di Fabio Glorioso –
Inizialmente dovevamo andare a Bali, l’isola degli Dei; questioni di lavoro, però, ci hanno costretto a posticipare le ferie.
Ci eravamo già informati sull’Indonesia; le guide erano state acquistate, Internet setacciato in lungo ed in largo alla ricerca d’informazioni, avevo pure pensato ad un itinerario di massima. Sfogliando la guida, però, avevo letto che ottobre, il mese in cui dovevamo partire, non era un buon periodo per visitare l’arcipelago; inizia, infatti, la stagione delle piogge e di “bagnarci” non ne avevamo proprio intenzione. Allora che si fa? Tocca cambiare destinazione, ma quale? Beh, in Asia sicuramente, vediamo un po’……Cina!!! <<Cina?>> mi aveva risposto Paola……<<sei proprio sicuro?>>. Si, mi sembra una buona scelta, Pechino, Xian……posti da vedere, avevo pensato, almeno una volta nella vita. Ricevuto, non senza qualche titubanza, il benestare da parte di Paola, avevo intrapreso una “lunga marcia” alla scoperta di questo lontano Paese.
Nel mio precedente viaggio in Australia avevo conosciuto due simpatiche ragazze coreane, Bo Young e Ji Young, le quali mi avevano invitato a visitare il loro Paese. Abitano ad Inchoen, ad un’ora da Seoul. Avevo così pensato di passare per la Corea, sbarcare a Pechino ed andare a Xian; purtroppo il budget di cui disponevamo e il tempo a nostra disposizione non lo permettevano.
Abbiamo allora ridimensionato il tutto, saremmo andati solo a Pechino ma almeno l’avremmo visitata al meglio.
A settembre l’imprevisto: due aerei di linea dirottati si schiantano sul World Trade Center, gli USA ed il mondo intero sono sconvolti.
Io sono convinto di partire in ogni caso, Paola non sa se farlo o meno, non tanto per lei quanto per i suoi genitori. Chiede loro consiglio e suo padre, giustamente, le fa notare che se dovesse succedere qualcosa di ancora più grave la Cina diventerebbe il posto più sicuro.
Siamo entrambi convinti che in caso di conflitti o di attentati, la Cina, dato il suo essere sempre isolata dal resto del mondo, resterebbe sicuramente neutrale e, pertanto, immune da ogni pericolo. Paola si convince…..si va!
Il giorno prima di partire mi telefonano. È la ragazza di Blockbuster, il film che ho ordinato due mesi fa è finalmente arrivato; si tratta de “l’Ultimo Imperatore” di Bertolucci………allora si parte davvero, penso tra me e me. Corro al negozio, ritiro la videocassetta, me la guarderò la sera.
Il film mi è sempre piaciuto, guardarlo è un partire prima di partire. Il piccolo Pu Yi corre attraverso la Città Proibita, domani lo farò anch’io!!
18 ottobre 2001
Decolliamo dal Marco Polo di Venezia – altra coincidenza – in mattinata, alla volta di Francoforte. In attesa del volo per Pechino giriamo per l’aeroporto e tentiamo, senza fortuna, di riposare distesi su delle scomode sedie di una spoglia sala d’aspetto. Ripartiamo nel tardo pomeriggio.
Siamo seduti dietro ad una giovane coppia di cinesi che sta ritornando a casa con un vivace bebè di neanche un anno. Il piccolo è raffreddato ma non si lamenta e così il viaggio trascorre senza troppi pianti, anche grazie a Paola che ogni tanto gli asciuga il naso moccioloso.
Sull’aereo ci sono degli arabi, alcuni si conoscono. Il fatto che non siano seduti assieme mi pare strano, ripenso ai vari speciali sugli attentati di New York. Improvvisamente uno di questi, seduto nelle fila di sinistra, abbandona il suo posto e raggiunge la parte destra dell’aereo, apre lo scomparto dei bagagli a mano, prende una borsa nera e la consegna ad un altro arabo venuto dalla prima classe. Entrambi spariscono verso la cabina di pilotaggio. A questa scena assistiamo io, uno scozzese ed una tedesca, tutti rimaniamo a bocca aperta.
Dopo mezz’ora i due non sono ancora tornati, ne parlo allora con lo scozzese. Anche lui, visti i recenti attentati negli USA ed il fatto che i due non si vedono ancora, è preoccupato. Riferiamo quanto visto ad uno stewart che, al nostro racconto, sbianca in volto e smette immediatamente di fare quello che stava facendo. Tutto agitato ci domanda se siamo in grado di riconoscere le due persone “sospette”, diciamo di sì ed allora m’invita a seguirlo; poi cambia idea ed informa la capo hostess raccontandole tutto. Lei, collegato il fatto a quello che sa, ci tranquillizza con fare complice: quelle persone le conosce, sono dei libici che vanno a Pechino per lavoro una volta al mese ed in quel preciso momento stanno chiacchierando in prima classe. Attentato scampato!
19 ottobre 2001
Atterriamo all’aeroporto Beijing Capital alle 9 di mattina; il sole è coperto da una fastidiosa nebbiolina, e lo sarà per tutta la vacanza.
Siamo in fila, al controllo passaporti. La burocrazia cinese è implacabile, la fila è lunga e scorre lenta ed ordinata verso il bancone al quale siede un imperturbabile poliziotto che con fare calmo ed attento controlla i passaporti. È il nostro turno, passo indenne ed il doganiere mi pare pure simpatico; tocca a Paola, vedo il suo viso cambiare espressione, non capisce. La lascia passare, mi raggiunge e mi spiega che le ha chiesto se era cinese. A guardarla bene ha dei leggeri lineamenti orientali, ma scambiarla per una di loro……boh!?
Siamo accompagnati all’Hotel China Colour in Guang An Men Nan Dajie – sulla seconda circonvallazione – da una guida del CITS (China International Tourist Service), la quale ci chiede se siamo intenzionati a fare qualche escursione in particolare. Le diciamo che c’interessano la Grande Muraglia di Badaling e le Tombe Ming, ma sentito il prezzo – 1.100Y, circa 300.000 lire – ci pare una fregatura e così, per prendere tempo, le promettiamo che le faremo sapere.
L’albergo non è di quelli frequentati dai turisti stranieri, infatti, Paola ed io siamo gli unici occidentali; in ogni caso è decoroso e costa poco rispetto ad altri. L’hotel ospita esclusivamente cinesi, per lo più a Pechino per lavoro, e sebbene il personale parli pochissimo l’inglese riusciamo ugualmente a farci capire con qualche parola cinese, qualcuna d’inglese ed anche a gesti. Mitiche le nostre “conversazioni” per chiedere lo zucchero per il tè.
Dopo una breve pennichella prendiamo un taxi. I tassisti, al contrario di quello che dicono le guide – Lonely Planet E.D.T. in testa – azionano sempre il tassametro e sono pure economici: per andare in Piazza Tian’anmen paghiamo sempre sui 20Y, circa 5.400 lire.
Scivoliamo veloci lungo le strade invase da migliaia di biciclette, in pochi minuti siamo al Tempio del Cielo, una delle attrazioni principali di Pechino. Fu costruito nel 1420 per ordine dell’imperatore Yong Le – il vero architetto della città – ed è il luogo ove i sovrani delle dinastie Ming e Qing si recavano due volte all’anno – al solstizio d’estate ed a quello d’inverno – per ringraziare il Cielo.
Entriamo dalla porta settentrionale, di fronte a noi il Palazzo della Preghiera per un Buon Raccolto, in mezzo la Sala della Preghiera per un Buon Raccolto ricoperta da 50.000 tegole azzurre; al suo interno, su un enorme piatto di marmo bianco, erano poste le offerte per il Cielo.
Attraversiamo il Ponte della Scala Rossa fino alla Volta Celeste Imperiale, circondata dal Muro dell’Eco. Verifichiamo se ciò che abbiamo letto sulla guida è vero: sporgendosi verso il muro circolare ad una distanza di 30 metri l’uno dall’altra proviamo a parlare e, in un sottofondo di voci cinesi, riusciamo a sentirci. Le nostre parole sembrano “fuoriuscire” dalle mattonelle.
Proseguiamo e notiamo un gruppo di cinesi che si fanno fotografare davanti ad un albero: è il Ginepro dei Nove Draghi, così chiamato perché possiede un fusto bitorzoluto che assomiglia a nove draghi aggrovigliati tra loro.
In fondo l’Altare Rotondo, disposto su tre piani, sul quale venivano celebrati i riti sacrificali. Tutti i templi hanno la base quadra e le pareti circolari, tale scelta deriva dall’antica credenza popolare secondo la quale il cielo è rotondo e la terra quadrata. Chiudo gli occhi ed immagino i suoni arcaici dei gong e dei tamburi accompagnare la lenta processione imperiale diretta al tempio per invocare la protezione del Cielo ed espiare i peccati del popolo. Li riapro, è tutto svanito, di quella magnifica e silenziosa sacralità non rimane nulla, nell’aria, adesso, echeggia il fastidioso chiacchierio di turisti vagolanti.
Usciamo dall’immenso parco, non prima di aver ascoltato alcuni vecchietti esibirsi in canti tradizionali ed aver visto un anziano signore camminare all’indietro…..
Contrattiamo alla morte un libretto rosso; è vecchio, sporco ma l’idea di averne uno “vero” mi entusiasma. Non è di quelli scritti in inglese, per turisti, è originale e la sbiadita foto di Mao in terza pagina lo prova. Affare fatto!!
Entriamo all’Hongqiao Market, lì vicino, conosciuto anche come Pearl Market. Al piano superiore si possono trovare numerosi negozietti che vendono perle – originali? – mentre a quelli inferiori si trova di tutto, in particolare borse anche se le migliori sono allo Xiushui Market, in una trasversale di Janguomen Wai Dajie. È qui che assaggiamo il cosiddetto “uovo dei 100 giorni”: un uovo che viene messo sottoterra per cento giorni e si “cucina” con il calore della terra, assorbendo anche parte delle sostanze in essa contenute.
In serata facciamo il primo incontro con Piazza Tian’anmen: la porta Qianmen, il Mausoleo di Mao, l’obelisco Monumento agli Eroi del Popolo, il Museo della Storia e della Rivoluzione Cinese.
Qui nel 1949 Mao, in piedi sulla terrazza della Porta della Pace Celeste, ha proclamato la nascita della Repubblica Popolare Cinese annunciando al mondo che la Cina s’era “sollevata”, qui nel 1976 un milione di persone l’ha salutato per l’ultima volta, qui a migliaia ritornano ogni giorno per rendergli omaggio, qui nel 1989 l’esercito ha decimato i dimostranti che manifestavano contro la corruzione ed a favore delle democrazia.
La piazza, il vero centro di tutto il Paese, è enorme, illuminata, tutt’intorno la gente è a passeggio mentre sulla Chang’an le biciclette strisciano senza fine. Camminiamo fin sotto l’enorme ritratto del “Grande Timoniere”, l’unico rimasto in città; in tutti gli edifici pubblici il suo volto è scomparso ormai da molti anni. La luce che lo illumina ne sfuma i contorni; provo una strana sensazione, mi sembra di vivere in un sogno. Vorrei toccarlo per rendermi conto che ciò che vedo è reale e non il frutto della mia immaginazione.
All’estremo sud della piazza si trova un chiassoso mercatino, frequentato quasi esclusivamente dalla gente del posto. Sono attratto da una bancarella che vende bastoncini cinesi; ce ne sono di tutti i tipi, colorati e non, di legno ed in altri materiali. Ho in mano una confezione, mi dicono che all’interno ce ne sono venti e dopo una lunga contrattazione riesco a spuntare un prezzo favorevole. Tornato in hotel li conto: sono diciannove e non venti, mi hanno fregato! Dico a Paola che non la passeranno liscia, non appena possibile ritornerò al mercatino e mi farò dare il ventesimo bastoncino.
20 ottobre 2001
Facciamo colazione. Sul tavolo non c’è la tovaglia, al suo posto hanno messo un telo di plastica svolazzante. Non ci formalizziamo, altri avrebbero sicuramente protestato, noi no, il cibo è buono e questo ci basta.
Visitiamo il Tempio Lama, l’antica residenza in cui dimorava l’imperatore Yongh Zeng quando era ancora un principe. Il tempio, divenuto tale nel 1744, ospita alcuni monaci buddisti – importati dalla Mongolia ad uso e consumo del turista – alle cui preghiere si può assistere; i fedeli bruciano dei bastoncini profumati, comperati nei numerosi negozietti vicini, e li gettano in alcuni incensieri. Li imitiamo, anche se non siamo buddisti, sembra porti fortuna; di sicuro il solo avvicinarsi a questi grossi incensieri ci “affumica” come uno speck.
Rimaniamo a bocca aperta di fronte all’immensa statua lignea del Buddha contenuta nel Padiglione Wanfu; è alta 18 metri ed è scolpita in un unico tronco di sandalo. Raggiungiamo la parte posteriore del complesso per entrare nel Tempio della Pagoda Bianca, ne usciamo e giriamo le classiche campane tibetane che sono usate dai fedeli per pregare. Anche i non buddisti possono toccarle, non è un insulto come qualcuno potrebbe immaginare.
Lasciamo quest’avamposto tibetano e ce ne andiamo al Tempio di Confucio, ora divenuto museo, secondo per importanza solo a quello di Qufu. Al suo interno si trovano alcuni piccoli padiglioni, alla base delle colonne che li sorreggono sono poste delle statue di tartarughe, simboleggianti la longevità, la forza e la perseveranza dei cinesi. In uno più grande sono conservate delle tavole di marmo con incisi i 13 classici confuciani ed alcuni tamburi di pietra.
Guadagniamo l’uscita e proseguiamo verso le Torri del Tamburo e della Campana; la prima è in restauro, la seconda è visitabile. Evitato il locale per turisti posto alla base della torre, saliamo per una stretta e ripida scala fino all’enorme campana. La leggenda vuole che la figlia dell’artigiano che la stava realizzando si sia gettata – mi sembra per una delusione d’amore – nel ferro fuso, che il padre sia riuscito ad afferrarne solo una scarpa e che da allora la campana produca un suono simile alla parola scarpa in cinese (“xié”).
Vagoliamo per i caratteristici e stretti hu tong fino a scontrarci, dopo aver perso la strada un paio di volte, con il lago Hou Hai ai bordi del quale siedono decine di uomini che, con delle canne lunghissime, pescano distrattamente. Alcuni, forse addormentati, lasciano che le punte delle loro canne finiscano in acqua ……. Che strano modo di pescare, penso tra me e me.
Come per miracolo, senza conoscere la strada, raggiungiamo la nostra meta successiva, una delle antiche residenze aristocratiche meglio conservate in tutta Pechino, il Palazzo del Principe Gong, padre dell’ultimo imperatore Pu Yi.
Il complesso è bellissimo ed anche se non è presente tra le mete dei tour organizzati – abbiamo visto solo due inglesi ed una marea di cinesi – vale veramente la pena visitarlo. Famosissimo, invece, lo è tra i cinesi; pare, infatti, che abbia ispirato Cao Xueqin nella stesura del suo romanzo “il Sogno della Camera Rossa”. All’interno delle mura di recinzione si trovano alcuni padiglioni lignei ed un lago artificiale in mezzo ad uno splendido giardino. Pagando la miseria di 20Y si può noleggiare un antico costume cinese e farsi scattare una foto con la polaroid; è possibile anche, contrattando sul prezzo, usare la propria macchina fotografica.
All’imbrunire siamo al grande magazzino Parkson in Fuxingmen Nei Dajie e per cena al Qianmen Quanjude Roast Restaurant, a sud di Tian’anmen, che pare essere uno dei migliori a Pechino per assaggiare la famosa anatra laccata. Questo piatto, tipico della cucina pechinese, è di lunga e laboriosa preparazione. L’anatra, a cui sono tolte le interiora, viene “gonfiata” e cucinata a lungo spennellandola continuamente con miele ed aceto. È poi servita con pane non lievitato, delle verdure oltre all’immancabile salsa di soia. Il piatto è molto grasso ma gustoso, anche se dopo un po’ stufa.
Il locale è bello ed è il più piccolo della catena, quello più famoso e frequentato si trova a pochi passi. Paola pensa che il bagno sia all’altezza del resto; forse è la volta buona…..una toilette decente! Si sbaglia, è proprio un cesso, il puzzo è peggio di quello che si sente nelle “latrine di quartiere”, sparse un po’ dovunque in città.
Queste furono messe in piedi negli anni sessanta in seguito alla distruzione, per ordine di Mao, di quelli delle bellissime siheyuan – le tipiche case costituite da quattro edifici posti intorno ad un tranquillo cortile. Per far posto alle migliaia di persone, semplici contadini ed operai che occuparono le siheyuan e costrinsero i proprietari a vivere in un’unica stanza – a volte anche condivisa con altri – i bagni di queste incantevoli abitazioni signorili vennero sfasciati, trasformati in luoghi ove dormire e sostituiti dalle cosiddette “latrine di quartiere”, grigie e puzzolenti baracche.
Sarà per un’altra volta, per adesso te la tieni….mia piccola incontinente!!!
21 ottobre 2001
La sera prima, dopo aver nuovamente rifiutato le esorbitanti proposte per turisti della guida del CITS – con bigliettini sotto la porta e telefonate continue – ed evitando così di “pagar dazio” all’immancabile negozio dell’amicizia ed al mercatino della giada, una mia geniale idea ci portava a contrattare un’escursione in taxi con un simpatico tassista che non spiccicava una parola d’inglese. Grazie al linguaggio dei gesti, a qualche parola di cinese e soprattutto all’intervento di una gentile passante riuscivamo a metterci d’accordo per la “roboante” cifra di 400Y contro i 1.100Y proposti dal CITS.
È così che alle 8 usciamo dall’albergo e troviamo ad attenderci il tassista della sera prima che ci saluta con un immenso sorriso, da noi subito ricambiato. Imbocchiamo la seconda circonvallazione, poi l’autostrada diretta a nord ed in poco meno di un’ora siamo alla Grande Muraglia di Badaling, 70 km a nord est di Pechino.
Facciamo il percorso inverso, rispetto ai tour, per trovare meno gente possibile: andiamo prima a Badaling e poi alle Tombe Ming.
Arrivati al “Muro dei 10.000 Li” prendiamo le scale di sinistra e saliamo per la parte più ripida e faticosa, ma allo stesso tempo anche meno affollata della muraglia.
Ammiriamo il panorama che ci si presenta davanti: è uno spettacolo che toglie il fiato. Una leggera nebbiolina ci rovina la visuale ma ci riporta anche indietro nel tempo: immagino le attente vedette di guardia alle torrette, i tremuli fuochi accesi durante la notte, le molte bandiere accarezzate dal vento, oggi come allora.
Le nostre scarpe s’arrampicano veloci su per la collina. La pendenza aumenta, il pavimento liscio lascia il posto prima ai gradini, poi ai gradoni, il respiro si fa affannoso ma non sentiamo la fatica, è troppo bello quassù!! La vista dall’alto è stupefacente, il paesaggio è simile a quello che troviamo vicino a casa nostra: il rosso degli arbusti lo fa assomigliare al Carso triestino.
L’idea di andarcene ci rende tristi ma sono ormai le dodici e orde di turisti avanzano, quasi fossero i mongoli invasori. Decidiamo allora per la “ritirata”, ma prima andiamo a vedere il Museo della Grande Muraglia compreso nel prezzo.
A proposito, il biglietto per la muraglia consiste in una bella e moderna tessera magnetica che deve essere inserita in quegli aggeggi che si trovano nelle metropolitane di tutto il mondo. La cosa strana è che non devi farlo da solo: bisogna consegnare la tessera ad un addetto che la inserisce nella fessura e poi, dopo essere passato, un altro te la restituisce. Gli aggeggi sono sei e gli addetti dodici. Certo che di manodopera ne hanno davvero tanta!!!
All’interno del museo, ai nostri occhi poco interessante, ci fa ridere vedere un bambino di nemmeno un anno che indossa pantaloni con il culetto di fuori. Di questi bambini, in seguito, ne abbiamo visti altri e quei pantaloni che indossano anche d’inverno, quando a Pechino si va abbondantemente sotto lo zero, servono a facilitarli nel caso debbano fare i bisognini.
Superate quasi indenni le due file di bancarelle poste lungo la strada che ci riporta al parcheggio, ci facciamo portare alle Tombe Ming ed in particolare a quella più importante, Dingling. Questa, come alcuni ci avevano anticipato, è abbastanza anonima; come pure il Museo lì accanto.
Terminata velocemente la visita alla tomba dell’imperatore Zhu Yijun e delle sue due spose, prima di ritornare in città, ci facciamo portare dal simpatico quanto silenzioso tassista alla Via Sacra situata nelle vicinanze. Saranno le poche persone presenti o le statue di marmo ed i verdi salici piangenti che l’affiancano, ma lo spettacolo che si para avanti i nostri occhi è per noi indimenticabile. Camminiamo lungo la strada silenziosa che un tempo percorreva l’imperatore per andare a rendere omaggio ai suoi antenati sepolti nelle tombe vicine.
Ritorniamo sino alle bancarelle poste di fronte all’entrata, mi faccio rifilare un dollaro falso dopo aver comprato un tipico cappello cinese e raggiungiamo il nostro tassista che dorme in macchina.
Siamo in città e ci facciamo scaricare davanti al Parco della Cultura del Popolo che in questi giorni ospita un allegro e vociante mercatino frequentato quasi esclusivamente da locali.
Strisciamo tra la folla chiassosa alla ricerca di qualcosa da portare a casa. Compriamo dei CD ad un prezzo ridicolo ed alcuni pennelli; non so dipingere, sono un regalo per mia zia artista. Un’anziana signora porta a passeggio una vecchia carrozzina di legno, una di quelle un tempo usate per portare a spasso i bambini; lei ora la utilizza per la spesa.
Di queste vecchie carrozzine ne abbiamo viste altre in giro, in tutti i casi appartenevano ad anziane signore in abito blu o verde, vestite alla moda dei tempi di Mao. I giovani e meno giovani, ormai proiettati verso il futuro, hanno abbandonato le loro divise maoiste e vestono all’occidentale. Le camice blu sono scomparse, per le strade si notano solo giacche nere che pedalano sull’immancabile bicicletta. Quelle, al contrario, sono rimaste ed ai bordi delle strade trovano posto larghe e lunghissime piste ciclabili. A tutte le ore del giorno, in un traffico senza regole, migliaia, milioni di ciclisti su bici pesanti pedalano silenziosi schivando impassibili le auto veloci.
All’interno del parco, accanto al Palazzo della Cultura del Popolo, sono esposte delle macabre foto di persone assassinate nei modi più crudeli. Un ragazzo a cui chiediamo spiegazioni ci risponde che devono servire come monito al popolo; viene, infatti, spiegata la pena inflitta all’assassino, una volta catturato.
Scivoliamo lungo la Chang’an seguendo le migliaia di biciclette che ogni giorno la percorrono, superiamo il Peking Hotel ed imbocchiamo Wanfujing Dajie, la via “occidentale”. Ai primi negozi degli anni ottanta se ne sono aggiunti altri, sempre più grandi, alcuni all’interno di bellissimi centri commerciali.
A metà via, sulla sinistra, andando verso nord, troviamo dei piccoli vicoli – i caratteristici hu tong – sui quali si affacciano deliziosi chioschetti che servono dell’ottimo cibo. Si trova di tutto, cavallette e scorpioni compresi.
Assaggio dei bacherozzoli alla griglia, non sono poi così male, non sono saporiti ma neanche immangiabili. Vorrei provare anche le cavallette e gli scorpioni ma Paola, schifata, me lo proibisce. Peccato, non credo che mi capiterà così facilmente l’occasione di assaggiarli nuovamente.
Su una bancarella ci sono dei piattini che contengono delle strane palline bianche cosparse con dello zucchero, vicino sono sistemate delle noci di cocco. Pensiamo che quelle cose bianche siano dei deliziosi pezzi di cocco, probabilmente si tratta di un dolce e decidiamo di assaggiarlo. Non è cocco!! Sono delle schifosissime uova di pesce, non riusciamo proprio a buttarle giù e così le regaliamo ad un mendicante di passaggio, uno dei pochi che si vedono a Pechino.
Rispondiamo al richiamo di alcuni cinesi della minoranza uighur che cucinano spiedini di montone dall’aspetto invitante. Un profumo delizioso mi convince ad assaggiarne uno. Nell’attesa mi chiedono se sono anch’io musulmano; in realtà i lineamenti mediorientali del mio viso potrebbero indurre in errore più d’uno. Sorridendo rispondo loro che si stanno sbagliando ma sorridendo a loro volta mi dicono che sono sicuri che io sia musulmano!
Ceniamo in quello che diventerà il nostro ristorante preferito – ci andremo per ben quattro volte – molto simile ad una mensa ma nel quale si può mangiare dell’ottimo cibo ed a prezzi assai ragionevoli. I cuochi e le cameriere sono tutti giovanissimi, queste ultime sono vestite in verde eccetto due che portano un abito tradizionale di colore rosso.
Ordiniamo e ci guardiamo attorno, siamo gli unici occidentali – eccetto una coppia di francesi – e per questo tutti ci osservano con curiosità. Incominciano ad arrivare i piatti, tra questi uno colmo di riso in bianco che serve ad accompagnare le pietanze. Faccio come sono abituato a casa mia, rovescio l’interno contenuto del piatto in quello con il pollo e le verdure; le cameriere mi guardano incredule. Ho capito! Questo riso è per loro ciò che per noi è il pane, lo si mangia separatamente senza mischiarlo al resto. Ad ogni modo a me piace così; le cameriere mi sorridono e mi convinco allora di non aver fatto niente di male.
Tra una portata e l’altra, ostento sapienza con Paola: <<vedi>>, indicando il coperchio al centro del tavolo, <<questo serve per appoggiare i piatti e>> facendolo girare <<per facilitare i commensali quando prendono le pietanze in essi contenuti>>. Una chiassosa risata riempie il locale, cameriere e clienti ci guardano divertiti. Mi rendo conto di aver detto, o meglio fatto una stupidaggine.
Una ragazza seduta ad un tavolo vicino – che abbiamo scoperto nei giorni seguenti essere la proprietaria – mi spiega che quella specie di coperchio viene tolto per ospitare la pentola, con sotto il fuoco, che contiene la famosa fonduta mongola. Attimo d’imbarazzo, la temperatura corporea che aumenta, va bene, pazienza, ho fatto una figura barbina ma siamo diventati loro simpatici ed infiniti sorrisi ci accoglieranno le volte seguenti.
Dopo cena e dopo una passeggiata lungo le stradine affollate ritorniamo in Wanfujing Dajie. Paola deve andare alla toilette e, poiché quelle pubbliche sono infrequentabili, entra in uno dei grandi magazzini che danno sulla via. Io rimango fuori e mi siedo su una panchina; tempo due minuti e sono abbordato da una incantevole ragazza: <<What’s your name, where is your hotel?>>. Le rispondo che mi chiamo Fabio, sono italiano e il mio albergo si trova sulla seconda circonvallazione. Mi chiede allora se ne conosco uno più vicino. Ops!!…..È una di quelle che fanno il mestiere più antico del mondo! Le dico che sto aspettando la mia ragazza ma non demorde, forse crede che non sia vero e mi rimane seduta accanto. Poco dopo Paola ritorna ed allora si convince, la saluto con un sorriso e ci allontaniamo.
Di queste ragazze, a Pechino, se ne incontrano parecchie. Sono tutte bellissime, slanciate, forse vengono da fuori, da posti che probabilmente non offrono loro niente di meglio. Accompagnano brutti signori di mezz’età, bassi e scialbi, tutti orientali. Il popolo cinese sogna l’occidente, i suoi lussi, i suoi pregi; purtroppo ne importa anche i difetti o ciò che vedo, forse, è solo un mostrare una realtà, prima nascosta, che è sempre esistita.
22 ottobre 2001
Il giorno tanto atteso è finalmente arrivato, andremo alla scoperta della Città Proibita, l’antica residenza delle dinastie Ming e Qing.
Ci alziamo presto, vogliamo essere tra i primi per poterci godere meglio il palazzo imperiale. Giunti alla Porta del Meriggio, la più grande con i suoi cinque padiglioni che la sormontano, troviamo ancora pochissimi visitatori, avremo così modo di ammirarla quasi deserta.
Il tempo è “splendido”, come sempre; una sottile nebbiolina scesa sui padiglioni dorati del Da Nei – il Grande Interno – crea un’atmosfera particolare. Nessuna parola può descrivere la maestosità e la bellezza della dimora del Figlio del Cielo.
Il palazzo fu costruito dall’imperatore Yong Le agli inizi del Quattrocento, più di un milione di persone parteciparono alla sua costruzione, per anni fu il centro di un vastissimo impero. Durante i secoli dovette subire numerosi incendi, gli edifici al suo interno vennero ripetutamente distrutti e poi ricostruiti; la maggior parte dei padiglioni che vediamo risalgono al XVIII secolo. Subì anche alcuni saccheggi, l’ultimo da parte del Kuomintang, che prima di trasferirsi a Taiwan, riempì casse di cimeli che ora fanno bella mostra al Museo Nazionale di Taipei.
Per situazioni analoghe si griderebbe allo scandalo, a posteriori, alla luce di quanto successo durante la Rivoluzione Culturale, questa ruberia non si può che definirla una benedizione. Durante quegli anni, le Guardie Rosse, i giovani soldati maoisti, distrussero tutto ciò che era vecchio; i monumenti, gli scritti, le opere d’arte vennero polverizzati. I monasteri ed i templi furono depredati; gli intellettuali, i medici, gli scrittori e gli artisti furono licenziati, derisi, incarcerati, uccisi. Tutto ciò che ricordava la Cina “feudale”, “sfruttatrice” e “capitalista” fu cancellato. <<Combattere il vecchio>>, <<lottare contro le superstizioni e le false credenze>> erano gli slogan urlati dal partito. <<Eliminate tutto ciò che ha a che fare con il passato>>, predicavano gli alti quadri, <<solo così facendo può nascere la “Nuova Cina”>>.
Fu un errore, terribile, che i cinesi riconobbero ma poi quasi dimenticarono. Un errore che Deng Xiaoping attribuì alla Banda dei Quattro – che come tale non è mai esistita – solo per poter limitare a poche persone la colpa di molte (il Partito Comunista Cinese e i suoi milioni di membri). La Città Proibita fu una delle poche testimonianze del passato che non fu toccata, merito di Zhou Enlai che si batté contro Peng Dehuai, eroe della Guerra di Corea, fautore della sua distruzione.
Nel palazzo, diviso in una corte esterna ed in una interna, viveva l’imperatore assieme alle imperatrici, alle concubine, alle dame di compagnia ed agli eunuchi, gli unici uomini ammessi. È qui che sono stati girati “L’Ultimo Imperatore” di Bertolucci ed il “Marco Polo” di Montaldo, ed è qui che ha vissuto gli anni della sua infanzia l’ultimo imperatore Pu Yi.
Ciò che stupisce è la sua elementare, grandiosa semplicità. I padiglioni, disposti lungo un’asse nord-sud – alcuni di questi adagiati su zoccoli di pietra che li sollevano dalla distesa dei cortili e ne spezzano la piana monotonia – sono lineari, grigi, privi di sfarzo. Questa sua semplicità, che la fa quasi assomigliare ad un accampamento militare, le permette di sovrastare in bellezza e maestosità tutte le altre antiche residenze .
Si entra attraverso la poderosa Porta del Meriggio sulla quale l’imperatore presenziava le cerimonie militari, proclamava il nuovo calendario e dalla quale venivano calati gli editti che venivano spediti in tutto il paese. Attraversiamo il Ruscello dalle Acque d’Oro, al di là troviamo la Porta della Suprema Armonia che rappresenta l’entrata della cosiddetta Corte Esterna nella quale l’imperatore si occupava delle questioni di stato. La superiamo ed entriamo nella parte più importante di tutto il complesso.
Maestosa, di fronte a noi, la Sala dell’Armonia Suprema, in essa – su un trono dorato protetto da nove draghi- veniva incoronato il nuovo imperatore.
Vi si accede attraverso tre scale di marmo, quella centrale era riservata esclusivamente all’imperatore. Intorno diciotto bruciaprofumi di bronzo che rappresentavano le diciotto province dell’impero e servivano a bruciare del profumato legno di sandalo; accanto, quattro enormi giare di marmo contenevano l’acqua per spegnere i numerosi incendi che sviluppavano all’interno del palazzo, molti dei quali appiccati dagli stessi eunuchi che si arricchivano in seguito alla ricostruzione degli edifici andati distrutti. Coloro che accedevano alla sala, sorretta da un sistema di incastri e senza l’aiuto di nessun chiodo, dovevano toccare il pavimento con la fronte nove volte; in essa si tenevano anche le cerimonie ufficiali, erano rese note le nuove leggi ed impartiti i comandi agli ufficiali in caso di guerra.
Dietro, la Sala dell’Armonia Protettrice nella quale si tenevano i banchetti e si svolgevano gli esami di stato per accedere alle cariche pubbliche. In mezzo, la piccola Sala dell’Armonia Intermedia, detta anche Sala dell’Armonia Perfetta, nella quale l’imperatore riceveva i suoi ministri più intimi, preparava i discorsi, pregava e si rilassava.
Quasi tutte le sale hanno più di una porta, quella centrale era riservata esclusivamente all’imperatore, le altre, in ordine, ai ministri, ai militari, e così via.
Ogni padiglione è sormontato da un tetto di mattonelle gialle – il colore imperiale – alle cui estremità notiamo delle strane statuine d’animali mitologici. Un’antica credenza riteneva che i tetti fossero più deboli ai lati, così, per proteggerli dai fulmini, furono aggiunte queste figure, tutte precedute da un uomo su una gallina!
Scendiamo gli scalini, posti accanto ad una lastra di marmo ornata da nove draghi lunga 16 metri e costituita da un unico blocco, ed entriamo nella Corte Interna nella quale dormivano l’imperatore e tutti gli abitanti della Città Proibita. Ora vi si trovano delle interessanti esposizioni di bronzi, oggetti in giada, cuoio, ed altro ancora.
Entriamo nella Sala dei Gioielli non prima di aver noleggiato delle pattine che ci serviranno per non rovinare ancor di più i pavimenti meravigliosamente laccati. Bellissimo e colorato il Muro dei Nove Draghi che serviva a proteggere l’imperatore dagli spiriti malvagi provenienti da nord. Stranissimo ma delizioso il Giardino Imperiale, al suo interno numerosi riposano i padiglioni. Siamo all’estremo nord del palazzo, passeggiamo all’interno della Città Proibita da cinque ore ma ci sembrano poche, non ce ne vogliamo più andare.
Dei muri rossi accompagnano i lunghi passaggi, immagino l’imperatore camminare nella luce tremula che un tempo li illuminava. Paola m’immortala in questo posto meraviglioso.
Tristi ma allo stesso tempo felici usciamo dalla Porta del Genio Militare posta di fronte al Parco Jingshan.
Subito veniamo “assaliti” da alcuni insistenti venditori ambulanti che tentano di venderci l’impossibile. Uno, in particolare, ci segue fino alla porta del parco offrendoci prima una statuina per 300Y e poi, vedendo che non siamo interessati, cinque diverse – e carine – tutte a 50Y. Riusciamo a liberarcene entrando nel Parco Jingshan, conosciuto anche come la “Collina del Carbone”.
Sulla destra, più di cinquanta persone sono sedute a dei minuscoli tavolini. Tutti hanno in mano una patata giallastra e così anche noi decidiamo di comprarne una. Proviamo in un chiosco, poi in un altro, ci dicono di andare sempre più in là. Capiamo che la bancarella delle patate si trova fuori dal parco e decidiamo quindi di acquistarla una volta usciti. Ci allontaniamo lentamente ma subito veniamo raggiunti da un anziano signore che mi afferra per un braccio, mi mette in mano una patata calda e fugge via più velocemente di quanto era arrivato. Aveva capito tutto e gentilissimo ce ne aveva data una delle sue. Sorpresi da tanta cortesia non abbiamo potuto fare altro che ringraziare lui e tutti i cinesi che ci guardavano sorridenti.
Le nostre scarpe ci portano veloci in cima alla collina, la solita fastidiosa foschia copre la Città Proibita che ai nostri occhi pare ancora più affascinante. Scendiamo verso il Parco Bei Hai, metà del quale è occupato dal cosiddetto Lago del Nord – Bei Hai.
Un tempo, gli imperatori trascorrevano qui i rari momenti di svago; oggi si possono noleggiare delle piccole barchine. In mezzo al lago galleggia l’Isolotto di Giada sulla cui sommità si erge l’enorme Dagoba Bianco, costruito in occasione di una visita di un antico Dalai Lama.
Conosciamo quattro ragazze italiane, sono a Pechino in vacanza. In Italia studiano il cinese e l’università le ha mandate a Shangai per un anno. Sono molto simpatiche, ci raccontano le loro esperienze e ci dicono anche che parlare cinese è difficile, colpa degli accenti. Ce ne sono quattro, uno “piatto”, uno “crescente”, uno “decrescente” ed uno “crescente e decrescente”. A seconda dell’accento una parola può avere quattro significati! Ci confermano che la Cina è un posto sicuro, anche per delle ragazze sole; la microcriminalità, in particolare nei confronti degli stranieri, è pressoché inesistente, anche per le pene severe che vengono inflitte a chi commette un reato. In Cina vige la pena di morte, a migliaia ogni anno vengono giustiziati, a volte senza neanche un regolare processo.
Entriamo nella Città Rotonda, una fortezza al cui interno si trovano alcuni piccoli padiglioni.
Passeggiamo sulle rive del lago fino ad arrivare ai Padiglioni dei Cinque Draghi, in uno di questi assistiamo a dei canti improvvisati da simpatici ed arzilli vecchietti. Terminata la loro esibizione c’invitano a cantare; io sono stonatissimo ma Paola ha una bella voce e così dopo innumerevoli insistenze da parte di tutti, me compreso, accenna un pezzo de “La Traviata” scatenando l’entusiasmo di tutti i presenti e di altri che nel frattempo si erano avvicinati. Terminata la breve ma apprezzata esibizione la piccina, tutta rossa in volto per l’emozione, ritorna all’ovile. È stata brava, quest’exploit se lo ricorderà per tutta la vita.
Ci allontaniamo passeggiando sul tranquillo lungolago; un ragazzino, in divisa militare di cinque taglie più grande, gioca con un sasso. Ci sentiamo “protetti”, lo hanno messo lì per difenderci da eventuali malintenzionati, mi sa invece che toccherebbe a noi aiutarlo.
Prendiamo un taxi per ritornare in albergo, lungo la strada notiamo che pur essendo sera tantissimi muratori sono ancora al lavoro. Lo fanno anche di notte, qui il lavoro non si ferma mai; si stanno preparando per le Olimpiadi del 2008 e nel frattempo approfittano per modernizzare la città. Sorgono, infatti, numerosi altri e alti grattacieli che affiancheranno quelli presenti e trasformeranno Pechino in una nuova Hong Kong. Purtroppo per far posto a questi immensi palazzi vengono distrutte le vecchie case siheyuan ed i caratteristici hu tong. Stanno, in sostanza, proseguendo ciò che anni addietro Mao aveva cercato di fare: distruggere il vecchio – patrimonio artistico – per costruire il nuovo.
23 ottobre 2001
<<Com’è il tempo oggi ?>> mi chiede Paola ancora assonnata. Mi avvicino alla finestra, scosto leggermente la pesante tenda blu, <<bello…..come sempre!>>. L’immancabile nebbia avvolge la città, oggi più degli altri giorni.
Al nostro arrivo in hotel ci hanno consegnato dei bigliettini da utilizzare ogni mattina per la colazione; sono scritti in cinese e non sono datati, non capendo cosa sta scritto li diamo sempre tutti alla ragazza al bar che poi ci restituisce quelli per i giorni successivi.
Oggi c’è una nuova cameriera, le diamo i biglietti e facciamo colazione. Ritorniamo al bancone per recuperare gli altri che ci serviranno nei prossimi giorni; non capisce l’inglese e mi fa dei gesti come se non li avesse o non glieli avessi dati. Insisto che come ogni mattina li ho consegnati e che devono essere da qualche parte sul tavolo. Mi sporgo e ne vedo alcuni con i nostri nomi, li prendo e le faccio vedere che questi li ho trovati ma ne mancano degli altri. Fa sempre gesti di non averne, non capisce un acca d’inglese; per fortuna viene in nostro aiuto un signore che ci fa da interprete. La ragazza dice che non ha i nostri biglietti, alla sua insistenza mi altero e faccio notare che lo diceva anche prima ma poi alcuni li ho trovati. Mi lamento con il signore del fatto che sono degli incompetenti, che nessuno nell’hotel parla inglese e stanno facendo un gran casino. Lui si scusa, io insisto e rincaro la dose. Prendo i biglietti dalle mani della ragazza, li sfoglio ad un ad uno e trovo quelli che mancavano. Mi rivolgo allora al signore, che credo essere uno dei responsabili, e lo accuso di prenderci in giro. Si scusa ancora ma lui è un cliente come noi! Credevo fosse uno dell’hotel, ed invece ci sta aiutando senza esserne obbligato. Adesso sono io che mi scuso, gli spiego che lo avevo scambiato per un dipendente, lo ringrazio ancora per averci aiutato, è stato molto gentile.
Andiamo a piedi al Giardino della Magnifica Vista; si tratta di un parco di nuova realizzazione, fatto ad immagine e somiglianza di quello descritto nella novella “il Sogno della Camera Rossa” di Cao Xueqin. Sarà interessante per i cinesi ma a noi non piace per niente.
Decidiamo quindi di visitare il Museo della Storia Cinese e quello della Rivoluzione Cinese posti entrambi sul lato orientale di Piazza Tian’anmen. Il secondo è in restauro e quindi chiuso, ed in gran parte anche il primo. Possiamo ammirare solo quattro o cinque sale nelle quali sono esposte delle magnifiche collezioni di tipici vasi cinesi bianchi ed azzurri. È un peccato non poter visitare anche il resto del museo, credo ne valga la pena.
Ci troviamo nelle vicinanze del mercatino dove, nei giorni scorsi, ho comperato i bastoncini cinesi; voglio a tutti i costi farmi dare anche il ventesimo! Cerchiamo la bancarella, la troviamo; le ragazze cercano subito di vendermene degli altri. Dico loro che alcuni giorni fa me ne hanno dato un pacco, che al suo interno c’erano diciannove bastoncini ma loro me ne hanno fatto pagare venti. Fanno finta di non capire, o non capiscono veramente. Voglio solo il bastoncino che non mi hanno dato ma credono che sia interessato al pacco che sto indicando. Insisto ma continuano a non capire. Paola non sa se ridere o piangere, la scena è assurda, mi sono fissato che devo avere il ventesimo bastoncino senza pagarlo. Imito la scena del giorno prima, prendo il pacco, ne tolgo uno; una di loro ha un’intuizione e si mette a ridere. Hanno capito cosa voglio e sorridendo – credo avendo compassione di me, pazzo – mi consegnano il tanto agognato bastoncino. A posteriori credo di non essere stato in me in quei momenti, altrimenti non si spiega tanta follia!
Passeggiamo lungo Dazhalan Jie – “jie” vuol dire “via” – e subito dopo in Liulichang Jie, l’antica via dei negozi d’antiquariato.
Negli anni della Rivoluzione Culturale fu messa a ferro e fuoco dalle Guardie Rosse, ora è stata ricostruita, i negozi sono stati riaperti. Ha però perso parte del suo fascino, la merce esposta è molto cara, solo alla portata dei ricchi turisti occidentali e giapponesi.
È ora di pranzo, ritorniamo quindi in Qianmen Dajie alla ricerca di un ristorantino. Entriamo in uno e chiediamo se hanno un menù in inglese, la ragazza non capisce e ne chiama un’altra. In un ottimo inglese le riformulo la domanda ma questa, quella che capisce l’inglese, non fa che ripeterci “pork noodles” e “chicken noodles”. La vedo dura, le ringraziamo ma preferiamo cercare un altro posto.
Pensavo che conoscere l’inglese ci avrebbe aiutato qui a Pechino. Pochi, invece, lo parlano. Anche con i giovani abbiamo avuto delle difficoltà a farci capire. Molti si schermivano, qualcuno nascondeva il proprio imbarazzo ridendo, alla tipica maniera orientale. Pochissimi provavano ad aiutarci ma il loro inglese risultava, a volte, a noi incomprensibile.
Pranziamo in uno spazioso locale dove servono principalmente ravioli, hanno anche il menù in inglese sicché ci risulta più facile ordinare ciò che vogliamo. Le giovani cameriere sono simpaticissime, pochissimi turisti entrano nel loro locale frequentato dai locali. Ci sorridono sempre e si fanno in quattro per aiutarci. I ravioli sono formidabili, di pollo, gamberi, montone; assaggiamo anche altri piatti, tutti buonissimi. In questo locale ci ritorneremo altre volte e sempre saremo accolti con infiniti sorrisi.
Nel pomeriggio ce ne andiamo in Janguomen Wai Dajie, nella zona diplomatica. Varchiamo la soglia del Negozio dell’Amicizia nel quale, un tempo, si recavano i residenti occidentali per acquistare prodotti europei o americani che altrove non si trovavano. Adesso, il posto è sempre frequentato da stranieri, per lo più americani e giapponesi o gente d’affari di passaggio, tutti alla ricerca di qualche stupido souvenir. Al suo interno sono esposte le stesse cose che si trovano nei mercatini sparsi per la città; tutto è ad un prezzo notevolmente superiore e non si può nemmeno contrattare. Sarebbe giusto cambiargli nome in “Negozio della Fregatura”, perché è solo questo che si trova là dentro.
Attraversiamo la strada per entrare allo Scitech Plaza, un modernissimo grande magazzino. Siamo alla ricerca di un centro di sviluppo foto, lo troviamo; i prezzi sono molto più bassi che in Italia e perciò decidiamo di sviluppare qui i nostri rullini.
Nel frattempo facciamo un giro, siamo curiosi di vedere che cosa si può acquistare nel reparto alimentare. Oltre al cibo cinese, trovandoci nel quartiere diplomatico, sugli scaffali sono esposti moltissimi prodotti occidentali; forse posso trovare i muffins, dei dolcetti assaggiati a New York. Li cerchiamo da soli ma non trovandoli chiediamo aiuto ad una commessa che, non capendo l’inglese, ne chiama un’altra. A questa spiego cosa voglio. È perplessa ma chiama a rapporto altre cinque colleghe, spiega loro cosa sto cercando e le sguinzaglia come il cacciatore fa con il proprio segugio. Siamo impressionati da tanta disponibilità, in cinque si stanno dando da fare per soddisfare una mia sciocca richiesta. Non volevo creare tanto trambusto, l’avverto che non è niente d’importante ma lei mi risponde che non c’è nessun problema, sono lì per questo. I muffins, alla fine, non li abbiamo trovati ma sono rimasto impressionato da tanta gentilezza e disponibilità; in Italia avrei ricevuto ben altra risposta.
Poco distante troviamo il mercato Xiushi nel quale sono venduti bei capi d’abbigliamento, oltre a borse e borsette ed accessori vari. Gironzoliamo per il mercatino alla ricerca di un buon affare, tutti ci invitano a comprare la loro merce.
Ogni cosa si contratta; anglosassoni e tedeschi, forse perché si vergognano o sono più ricchi di altri, abbassano di poco il prezzo e ne sono comunque soddisfatti. Una distinta signora tedesca sta contrattando un paio di guanti in pelle nera, il prezzo di partenza è di 180Y, l’osservo, se ne accorge e quasi si vergogna. Tutta contenta per l’affare paga i guanti 165Y!!! Cosa? Li si poteva tranquillamente acquistare per un terzo del prezzo di partenza, qui funziona così.
Noi, invece, non ci facciamo problemi, contrattiamo alla morte tanto da ricevere pure i complimenti – a denti stretti – di una venditrice esausta per la mia insistenza. Le ho comprato una maglia Hilfigher, perfetta a soli 100Y (circa 27.000 lire), che mi aveva inizialmente offerto per 300Y.
Mentre Paola si aggira alla ricerca di alcune borsette, sento tirare lo zaino; mi giro e trovo due cinesi, uno accanto a me e l’altro un po’ più distante. Sorridendo faccio loro capire che mi sono accorto di tutto, stavano cercando di aprirmi lo zaino che comunque non conteneva niente di prezioso. Sorpresi per essere stati scoperti si allontanano nella folla. Anche Paola fa il suo affare, acquista per se e per le colleghe di lavoro alcune riproduzioni ben fatte di borse LV.
Questo è sicuramente il luogo per turisti dove si fanno gli affari migliori; conviene, in ogni caso, controllare ciò che si compra: a volte la merce ha dei difetti o le taglie indicate sulle etichette non sono quelle reali.
Ritorniamo in Tian’anmen e veniamo fermati da tre ragazze. Una di loro vuole una foto con Paola; quello di farsi immortalare con un turista straniero è uno degli “sport” preferiti dai pechinesi. Altra usanza in voga, a Pechino come in tutta la Cina, è quella di scaracchiare camminando per strada, magari tra le gambe di qualche passante. Neanche Mao e le sue Guardie Rosse sono riusciti a proibire questa sconveniente abitudine!
È ora di ritornare in hotel, fermiamo un taxi e mostriamo all’autista il biglietto da visita del nostro albergo. Pronunciare il cinese è difficile, basta un accento sbagliato che il significato cambia irrimediabilmente. Non lo conosce; a volte ci capita non essendo uno dei classici hotel per stranieri. Proviamo con un altro, stessa risposta. Fermiamo un terzo, legge il biglietto e un po’ indeciso ci dice di salire. Tra me e me penso che non sappia dove portarci, spero di sbagliarmi. La strada non la ricordo bene, la facciamo sempre di sera e mi risulta difficile memorizzarla. Ecco, avevo ragione, ci siamo persi! Stiamo girando alla ricerca del nostro hotel, Paola si vede già rapita da chissà quali malviventi. Stiamo percorrendo strade poco affollate e buie tant’è che neanche io sono molto tranquillo. Se restiamo sul taxi possiamo passarci anche la notte, questo si è perso e non ne viene fuori! Dico a Paola di scendere e tutta impaurita mi segue maledicendo il povero tassista. Facciamo qualche metro a piedi, il posto non è dei più rassicuranti ed allora fermiamo un altro taxi, gli mostriamo il biglietto, conosce l’hotel……siamo salvi! Saliamo, svolta immediatamente a destra, percorre la strada che ha appena imboccato fino in fondo – 50 metri – ed ecco il nostro albergo!! Siamo stati seduti sul suo taxi per meno di venti secondi e ci tocca pagare come se avessimo fatto due chilometri! Va bene, ci ha un po’ fregato ma almeno ci ha portato all’hotel.
24 ottobre 2001
Oggi il tempo è più brutto del solito, minaccia pioggia, ma abbiamo deciso di andare fuori città, destinazione il Palazzo d’Estate, 25 km a nord ovest della Città Proibita. L’unica donna tassista incontrata durante la nostra permanenza a Pechino ci guida veloce e sicura alla residenza “di campagna” degli imperatori.
Il complesso, nato come giardino, venne notevolmente ampliato nel XVIII secolo dall’imperatore Qianlong che rese anche più profondo il lago Kunming usato per le esercitazioni della flotta imperiale. Nel 1860, alla fine della seconda Guerra dell’Oppio, il palazzo fu raso al suolo dagli eserciti di Francia ed Inghilterra. Tale rappresaglia fu decisa dopo che i cinesi uccisero degli emissari occidentali presentatisi alla corte imperiale con in mano una bandiera bianca. Con i soldi destinati alla costruzione di una moderna flotta, l’imperatrice Cixi fece restaurare il palazzo che subì, nel 1900 durante la rivolta dei Boxer (gli Yi Ho Tuan), l’ennesima distruzione sempre da parte degli eserciti occidentali. Tutto quello che adesso si può ammirare è stato, pertanto, completamente ricostruito.
All’entrata troviamo un simpatico e divertito bambino biondo di nazionalità inglese “bersagliato” dai flash di alcune reflex cinesi. Poco distante il Grande Teatro posto su tre piani nel quale si potevano tenere tre spettacoli contemporaneamente.
Conosciamo una coppia di americani in viaggio di nozze, sono di New York, città a me cara. Chiediamo cosa pensano gli USA dopo gli attentati terroristici ed il ragazzo mi risponde che ha visto tutto; la loro casa si trova nel New Jersey, proprio di fronte a Manhattan. Il popolo americano è per la prima volta impaurito e grida vendetta.
Passeggiamo sotto lo splendido Lungo Corridoio. Secondo un detto cinese il corridoio è così bello e lungo che, se due ragazzi che non si conoscono si incontrano ad un’estremità e lo percorrono, quando arrivano in fondo si sono sicuramente innamorati. Passeggiamo senza meta in completo relax, incrociamo numerose scolaresche in gita ed i bambini salutano divertiti i turisti che incontrano.
Dopo aver trascorso alcune ore in questa residenza estiva dell’imperatore ed aver passeggiato lungo la via Suzhou, guadagniamo l’uscita e raggiungiamo in pochi minuti il Parco delle Colline Profumate.
Siamo in autunno e le foglie rosse d’acero, che vengono addirittura vendute, colorano il parco che un tempo veniva utilizzato dai quadri del partito comunista come luogo di villeggiatura. Fa un po’ di freddo e cade una leggera pioggerella, ci arrampichiamo su per la collina fino al Tempio delle Nuvole Azzurre, in una cui sala priva di luce, si trovano le statue di 508 Luohan – discepoli del Buddha – tutti con un viso diverso l’uno dall’altro. Scendiamo rapidamente fino ad un lago artificiale, tutt’intorno ragazzi in gita giocano chiassosi. Ce ne stiamo ad ammirare l’incredibile spettacolo delle foglie d’acero, sembra di essere in Canada.
Le ragazze, anche a detta di Paola, sono tutte molto belle; i ragazzi, invece, non lo sono affatto e più invecchiano più si imbruttiscono. In Cina, come in altri Paesi dell’Estremo Oriente o del Sud Est Asiatico, le donne sono molto più belle degli uomini; sono più graziose e raffinate, i maschi invece sono alquanto grezzi e poco curati nell’aspetto fisico.
25 ottobre 2001
Giorno di relax, anche perché un fastidioso raffreddore ci ha colto di sorpresa. Andiamo allo Zoo cittadino. Non ne ho mai visto uno così trascurato, sarà per la stagione o cos’altro, ma questo zoo è come un pugno allo stomaco. I pochi animali presenti sono veramente tristi; invece di scorrazzare per foreste o giungle, sono rinchiusi in questo bruttissimo posto.
Siamo venuti solo per vedere il famoso panda; per visitare il suo habitat si paga un supplemento. Entriamo in un ambiente caldissimo, numerose sono le vasche con i rettili, in fondo, dietro ad un vetro, dormono appollaiati sui dei tronchi due panda. Il classico mantello bianco e nero è ormai bianco e marrone, probabilmente non li lavano neanche. Altri sono in un recinto all’esterno all’edificio, anche questi sono sporchi e dormono pesantemente.
Ritorniamo in Piazza Tian’anmen per vistare il Mausoleo di Mao. Una fila interminabile ci fa desistere dall’intento di vedere la salma di colui che è stato tanto importante per il popolo cinese, nel bene e nel male.
Ce ne andiamo allora al mercatino Xiushui; voglio comperare un’altra maglia Hilfigher e ci dirigiamo sicuri verso la negoziante di qualche giorno prima. Non mi riconosce, mi spara nuovamente un prezzo assurdo, le dico che le ho già comperato una per 100Y. Il marito mi riconosce e l’avverte, rassegnata e anche un po’ scocciata mi consegna la maglia e a denti stretti mi invita a fare affari da altre parti. Sono un osso duro nelle contrattazioni!
Visitiamo anche il mercato di Yubao Lu situato nelle vicinanze. Ci troviamo in un quartiere russo, lo si vede anche osservando le insegne di negozi e ristoranti, i nomi sono anche in cirillico. Scorrazziamo per il mercato, quasi tutti sono negozianti di origine russa, poche le cose veramente interessanti.
Tutt’intorno i vecchi, che avvizziti arrancano nelle strade, indossano vestiti lisi dai colori spenti. Si riposano in minuscoli giardini e, mentre chiassosi bambini giocano e scherzano, loro silenziosi accennano lenti movimenti per mantenersi in forma. No, non si tratta del tai chi che fa danzare uomini e donne di tutte le età nei parchi, alla mattina. All’interno di questi giardini, accanto ai giochi per bambini, sono sistemate delle vecchie e sgangherate macchine ginniche che imprigionano questi vecchi stanchi e li guidano in salutari movimenti.
Siamo nel quartiere musulmano, cinesi di razza uighur, una delle tante minoranze, popolano questa zona di Pechino. A tratti sembra di stare in Medio Oriente, i lineamenti delle persone che vi abitano sono molto diversi da quelli della razza predominante han. Capretti ed agnelli sono esposti, anzi buttati sui marciapiedi; l’igiene non è di casa da queste parti, qui più di altri posti. La moschea vicino attira i fedeli per le preghiere giornaliere, alcuni parrucchieri di strada tagliano i capelli a uomini e donne che parcheggiano le loro biciclette lungo il marciapiede.
Ragazzi in tuta da ginnastica colorata escono da scuola. Sono le loro divise, orribili tute sintetiche, niente a che vedere con quelle aristocratiche portate nei paesi anglosassoni. Chiediamo loro dove possiamo trovare un ufficio postale, dobbiamo spedire le cartoline. Niente da fare, non parlano l’inglese, altri si vergognano e nascondono il loro imbarazzo in un timido sorriso. Troviamo l’ufficio postale, anche lì non ci capiscono ma sono molto disponibili ed alla fine riusciamo a spedire le nostre cartoline.
L’unica difficoltà che si affronta, visitando il Paese, è l’impossibilità a dialogare con la maggior parte delle persone che si incontrano. Anche i giovani, sui quali confidavamo, si sono dimostrati poco abili nel parlare l’inglese, lingua che ormai, nel mondo, tutti conoscono.
26 ottobre 2001
Altro giorno di completo relax a zonzo per la città alla ricerca degli ultimi souvenir; tanti ormai si trovano anche in Italia e al nostro ritorno avremo modo di verificarlo. Stiamo guardando la mappa, un distinto signore si avvicina ed in un bell’inglese si offre di aiutarci. Non siamo in difficoltà, lo ringraziamo ma non ne abbiamo bisogno. Le persone che incontriamo sono gentilissime, anche se non hanno interesse di alcun tipo sono sempre molto disponibili.
Paola, come tutte le donne, ha l’abitudine di recarsi alla toilette più volte al giorno, anche nei momenti meno indicati. Trascorriamo la nostra vacanza alternando musei, palazzi e toilette! Quando mi dice che deve andare al bagno le chiedo quanto può resistere; dopo mezz’ora o al massimo un’ora raggiunge “l’agognata meta”.
Stiamo passeggiando in Dazhalan Jie, ad un certo punto mi fermo e con aria terrorizzata la informo che devo andare in bagno; sorridendo mi chiede <<quando?>> ed io le rispondo….<<adesso!!!>>. Cerchiamo disperatamente una toilette, tutt’intorno solo negozi e ristoranti, nessun bagno pubblico! Corro di qua, corro di là, niente da fare, non ce ne sono. Ormai disperato mi “catapulto” in un ristorante, chiedo dov’è la toilette, mi fanno cenno di sopra, “brucio” le scale ma del bagno non c’è traccia. Scendo gli scalini ad una velocità supersonica, corro verso la cucina, ecco il bagno! Passo la porta, davanti a me due “turche”, una è chiusa mentre l’altra è aperta; la spalanco e……trovo un signore in una posizione di “massima concentrazione”! Richiudo ed incomincio a sudare, saltello…..bastaaaa! Sono lì e lì per raggiungerlo – non mi frega niente dell’intimità, non ne posso più – quando questo esce e…….. Ma la maledizione di Montezuma non ti colpisce solo in Messico!?!?
All’estremo sud di Piazza Tian’anmen un nugolo di persone ha fatto capannello, un taxi ha “invaso” la corsia ciclabile per far scendere un cliente ed è stato fermato dalla polizia. Mi avvicino, ovviamente non capisco niente di quello che dicono; il povero tassista si lamenta con la polizia che non vuol sentire ragioni. Hanno chiamato un carro attrezzi per portagli via l’auto; la gente tutt’intorno, ad una distanza di mezzo metro, segue la scena in silenzio. Chiamo Paola vicino a me e come Benigni nel film “la Vita è bella” traduco la conversazione inventandomi le parole. Paola è divertita, il tassista meno, continua a lamentarsi, sempre in modo cortese, ma i poliziotti non desistono. Ad un certo punto dice qualcosa di troppo, lo prendono e lo portano via…..e tutto per un’innocua invasione di corsia! In Italia nessuno ci avrebbe fatto caso.
È ormai una settimana che giriamo in lungo ed in largo, in più siamo raffreddati e stanchi, decidiamo così di andarcene nel Parco Zhongshan per riposarci prima di cenare. Ritorniamo nel nostro ristorantino preferito, è l’ultima volta che ci mangiamo e ci dispiace. Gironzoliamo ancora per le bancarelle di cibo, cerchiamo di memorizzare questo posto a noi caro, probabilmente non lo rivedremo più. Torniamo in hotel, dobbiamo preparare le valige, domani si parte.
27 ottobre 2001
Ci dispiace lasciare questa città bellissima e questo popolo altrettanto meraviglioso, il breve periodo passato a Pechino rimarrà sempre nei nostri cuori.
Arriviamo in aeroporto di buon ora, paghiamo la tassa internazionale di 90Y prevista per i voli internazionali ed entriamo nella zona riservata alle partenze, non senza aver salutato la stessa guida del CITS che ci aveva accolto al nostro arrivo e che aveva tentato di rifilarci una escursione “turistica” alla Grande Muraglia. Ci ha chiesto se alla fine siamo andati a Badaling e alle Tombe Ming, le abbiamo risposto che abbiamo trovato un gruppo di italiani e ci siamo aggregati a loro; sembra contrariata ma a noi non importa.
Siamo in fila al controllo passaporti, c’è molta gente e siamo costretti ad aspettare un po’. Nel frattempo scambiamo quattro chiacchiere con una famiglia italiana; sono lombardi ma ormai vivono a Pechino da qualche anno. Stanno ritornando a casa per una breve vacanza, i bambini vanno in una scuola cinese e parlano la lingua. Sono molto cordiali e ci chiedono della nostra esperienza, rispondiamo loro che siamo entusiasti di questa vacanza e ci duole dover abbandonare questo posto dopo così poco tempo. Ci confidano che a Pechino stanno bene ma sentono un po’ di nostalgia dell’Italia, in particolare i bambini. Per quest’anno la mamma ed i figli resteranno a Milano perché il più grande deve fare gli esami di quinta elementare, poi ritorneranno a Pechino. Sono un po’ invidioso, mi ricordano tanto un’altra famiglia, guardo i bambini e mi sembra di vedere Folco e Saskia……(i figli di Tiziano Terzani).
C’imbarchiamo sul Jumbo diretto a Francoforte. Uno degli ultimi a salire a bordo è un distinto signore arabo, con un grande bagaglio a mano. Non riesce a deporre la propria valigia nello scomparto; l’aereo è pieno di turisti che hanno fatto razzia di souvenir, si sono portati dietro di tutto e hanno occupato ogni centimetro di spazio disponibile. Decide allora di mettersela tra le gambe ma si trova di fronte all’uscita d’emergenza; un’hostess gli chiede di spostarla perché in quel modo intralcerebbe il passaggio nel caso ce ne fosse bisogno. È scocciato, si rifiuta di spostarla e se la prende per il fatto di non aver trovato posto per la sua valigia. L’hostess è irremovibile, il passeggero pure; entrambi tengono la valigia per il manico ed inizia così un tira e molla tra lo sguardo allibito e divertito degli altri passeggeri. È costretto ad intervenire il pilota che minaccia di non partire se il bagaglio non viene spostato dall’uscita di sicurezza. Il signore, rassicurato dal fatto che la valigia troverà posto nella cabina di pilotaggio, si tranquillizza…..finalmente si parte. Decolliamo e dopo un volo interminabile comprensivo di scalo a Francoforte siamo di nuovo a casa.
Finalmente un po’ di riposo, anche per ripensare alla bella vacanza appena passata.
<<C’era una volta, in un paese lontano, una bellissima città. Aveva ricchi palazzi, splendidi templi, coloratissimi archi di trionfo, magnifici giardini e migliaia di armoniose case grigie, ognuna costruita attorno ad un tranquillo cortile, tutte allineate lungo lo schema regolare di strade e vicoli come su una scacchiera. Tutto attorno, per ventisei chilometri, aveva alte mura, imponenti. Le mura avevano magnifiche porte, a guardia delle quali stavano leoni di pietra. Era una città sacra, costruita sul bordo di un deserto, secondo un progetto che era venuto direttamente dal Cielo>> scrive Terzani. La Città, nell’ultimo secolo, è profondamente cambiata; molti edifici sono stati distrutti o depredati durante la Rivoluzione Culturale.
Non ci sono più i magnifici pai lo – gli archi di trionfo – eretti per onorare la castità di qualche vedova, la fedeltà di qualche mandarino, la rettitudine di qualche generale. Rappresentavano la Cina feudale, per questo furono rasi al suolo.
Le splendide mura della città – risparmiate persino dalle truppe occidentali che misero a ferro e fuoco Pechino durante la Rivolta dei Boxer – erano viste come “una catena ai piedi della capitale” che come tale “ne impedivano lo sviluppo”, anche queste furono abbattute, di notte per evitare di scatenare l’ira della popolazione che si vedeva privare della loro magica protezione. Dove una volta esse si ergevano, scorre ora l’autostrada che circonda la città.
Centinaia di luoghi sacri, “dimora di false credenze”, furono ridotti in polvere, altri ancora vennero “riadattati”: il Tempio della Colta Saggezza divenne una fabbrica di fili elettrici, quello del Dio del Fuoco una di lampadine, quello delle Cinque Pagode divenne una scuola per i cani della polizia, e così via. Non tutti i templi, però furono distrutti o convertiti: per dar credito al fatto che il Partito riconosceva la libertà di religione, alcuni, più importanti, vennero risparmiati.
Il Palazzo del Principe Gong, fu trasformato in una fabbrica di condizionatori d’aria; altre residenze aristocratiche diventarono sede di ministeri o uffici pubblici.
Milioni di libri furono bruciati dagli stessi proprietari che temevano il giudizio delle Guardie Rosse e del Partito. Stessa sorte toccò agli oggetti d’arte, alle marionette del Teatro delle Ombre; vasi antichi, statue, qualunque cosa fosse di metallo e non servisse per arare venne fusa per produrre strumenti di lavoro e permettere il “Grande Balzo in Avanti” tanto invocato da Mao.
Il repertorio dell’Opera di Pechino, che aveva più di duemila pezzi, venne drasticamente ridotto; se ne salvarono solo una dozzina. Tutti quelli che avevano come personaggi positivi proprietari terrieri o magistrati dell’antico regime furono banditi.
Pechino è profondamente cambiata e lo sta facendo tuttora; rimane, però, una città incantevole, una città di forti contrasti. Enormi e moderni grattacieli trovano posto accanto a piccoli e sporchi hu tong; le poche siheyuan rimaste stanno, inesorabilmente, lasciando il posto a moderni e anonimi palazzoni.
Non si vedono cani, a passeggio. Quei pochi che ci sono forse non si fanno vedere per la paura rimediata ai tempi di Mao. Nei primi anni Cinquanta i cani ed altri animali domestici – grilli, uccelli, gatti…. – furono uccisi. Ufficialmente perché avevano la rabbia o perché, come spiegarono alcuni membri del partito alla stampa occidentale, portavano terribili batteri dispersi nell’aria in seguito alla guerra batteriologica che gli americani avevano intrapreso in Corea. La vera ragione è che l’allevare animali non piaceva ai maoisti, era considerato uno “spreco borghese”; qualcuno azzardò che i cani disturbavano la polizia segreta che di notte arrestava spie e controrivoluzionari.
Nel 1958 ci fu la campagna contro i passerotti perché, si dice, qualcuno a Pechino pensava che mangiassero troppo. In tutta la Cina con bandiere, pentole, tamburi, si fece per giorni un baccano infernale. Milioni e milioni di uccelli, di ogni specie, impauriti da tanto frastuono e stanchi di volare non potendosi appoggiare da nessuna parte, finirono per cadere al suolo, morti.
Errori, errori, errori……i cinesi li hanno minimizzati, li hanno dimenticati o attribuiti a pochi colpevoli (la Banda dei Quattro). Senza questi errori molte cose in Cina sarebbero diverse, molte cose si potrebbero ancora vedere, molte cose si sarebbero salvate dalla furia cieca delle giovani Guardie Rosse.