di Jan Dock –
L’aereo dell’Air Polinesian arriva alle 5 a Nadi, sulla costa occidentale di Viti Levu, la più grande tra le isole Fiji. Circa 3 ore di macchina ci separano da Suva, la capitale che è situata a Sud Est dell’Isola. Fin dall’aeroporto sono abbastanza evidenti alcune differenze rispetto alle Cook: anche qui l’origine è vulcanica, ma le Fiji sono grandi isole, con un ambiente e un panorama diversificati. Ci sono la spiaggia e la barriera corallina, ma ci sono anche foreste di pini, foreste pluviali, campi di riso e di canna da zucchero, orti di radici, fabbriche e officine e così via. Più ricca di diversità rispetto alle Cook è anche la popolazione: ci sono i “nativi” melanesiani e ci sono gli indiani (che ormai costituiscono più della metà della popolazione).
La strada per Suva al principio passa attraverso una grande quantità di alberghi e resort (la maggior parte degli stabilimenti turistici sono intorno a Nadi), poi attraversa delle colline coperte da pini e poi ridiscende in pianura, in mezzo a campi coltivati e villaggi. Un numero incalcolabile di fiumi e fiumiciattoli dalle colline e dalle montagne (alcune superano i 2000 metri) dell’interno va verso il mare. Al lato della strada il mare pieno di piccole isole più o meno lontane.
Il mare è un tratto evidente anche a Suva, ma non per farci il bagno. La baia di Suva è considerata uno dei porti più sicuri della regione e infatti è piena di navi, soprattutto grandi pescherecci giapponesi, coreani e di Taiwan. La città, dall’altra parte, è soprattutto un luogo di affari: ci sono gli uffici della pubblica amministrazione, quelli delle organizzazioni internazionali, quelli delle imprese. E non c’è molto altro: il Fiji Museum, qualche cinema e qualche centro commerciale, un po’ di ristoranti cinesi e indiani, alcuni alberghi (molti a basso prezzo – ma con standard altrettanto bassi – un paio con standard internazionali e particolarmente cari). Ci sono molti night club, proprio come quelli che ci si aspetta di trovare nei pressi di un porto. Non il luogo ideale per uno straniero da solo, se non cerca compagnia.
C’è anche una grande quantità di sale e di internet cafè, piene di giovani che trascorrono ore a giocare on line, e che sono gli unici servizi pubblici aperti 24 ore.
Quando arrivo è domenica e, come in tutto il Pacifico cristianizzato, tutto è chiuso: musei, ristoranti, uffici. Non c’è molto da fare. Le uniche attività che si scorgono sono quelle delle persone che vanno in chiesa (uomini in camicia bianca, cravatta e gonna, con la Bibbia in mano) e quelle degli indiani che giocano a pallone o a bocce, in un circolo vicino al mare. Arrivando nella città ho visto però che oltre il porto, prima di arrivare nella cittadina di Lami, c’è uno Yacht Club. Così con pochi minuti in taxi (le distanze sono comunque minime) sono al Royal Suva Yacht Club. Non c’è possibilità di andare in barca, ma posso comunque rimanere a mangiare il pesce marinato nel latte di cocco (kocoda) e a guardare le barche ormeggiate, o a leggere sul prato di fronte alle banchine. Le barche sono quasi tutte a motore – una buona parte sono in alluminio e un’altra buona percentuale sono barche in vetroresina costruite secondo un disegno diffuso anche in America latina, sia lungo la costa pacifica sia nei carabi, e utilizzato soprattutto per la pesca. Penso si tratti di un progetto giapponese (infatti molti pescherecci giapponesi hanno una forma simile): la prua alta, il baglio massimo abbastanza stretto e una forma molto lineare (lo scafo continua dritto dopo il mascone fino a poppa, senza curve); la carena è planante, a V a prua diventa quasi piatta a poppa; la propulsione è sempre affidata a grossi motori fuoribordo (80 hp o più, su barche sui 6 metri). Sulla costa pacifica dell’america latina i pescatori arrivano in velocità sulle onde e “atterrano” sulla spiaggia, qui mi sembra che vengano per lo più mantenute in acqua, alle foci dei diversi corsi d’acqua. Il fondo piatto gli consente di adagiarsi senza problemi sul fondo marino quando la marea è bassa.
Le barche a vela sono poche. Qualcuna però è interessante. In particolare ce n’è una con lo scafo a canoa (doppia prua) e con tre alberi (con rande su tutti e tre gli alberi). La gente a bordo mi dice che è un vecchio progetto di S. Herrenschoff (scritto bene o male? non ho modo di controllarlo). Vengono dalla Nuova Zelanda, per passare l’inverno alle Fiji e poi tornare a Sud durante l’estate australe.
Dalla Nuova Zelanda stanno per arrivare anche altre barche, impegnate in una regata tra Auckland e Suva. Sono quelle stesse barche che ho visto alle banchine di Auckland: alcune modernissime, altre un po’ più vecchie. La prima barca (105 piedi) è arrivata a Suva dopo tre giorni di navigazione a medie di 20 e più nodi, le altre nei giorni seguenti, con equipaggi sempre più stanchi e bagnati, dopo mille miglia di oceano sotto i temporali. Io le ho trovate, al ritorno dal lavoro, ormeggiate di fronte alla mia stanza, dopo aver lasciato gli hotel di lusso di Suva ed essermi stabilito in un’albergo ragionevolmente buono, ma in una posizione bellissima (lungo le sponde di una baia piena di isolette e di barche) a Lami (Tradewinds hotel, se qualcuno si trovasse ad andare alle Fiji).
La mia domenica al Royal Suva Yacht Club si conclude con una buona cena indiana, poi inizia una settimana di lavoro, trascorsa in parte negli uffici del Ministero dell’Agricoltura e in parte viaggiando al nord, sull’altra grande isola delle Fiji, Vanua Levu.
Un piccolo aereo (12 posti) mi porta a Labasa e poi dopo due ore su una jeep arrivo in una guest house in mezzo ai pini in una “agricultural station” costruita con il sostegno della FAO trent’anni prima, di legno e arredata in legno. Mi aspetta una lunga serata a parlare con i contadini indiani di quell’area, bevendo litri di kava e poi concludendo con una cena vegetariana a mezzanotte. Parliamo di agricoltura, ma anche e soprattutto delle loro preoccupazioni. La principale è la situazione di conflitto tra “nativi” e indiani sulla proprietà della terra. Gli indiani infatti sono arrivati alle Fiji tra il secolo scorso e questo come lavoratori sotto contratto e poi hanno iniziato a comprare o ad affittare terre, in genere coltivandole con successo. Circa vent’anni fa però i “nativi” (la popolazione melanesiana) hanno iniziato a pretendere di far valere i propri diritti sulla terra, chiedendo su tutte le terre in regime di “lease” affitti molto alti e minacciando lo sfratto degli agricoltori.
Il conflitto ebbe una prima esplosione nel 1987 quanto il governo eletto, a maggioranza indiana, fu rovesciato da un golpe militare, in nome dei diritti dei “nativi” e con il sostegno delle chiese evangeliche e dei mormoni (il golpe era infatti guidato da Steve Rabuka, un militare mormone). Nonostante il fatto che le pressioni internazionali – tra cui anche la sospensione dal Commonwealth – avessero portato a una apparente ricomposizione dei conflitti, un nuovo tentativo di golpe è stato condotto nel 2000 e tuttora le isole sono caratterizzate da una situazione di tensione politica molto forte. Indiani e melanesiani continuano a trovarsi in una condizione di conflitto (che ormai non è più soltanto sul possesso della terra, ma anche sul riconoscimento dell’identità culturale e sociale), che a volte confina con quella di segregazione e di esclusione dalla vita politica e sociale.
Anche agli stranieri, la situazione è abbastanza visibile: è difficile vedere indiani e melanesiani insieme, tutti i ministri sono melanesiani, nei giornali sono di ogni giorno le notizie che mostrano una situazione non normale: per esempio, nei giorni in cui ero a Suva, il parlamento – durante la discussione di una legge sulla riconciliazione nazionale che dovrebbe chiudere il conflitto – è stato occupato dal corpo di stato maggiore dell’esercito, in alta uniforme, il cui portavoce ha dichiarato che quella legge non doveva essere approvata.
Anche alle Fiji, come alle Cook Islands, la presenza delle chiese è evidente e il peso sulla vita sociale enorme. Questo è ancora più visibile se si visita il Fiji Museum, oltre ad alcuni esemplari delle varie canoe melanesiane (Drua) una sala è infatti dedicata alle vecchie abitudini legate al cannibalismo (sono esposti anche dei bellissimi forchettoni per mangiare la carne dei nemici uccisi e si racconta la storia di un capo della fine del secolo scorso, famoso per aver mangiato oltre 800 persone) e al modo in cui esso è scomparso grazie all’azione dei missionari. Un’azione tanto forte che alcuni dei “racconti” dei missionari sono entrati a far parte della tradizione locale.
E’ il caso, per esempio, di una leggenda secondo la quale i figiani sarebbero arrivati alle loro isole non attraverso i diversi percorsi di migrazione che hanno portato al popolamento della Polinesia (dall’America latina o dall’Asia, secondo le tesi), ma direttamente dall’Africa. Essi, infatti, guidati da un capo, avrebbero lasciato l’Egitto e poi scendendo lungo il Tanganika sarebbero arrivati alla costa, per poi imbarcarsi e arrivare alle isole. Questa storia, diffusa dai missionari, fu dapprima pubblicata su un giornale locale e poi è divenuta per un lungo periodo la “tesi” ufficiale sull’origine della popolazione delle isole.
Il sabato, rinunciando ad andare a Nadi in aeroplano, ho avuto tempo di fare un’immersione. Tornando verso il Nord di Viti Levu, in automobile, infatti, mi sono fermato a Pacific Harbour un’area – intorno a una serie di canali – che viene considerata come la “spiaggia” di Suva ed è piena di ville e di resort, soprattutto di australiani. Lungo il canale c’è anche un piccolo diving center, con una barca di 40 piedi e tre o quattro persone: un vecchio skipper, un dive master dalle spalle tatuate e con la faccia un po’ più chiara di quella melanesiana – forse con traccie maori, e una marinaia venuta da Vanua Levu.
Dopo essere usciti dal canale – dove fanno bella mostra alcune barche a vela arenate da tempo, tra cui un grande trimarano armato a ketch e penso costruito in alluminio – dopo circa 30 minuti di navigazione, siamo arrivati presso una piccola isola (se qualcuno ricorda l’isola Escondida nella Ballata del Mare Salato, l’isola aveva esattamente la stessa forma) all’ingresso della Bequa Lagoon. Lì ci siamo immersi: a circa 30 metri di profondità un relitto di una nave giapponese, affondato da una decina di anni, già coperto di coralli ma ancora in perfetto stato, poi da lì sulla barriera corallina, risalendo verso la superficie. Un’immersione in mezzo a coralli di ogni tipo (a cervello, a fungo, a pettine o a cespuglio, .) e in mezzo a pesci di barriera di tipi altrettanto numerosi (diverse specie di pesce farfalla e di pesce angelo, qualche pesce trombetta, dei pesci palla e dei pesciolini di ogni tipo, delle cernie e qualche grosso carangide), invece quasi non ho visto molluschi, se non qualche nudibranco.
Dopo quasi 45 minuti sottacqua, un pasto leggero al riparo dell’isola e poi di nuovo a terra. Poi ancora tre ore di autobus fino all’aeroporto e una lunga attesa prima del check in: non so quale sia la ragione, ma gli aeroplani tra le isole della Polinesia partono sempre in piena notte. Questo, per Samoa, era previsto all’1,40 della domenica e sarebbe arrivato dopo circa 90 minuti, alle 4,30 del sabato precedente.
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