiamo la meta e ci rifocilliamo ad un torrente vicino all’accampamento. Poi discendiamo prendendo un percorso alternativo che ci porta in prossimità della Laguna Torres, incantevole punto di osservazione della cima Fitz Roy (che a questo punto finalmente si vede distintamente, essendosi diradata la nuvoletta a cilindro). Infine ridiscendiamo in paese e ci ritroviamo con Ezchiele che prima di riportarci a casa ci fa visitare una cascata lì vicino. Una variazione molto gradita. Infine ritorniamo a Calafate, facendoci lasciare in albergo. Dopo esserci cambiati scendiamo in taxi al centro e torniamo alla grilleria self service e anche oggi non ne rimaniamo delusi.
28/12/2007
Torres del Paine.
Sveglia alle sette e partenza per il parco nazionale più bello del Chile: Torres del Paine! Il viaggio è andato bene se non per il fatto che al confine con il Chile ci hanno fatto scendere da pullman e controllato ogni cosa dentro agli zaini, con tanto di cane anti droga che girava per la dogana. Ho scoperto che non si potevano portare ortaggi e frutta fresca né carni fresche oltre il confine per evitare contaminazioni alimentari ed epidemie così ho dovuto buttare nel cestino due arance rosse che mi avrebbero fatto comodo nel viaggio. Quello che all’inizio sembrava un severo ufficiale di frontiera abbiamo scoperto poco dopo trattarsi della nostra nuova guida: Roberto. Non ho capito quasi nulla delle sue spiegazioni sul pulman a causa del suo tono di voce basso, se non che Patagonia significa in un dialetto spagnolo “piedi grossi” perché i primi conquistadores credevano che i nativi avessero questa caratteristica. Probabilmente erano solamente più alti della media attuale. Abbiamo camminato poco a piedi. Abbiamo conosciuto una simpatica marchigiana, Emanuela, che insegna scienze della comunicazione all’università di Urbino ed è una ricercatrice e scrittrice di saggi. Viaggia da sola e in due settimane riuscirà probabilmente a vedere tante cose dell’Argentina quante ne abbiamo viste noi. Solo che lei è sola appunto, e non ha prenotato nessun albergo e nessuna escursione, quindi improvvisa tutto all’infuori dei voli interni. Ad un certo punto il pulman fa flop, si rompe la scatola del cambio e siamo costretti a ritornare in seconda fuori dal confine cileno, quindi in Argentina. Salutiamo Roberto e torniamo a Calafate. Io e Massi e Emanuela scendiamo in centro mentre zio torna all’albergo. Emanuela alloggia in un ostello quindi conosce più persone di noi e sa anche dove andare questa sera. Infatti ci porta in una birreria dove fanno anche un po’ di musica moderna e pur essendo in quattro gatti sembrano esserci tutti gli abitanti di Calafate. Il locale è il Don Pedro. Stiamo giusto il tempo di bere qualche Quilmes poi prendiamo un taxi, salutiamo Manuela e ritorniamo all’ovile. Buona notte.
29/12/2007
Gita a cavallo nella fattoria, ritorno.
Oltre alla gita a cavallo sul monte, fiancheggiando il lago, abbiamo visto una tosatura di pecora fatta con le cesoie da un gaucho (originale!) e abbiamo mangiato l’agnello (cordero) nella fattoria, accanto al camino. Ovviamente accompagnato da vino rosso. Tornati a Calafate, fermati in centro abbiamo fatto acquisti e poi siamo tornati all’albergo dove una volta saldati gli ultimi conti, abbiamo salutato tutti e aspettato il tassista che ci ha riportato all’aeroporto, destinazione Buenos Aires e.dopo una notte passata a dormire sul pavimento dell’aeroporto.aereo delle sette per Puerto Iguazu.facendo attenzione all’ora, dal ventinove al trenta si porta avanti la lancetta dell’orologio di un ora. E’ l’ora legale che qui entra in vigore qualche mese più tardi, evidentemente. Ora sono solo tre ore di scarto con l’Italia!
30/12/2007
Foz de Iguazu, Cataratas, il lato brasiliano.
Ci sono due modi per visitare le cascate di Iguazu. Questo dipende dal fatto che le cascate, che si formano nel punto di incontro tra il Rio Paranà e il Rio Iguazu, si trovano esattamente al confine tra Argentina e Brasile (c’è dunque una sponda argentina ed una sponda brasiliana), e poco lontano dal confine del Paraguay. Un modo è quello di alloggiare nella cittadina brasiliana di Foz de Iguazu, a pochi chilometri dopo il confine argentino. Un altro è alloggiare a Puerto Iguazu (dove risiede l’aeroporto per i voli interni), località argentina a pochi passi dal confine con Paraguai e Brasile. Noi dall’Italia abbiamo deciso di pernottare a Foz de iguazu, all’albergo Tarobà Express (Rua Tarobà, 1048), considerando il noto carattere allegro e festaiolo dei brasiliani e il fatto che avremmo dovuto passare lì l’ultimo dell’anno. Non avevamo fatto bene i conti con il tasso di criminalità della piccola cittadina e del pericolo di camminare senza guida per le vie (anche del centro) dopo il calare del sole, ma di questo parlerò più avanti. All’aeroporto, dopo la presa dei bagagli, zio Stefano si adopera per affittare un remis per i nostri tre giorni di permanenza a Foz de Iguazu. L’autista si chiama Luis ed è un simpatico argentino che, ci racconta, possiede anche una casa in Brasile, e lavora esclusivamente con i turisti che vogliono visitare le cascate. Si offre per accompagnarci sia nel lato brasiliano che, il giorno seguente, in quello argentino. Inoltre l’ultimo giorno (il primo di gennaio) ci riaccompagnerà all’aeroporto dopo averci fatto visitare Puerto Iguazu e garantendoci la sua massima disponibilità anche per gli eventuali spostamenti serali. Riusciamo a contrattare un prezzo abbastanza buono: 15 dollari a testa al giorno, che per tre giorni sono 45 dollari a testa, poco più di 32 euro! Dopo essere giunti all’albergo ed esserci cambiati e lavati, Luis viene a prenderci con una nuova auto e ci porta al lato brasiliano delle cascate. Arrivati alla biglietteria verso mezzogiorno troviamo una lunga fila di persone in coda per i biglietti, e un’altra altrettanto lunga per l’ingresso. Luis riesce a prenderci i biglietti scavalcando la fila (il vantaggio di visitare i posti con la guida) ma dobbiamo comunque metterci in coda per entrare nel parco. Ci diamo appuntamento con lui per le sette di sera ed entriamo. I percorsi non sono molti, un pulmino scoperto ci porta attraverso la foresta umida fino all’imbocco di un sentiero nel corso del quale è possibile salire su passerelle che terminano in terrazze di metallo affacciate sulle cascate. Lo spettacolo è garantito. L’ultima passerella ci porta poco distante dalla Garganta del Diablo, la gola del diavolo, dove il vapore provocato dalla caduta di quell’enorme massa d’acqua ci investe e ci costringe a tirare fuori le mantelle, utilissime anche in questo caso, visto che ha pure iniziato a piovere! Infine risaliamo con un ascensore fino alla zona ristorazione dove ci sediamo ad un ristorante self service e per l’equivalente di una trentina di euro a testa mangiamo come non abbiamo mangiato in tutta la vacanza. Quasi non ci sembra vero di poter mangiare fino a sazietà e senza limiti tutto quel ben di dio che ci si para davanti agli occhi: cannelloni ripieni di ricotta e panna, riso alle fragole, spaghetti al sugo piccante, vitello tonnato, cotolette, mousse di fragole e menta e una quantità di fresca frutta esotica. Un pasto che ci fa ricredere sul primato della cucina italiana nel mondo. Aspettiamo fino alle sette vagando per negozi di souvenir e aspettando il pulmino che ci riporta all’ingresso. Luis è puntuale anche questa volta e ci riporta all’albergo. Prima però approfittiamo della sua conoscenza del portoghese per farci dire da qualche ristoratore (incrociato sulla strada di casa) se per l’indomani (il 31 dicembre) è previsto qualche evento in strada o per i locali di Foz de Iguazu. La prima delusione l’abbiamo nel sentirci dire che i ristoranti e i locali non organizzano nulla (quasi ci sia un coprifuoco notturno) e che le uniche feste sono organizzate da alcuni alberghi del centro e si tengono al chiuso, includendo cena e dopocena a prezzi molto europei! Rassegnàti torniamo all’albergo (neanche lì sembra esistere l’usanza di festeggiare la notte di capodanno) ripromettendoci che domani avremmo cenato al nostro hotel ma che poi ci saremmo spostati a far follie a due isolati di distanza, dove, secondo quanto sentito in giro, era prevista per la mezzanotte l’uscita dei festeggianti nello spazio antistante un lussuoso albergo per il tradizionale lancio dei fuochi artificiali.vero! Alla fine siamo crollati a letto. Zio Stefano ha dormito dalle otto alle otto del mattino dopo mentre con tenacia da irriducibili io e mio fratello verso le dieci siamo scesi alla hall e ci siamo fatti portare una birra alla…fragola (pare la mettano dappertutto) che chiamano chup (in realtà Luis il giorno dopo ci dirà che per “chup” i brasiliani intendono qualunque bevanda alla spina).
31/12/2007
Iguazu, il lato argentino.
Ultimo giorno di vacanza! Incominciamo subito male svegliandoci alle otto e mezza anziché le sette così troviamo Luis che ci aspetta alla hall e gli offriamo la colazione peraltro molto buona. Molta frutta sulla tavola, ottimo yogurt e plumcakes e altri dolci. Partiamo subito dopo colazione dopo che Luis ci ha raccontato la sua passione per la musica lirica italiana e ci apprestiamo ad attraversare il confine. Purtroppo ci dice che durante la scorsa notte è stata uccisa una turista a pochi chilometri dal nostro albergo. Dopo essere scesa dalla macchina per fare delle foto è stata assalita da dei ragazzini di una favela che si trova nei paraggi che le hanno sparato per rubarle una macchina fotografica. Questa notizia ci dispiace e ci inquieta. E noi che pensavamo a Foz come ad un posto allegro e festaiolo. Anche oggi che è l’ultimo dell’anno si respira un’aria strana, nessuno per le strade e i pochi sembrano vagare per le vie senza meta, alcuni sembrano zombie, qualcuno dorme in mezzo alla spazzatura e forse è morto, altri rovistano nei cassonetti. Ecco una città di periferia (anche se molto turistica) dell’allegro Brasile. Finalmente arriviamo alle cascate. Questa volta siamo più fortunati ed entriamo senza fare alcuna fila. Luis ci aiuta a prenotare una gita su un fuori strada per un sentiero nella foresta e una gita in gommone che ci porterà sotto le cascate nel lato più orientale (salto Mendez). Salutiamo Luis e ci diamo appuntamento per le sei e mezza. Il sole splende e forse questo ci permetterà di vedere le cascate sotto un’altra luce, ovvero nel loro massimo splendore di riflessi e luccichii e vapori iridescenti. Prendiamo un trenino “ecologico” che ci porta dall’ingresso del parco al “centro operativo” che non è altro che il luogo di partenza dei sentieri inferiore e superiore, nonché di un secondo trenino che porta dritto all’inizio del paseo che conduce alla Garganta del Diablo. Decidiamo che quello sarà il nostro primo itinerario. Dal trenino, stipato di persone, tento di scorgere qualche animale selvatico in mezzo alla selva fitta di rami d’alberi ad alto fusto, piante rampicanti, palme e liane, ma non vedo nulla se non formiche dalle dimensioni enormi, saranno tre volte quelle che si vedono in Italia! Il cammino della garganta dura circa un quarto d’ora e alla fine ci ritroviamo su una terrazza proprio di fronte alla cascata più impressionante del mondo. Un anfiteatro di acqua scrosciante che schiantandosi giù a cinquanta metri, provoca una nuvola di vapore così densa da non riuscire a vedere il fondo della cascata. Più tardi ci dirigiamo di nuovo verso l’ingresso del parco con l’idea di percorrere il Sentiero Macuco (cosa sarà questo Macuco?), il sentiero prevede una camminata di tre ore ma poiché abbiamo prenotato le escursioni in jeep e poi col gommone per le tre, e dobbiamo anche mangiare, decidiamo di fermarci circa a metà strada e tornare indietro. Non perdiamo però l’occasione di visitare una cascata a malapena indicata dai cartelli che si trova a metà del sentiero, in fondo alla quale scorgiamo una piccola insenatura nelle rocce, una specie di laguna azzurra con la spiaggia e qualche turista sdraiato a godersi il bel sole della mattina. Di tanto in tanto ci capita di vedere attraversare il sentiero da dei rettili simili a ramarri ma molto più grossi. Dopo essere tornati al centro operativo ed aver mangiato un panino al volo raggiungiamo altri turisti al punto di partenza dell’ escursione in mezzo alla foresta. Le jeep sono scoperte e la guida ci racconta tutto sulle varietà di piante e animali locali avvisandoci che gran parte degli animali di grossa taglia si tiene lontana dagli uomini (e quindi dal parco) nelle ore diurne. In realtà siamo molto fortunati perchè circa a metà tragitto vediamo una famiglia di scimmie della specie Cebo Cappuccino in cima ad un ramo proprio sopra le nostre teste. La mamma ad un certo punto deve sentirsi minacciata perché prende in spalla il piccolo e scappa nella boscaglia tra i rami seguita dal maschio. Ad aspettarci al termine del sentiero c’è una troup di addetti all’imbarco dei turisti (il tutto fa molto parco divertimenti.), un piccolo molo di legno coperto e un grosso gommone su cui veniamo fatti sedere dopo essere stati provvisti di salvagente. I gommonisti si attrezzano con una tuta impermeabile simile ad una muta a tenuta stagna e questo inizia a preoccuparci. In effetti quando ci avevano detto che avremmo visto le cascate da sotto non avevano specificato che ci saremmo entrati! L’inizio dell’escursione è innocuo con qualche gincana fra gli scogli a fior d’acqua del rio e l’osservazione quasi tranquilla di qualche esemplare di avifauna locale (aironi bianchi e cormorani ai bordi del fiume) ma presto iniziano le acrobazie più spericolate fino al temuto “tuffo” del gommone fin quasi dentro l’alveo della cascata. La morale è che ci siamo bagnati come se ci avessero immerso per intero in una vasca da bagno (non si è salvato nemmeno zio che aveva la mantella intera addosso). Comunque ne è valsa la pena. Al rientro si è pure messo a piovere! Abbiamo percorso il sentiero inferiore e dopo una mezz’ora di pausa ad un bar, abbiamo fatto anche quello superiore, nonostante fossimo zuppi dalla testa ai piedi. Siamo tornati puntuali all’ingresso del parco e Luis ci ha raggiunto poco dopo e ci ha ricondotti a casa. Ci ha dato la sua disponibilità per venire a prenderci la sera per portarci in qualunque posto avessimo desiderato ma, un po’ per la stanchezza e un po’ per il senso di insicurezza che avevamo, abbiamo deciso di passare la notte dell’ultimo dell’anno…in albergo! Insomma, abbiamo cenato a base di pizza (giganti) e zio si è concesso il lusso delle banane fritte che non sono come quelle di Cuba, ma poi a mezzanotte, nel momento in cui si stappano le bottiglie, non c’erano bottiglie da stappare, e abbiamo abbandonato la tavola quasi alla chetichella per poter vedere quei pochi fuochi che venivano sparati nelle strade. Ogni albergo nella via aveva una guardia armata all’ingresso che controllava che non accadesse nulla ai pochi turisti venuti fuori a festeggiare la mezzanotte. Siamo rientrati quasi subito e abbiamo finito la cena con la televisione che mandava le immagini in diretta della festa a Rio de Janeiro.
1/01/2008
Itaipu, Paraguai, Parco Avicolo brasiliano, Puerto Iguazu, ritorno a Buenos Aires.
L’ultimo giorno Luis c’è venuto a prendere presto, abbiamo liquidato l’albergatore e ce ne siamo andati a Itaipu, la più grande diga-centrale idroelettrica del sudamerica sul rio Paranà. In effetti è mastodontica, la quantità di acciaio e ferro utilizzati per costruirla sono pari a 380 torri Eiffel. Produce da sola ben oltre 10 gigawatt di potenza (!!!) ed è sufficiente a fornire il 25% dell’ energia elettrica del Brasile e oltre il 95% del Paraguay. Il progetto della diga è italiano anche se alla costruzione della centrale hanno partecipato Francesi e Americani. Paghiamo uno special turist circuit (30 real a testa) che ci permetterà di vedere anche l’interno della diga, ovvero la centrale idroelettrica, con i suoi uffici di controllo, le turbine e gli immensi rotori, generatori di corrente elettrica. Due ingegneri ci fanno da guida attraverso i recessi sotteranei della centrale. Dopo la visita alla diga, a cui ha partecipato anche Luis, abbiamo raggiunto la vicina Ciudad de le Este, una città paraguaiana appena oltre il confine. La città è conosciuta perché ci sono tanti mercati e negozi che vendono prodotti Hi-Tech a bassissimo costo, ma in molti tra cui lo stesso Luis ci hanno avvertito di fare attenzione alle fregature. La città però è deserta perché oggi è il primo dell’anno e possiamo soltanto immaginare l’affollamento nelle strade dei giorni feriali. La gente per le strade ha un aspetto poco raccomandabile, e anche qui vediamo diverse guardie armate di fucili a pompa, a confermare i nostri sospetti sulla pericolosità del posto. Ben presto ritorniamo nel più tranquillo confine argentino e ci facciamo accompagnare al parco degli uccelli che si trova nei pressi dell’ingresso delle cascate brasiliane. Vediamo molte specie variopinte di pappagallini (Loro) e il famoso pappagallo brasiliano che ha ispirato il disneyano Josè Carioca, il Guacamayo Azul. Osserviamo anche l’Urraca Comune in cattività, l’uccellino dal simpatico ciuffetto che più volte c’è capitato di vedere per il parco di Iguazù. Poi ci sono aironi, fenicotteri (flamingos), una particolare specie di condor (più piccolo dei condor comuni, ci informa Luis, nonostante abbia un’apertura alare di un metro e mezzo almeno) e altri ancora. Infine scorgiamo una gabbia con uno strano uccello dal nome familiare.Macuco! Ecco svelato l’arcano del Sentiero Macuco. Usciti piuttosto in fretta dal parco avicolo ci avviamo verso Puerto Iguazù, dicendo definitivamente addio al Brasile. La città non offre un granchè, si regge soprattutto sul turismo, ha meno di cento anni di vita a manca un vero piano per lo sviluppo del territorio. Certo con quel patrimonio naturale che si ritrovano a due passi, una città del Nord America avrebbe costruito infrastrutture per miliardi di dollari. Invece la città è piccola, c’è ancora il vecchio porto che veniva utilizzato come scalo per i mercantili e per il trasporto dei primi emigranti. Poi Luis ha la buona idea di portarci a Los Tres Rios, un posto poco lontano che costituisce il punto di confine dei tre stati adiacenti del Paraguai, Brasile e Argentina. Qui compriamo ancora qualche souvenir e una scorta di mate da un ragazzino dietro una bancarella. Le ultime foto e poi di nuovo in macchina per l’ultima destinazione: il piccolo aeroporto locale che ci ricondurrà a Buenos Aires. Lì ci congediamo da Luis che ringraziamo calorosamente e acquistiamo in una boutique una collana con una Rodocrocita incastonata in un ciondolo d’argento. Un regalo per Cristina che stasera ci aspetterà all’aeroporto di BA per riaccompagnarci a Berazategui e domani di nuovo all’aeroporto internazionale per la partenza definitiva verso l’Italia.
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